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Conclusione sul presunto gruppo di sonetti d’amore per Piero Mannelli

I sonetti che abbiamo isolato e analizzato sono esempi di canto d’amore rivolto a un uomo. Li abbiamo considerati parte di un poemetto, o di piccolo canzoniere, autonomo rispetto alla raccolta e dotato di uno svolgimento narrativo coerente. La suite è inaugurata dal sonetto Poi che mi diè natura a voi simile, composto da Tullia in tenzone con Piero Mannelli, giovane fiorentino e ‘poeta’. Se leggiamo il v.8, notiamo che la poetessa scrive: «se bene a voi non ho pari lo stile»; il verso apparentemente non lascia alcun dubbio e qualifica Mannelli come poeta, ma il fatto che non vi sia traccia di una produzione lirica di quest’ultimo ci impedisce di discutere del suo valore, oltre a mettere in discussione questo aspetto della sua identità. I dubbi però si dissolvono se assumiamo che Tullia nel sonetto tratta Mannelli con compassata ironia: Piero Mannelli, una personalità modesta, un dilettante della poesia, è qualcuno di cui Tullia può prendersi gioco, seppur bonariamente; non così, ad esempio, con un Benedetto Varchi o un Pietro Bembo. Se leggendo Poi che mi diè natura a voi simile giungiamo a intuire l’essenza della natura di Tullia, la sua passionalità irrequieta e la garbata vivacità del carattere, che si riflettono nel modo di comporre, nel sonetto n.15, intitolato A Monsignor Cardinal Bembo, ella torna la verseggiatrice cortigiana, misurata e attenta a non indulgere agli eccessi, come si addice a chi è virtuoso:

Bembo, io che fino a qui da grave sonno187

oppressa vissi, anzi dormii la vita, hor da la luce vostra alma infinita, o sol d'ogni saper maestro, e donno, desta apro gli occhi, sì ch'aperti ponno scorger la strada di virtù smarrita: ond'io lasciato ove 'l pensier m'invita de la parte miglior per voi m'indonno: et quanto posso il più mi sforzo anch'io, scaldarmi al lume di sì chiaro foco, per lasciar del mio nome eterno segno.

187 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE EDC. Il componimento occupa la posizione n°15 nella ra ccolta di rime dell’Ara gona .

Et, o non pur da voi si prenda a sdegno mio folle ardir, che se 'l sapere è poco, non è poco, Signor, l'alto disio.

L’autorità di Bembo è talmente grande da indurre Tullia a innalzare lo stile. Un dato importante, però, balza all’occhio del lettore: il sonetto contiene forti echi danteschi, per esempio il motivo del torpore e del sonno, che indica l’oscuramento delle facoltà intellettuali; nel v.2, per ribadire questo concetto, Tullia scrive: «dormii la vita»: un uso sapiente del verbo ‘dormire’, che si comporta come transitivo e assume per complemento oggetto “vita”, che in clausola di verso diventa parola-chiave nel componimento, ospitante, come di consueto, la riflessione di carattere morale sull’esistenza. Di sapore dantesco anche il riconoscimento di Pietro Bembo come «maestro e donno» al v.4; il sintagma, com’è noto ricorre identico in Inf. XXXIII, 28: «Questi pareva a me maestro e donno». ‘Donno’ deriva dal latino dominus, e Dante lo usa anzitutto nel suo valore di appellativo onorario in uso in Sardegna, al posto del toscano ‘messere’; la prima volta, infatti, compare in Inf. XXII, 83 e 88, riferito a due personaggi di quella regione. Poi, però, acquisisce il termine per sé e lo fa usare al pisano Ugolino, nel senso metaforico di guida. Nel sonetto di Tullia la parola «donno» forma al v.8 una rima inclusiva con «indonno», raro verbo parasintetico –‘indonnarsi’ –, che vuol dire farsi signore, impadronirsi. Il riferimento è ai sentimenti e alle qualità morali migliori («de la parte miglior») che, per influsso di Bembo, si appropriano di Tullia. Egli è come un novello Virgilio, in grado di condurre l’anima di lei verso una «strada di virtù» che ella ha «smarrita».

La scelta della poetessa di incastonare le parole di Dante in un sonetto dedicato a Bembo è molto interessante. Nelle Prose della volgar lingua l’importanza di Dante viene notevolmente ridimensionata; si può dire che il trattato giunga a condizionare negativamente la considerazione dantesca nel XVI secolo. Di fatto, gli exempla188 di Boccaccio e di Petrarca contenuti in esso, rispettivamente 289 e 118, superano di gran lunga quelli di Dante, che sono appena 40; fra l’altro, osservando le citazioni dalla Commedia, ci accorgiamo che la loro distribuzione è

188 Scopo del tra tta to è codifica re la lingua volga re; essendo le regole gra mma tica li dedotte diretta mente da lle fonti lettera rie, la qua lità e la qua ntità degli exempla cita ti ha un importa nte va lore progra mma tico.

alquanto disomogenea, dato che 24 sono quelle attinte dall’Inferno, 11 quelle dal Purgatorio e solo 3 dal Paradiso189. Quindi Bembo condanna “la veste linguistica

della Commedia della discesa agli inferi, non si sofferma sulla cantica del Paradiso, di gran lunga linguisticamente differente rispetto all’Inferno.”190.

Questo perché, per dirlo con le parole di Marazzini:

Bembo non accettava certe scelte lessicali della Commedia […] che si caratterizzavano per l’asprezza realistica e cruda, per la discesa verso particolari “forti” nei contenuti, ed espressi con un linguaggio caratterizzato dalle allitterazioni consonantiche. […] Bembo non apprezzava affatto le discese verso il basso, le contaminazioni realistiche, le asprezze verbali.191

Il suo gusto classicistico lo portava a prediligere, invece, il mantenimento costante di un’elegante misura espressiva. Per questo Bembo esclude Dante dal novero dei modelli di perfezione stilistica e istituisce il confronto tra una serie triplice di coppie binarie, ciascuna formata da un poeta e da un prosatore: la lingua greca poteva vantare la coppia Omero/Demostene; la lingua latina Virgilio/Cicerone e la lingua italiana Petrarca/Boccaccio.

Ma allora perché l’Aragona sceglie di usare le parole di Dante, se il suo scopo è instaurare un rapporto fecondo con Pietro Bembo? 192 Questi, fra l’altro,

non le risponderà mai e, al momento della pubblicazione della raccolta, nel 1547, sarà già scomparso. Il 1547 è anche la data della morte di Vittoria Colonna, con la quale Bembo formava un’autorevolissima coppia letteraria. Si potrebbe forse ipotizzare che dietro a queste scelte lessicali ci fosse l’influenza di Benedetto Varchi, con il quale era invece Tullia a “far coppia”. Varchi, come sappiamo, si farà portavoce di un recupero della lezione dantesca e di un decisivo cambiamento di vedute nell’ambito della questione della lingua: oltre alla lingua di tutte e tre le Corone si dovrà guardare con rispetto anche alla lingua parlata dal popolo fiorentino. Insomma, che la scelta di Dante da parte di Tullia sia cercata, il riflesso 189 Cfr. P. Ortola no, Dante e la codificazione grammaticale nel XVI secolo , in «Lingue e lingua ggi», 33, 2019, pp. 251-267.

190 Ivi, cit., p.259.

191 C. Ma ra zzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di dibattiti sull’italiano, Ca rocci editore, Urbino, 1999, p. 43.

192 Fra l’a ltro il componimento occupa una posizione molto rileva nte, da l momento che segue la serie “politica” (i sonetti 1-14) dedicata alla famiglia medicea. Hairston parla, a questo proposito, di “proemial literary sonnet”.

di un modo di pensare e di concepire la letteratura è possibile; in ogni caso il sonetto non è attraversato né da polemica e neppure da ironia, anzi, la poetessa mantiene un atteggiamento deferente nei confronti del destinatario.

Si confrontino le terzine finali del presente sonetto con le corrispondenti del sonetto dedicato a Mannelli193: il contenuto è identico, la poetessa desidera elevarsi,

a mezzo della poesia, per raggiungere una fama imperitura; ma questo tema viene snocciolato in due modi diversi, a seconda di chi è l’interlocutore: nel sonetto a Mannelli, Tullia opta per una composizione più semplice e schietta, dalla tonalità lievemente salace: ella ci appare fiduciosa nelle sue capacità artistiche ai limiti della spavalderia, a fortiori dialogando con una persona di abilità ritenuta pari o inferiore alla propria; diversamente, a Bembo si rivolge esclusivamente lodandolo ed esaltandone i valori morali, la qual cosa è, d’altra parte, un espediente comune della letteratura cortese: l’innalzamento del dedicatario ha il fine di intesserne l’elogio, mentre il – in questo caso la – dedicante va incontro a uno speculare abbassamento. A Bembo racconta dei suoi sforzi per raggiungere l’oggetto del suo «folle ardire», cioè l’autopromozione e forse redenzione cui mira attraverso la poesia, un obiettivo quasi pretenzioso, data l’umiltà del suo sapere, che viene però compensato dalle più nobili intenzioni.

Nel sonetto a Bembo la relazione tra i due interlocutori è sbilanciata a sfavore di Tullia, e ciò si percepisce dalla scrittura e composizione del sonetto, viceversa in Poi che mi diè natura a voi simile. Non sappiamo se dietro il nome di Piero Mannelli si nasconda realmente un autore di liriche, ma è chiaro che egli è, più d’ogni altro interlocutore di questa raccolta, il portavoce di un pubblico di lettori che è universale, e con il quale Tullia desidera misurarsi.

Il tema della tenzone proposta da Mannelli a Tullia è l’amore, di conseguenza le liriche che seguono il sonetto a lui dedicato parlano tutte d’amore. Non vi è altro luogo della raccolta destinato alla trattazione di questo specifico tema. Ciò perché per l’Aragona rappresenta un argomento delicato, date le difficoltà legate alla propria iniziazione, intellettuale e umana, nella società letteraria fiorentina, prevalentemente maschile; per lei che, oltretutto, partiva da una 193 «Non lo credia te, no, Piero, ch’a nch’io/fa tico ognihor per a ppressa rmi a l cielo,/e la scia r del mio nome in terra fama.// Non contenda rea sorte il bel disio,/che pria che l’alma dal corporeo velo/si scioglia , sa tierò forse mia bra ma .//».

posizione svantaggiata, costretta com’era a far la cortigiana per vivere. In altre parole, le interferenze sentimentali devono essere bandite dalla silloge poiché in qualche modo tradiscono il suo retaggio e possono essere oggetto di malignità. Per questo Tullia si limita a brevi accenni, e la sua esperienza nel mondo dell’eros resta sempre sullo sfondo; Tullia petrarcheggia, ma sempre dissimulando la sua vera vita sotto il paramento di una poesia per lo più celebrativa. Probabilmente – è solo un’ipotesi – il Mannelli di questo s’accorge e la pungola affinché si apra a una poesia più intima, come impone la tradizione letteraria di riferimento. Tullia accoglie la provocazione con certo trasporto, onde dimostrare che anche lei è capace di comporre versi d’argomento amoroso. Secondo noi non è casuale che alla poesia intitolata A Piero Mannelli seguano sei sonetti ascrivibili proprio a questo tema. Detto altrimenti, il sonetto Poi che mi diè natura a voi simile è la scaturigine dei sei componimenti successivi: Amore un tempo in così lento foco, Felice speme, ch’a tant’alta impresa, S’io ’l feci unqua, che mai non giunga a riva, Se ben pietosa madre unico figlio, Se forse per pietà del mio languire, Ov’è, misera me, quell’aureo crine: la dimostrazione pratica che Tullia, in quanto poetessa, è in grado di sostenere qualunque argomento, non ultimo quello amoroso. Le poche poesie ispirate da amore, in questa silloge nata sotto altri auspici, vanno pertanto recepite come un fenomeno peregrino, motivato da una ragione: dimostrare il proprio valore artistico.

Capitolo quarto