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In questo capitolo affronteremo l’analisi di due componimenti che potremmo definire inconsueti; il primo è molto noto, è il sonetto Al predicator Ochino, il numero venticinque della silloge; il secondo, senza intestazione, è il trentaseiesimo, Se materna pietate affligge il core, nel quale figura il personaggio della cagnetta Lilla.

Prendiamo le mosse dalle osservazioni di Benedetto Croce, che nel 1931 sulla rivista «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia», di cui è anche direttore, pubblica un intervento sul Cinquecento poetico, muovendo dall’accusa di accademismo che è stata rivolta universalmente alla lirica di quel secolo, e scrive:

Certo i poeti d’allora erano quasi sempre buoni letterati, e letterati i non poeti, la mediocrità e il volgo dei verseggiatori, disciplinati anch’essi dal Petrarca e dal Bembo; diversamente dalla mediocrità e dal volgo poetante di altri tempi che, pur nella loro nullità poetica, non peccano di letteratura o, almeno, non di buona letteratura. Donde l’impressione di accademismo, accresciuta dal trattamento che letterati e grammatici e linguai, e anche i compilatori di antologie, hanno usato, verso quegli scrittori, riguardandoli quasi soltanto dal lato retorico.194

L’idea che alimenta quest’’impressione di accademismo’ è che non ci sia corrispondenza tra la scrittura dei versi e gli ‘affetti reali’ di poeti e poetesse.

Ora, noi ci allineiamo al pensiero di Croce, che avvalora la produzione lirica cinquecentesca nella sua vastità e varietà, ricavando esempi di originale bellezza. Se sostenessimo la posizione contraria e avessimo una visione negativa-detrattiva del petrarchismo, ad esempio, ci convinceremmo che la scrittura si esaurisce in una pedissequa imitazione del Canzoniere di Petrarca, o delle Rime di Bembo, e troveremmo pedestre questa poesia rimasticata e impersonale. Invece, come Croce,

194 B. Croce, La lirica del Cinquecento, in «La Critica . Rivista di Lettera tura , Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 29, 1931. Ed digitale: CSI Biblioteca di Filosofia. Università di Roma “La Sapienza” – Fondazione “Biblioteca Benedetto Croce”.

intendiamo smussare prese di posizione così rigide, che rischiano di sminuire quello che è stato un fenomeno culturale di grandissima rilevanza soprattutto nel Cinquecento.

Il Petrarchismo nasce intorno alla seconda metà del ’400, epoca in cui, sull'esempio di Petrarca, si torna a comporre lirica d'amore nell’ambiente delle grandi corti. A quell’altezza Petrarca non è ancora un modello esclusivo: lo diventerà nel Cinquecento, grazie alla figura di Pietro Bembo, che darà al movimento un’identità più precisa e delle vere e proprie regole. Egli è un grande umanista, un filologo, un luminare nel campo degli studi classici latini, ma è anche molto attento e sensibile alle cose scritte in lingua volgare. È a lui che si lega la nascita del cosiddetto “petrarchismo regolato” – per usare un’espressione di Marco Santagata. Gli studiosi hanno speso fiumi di parole per raccontare la vicenda dell’edizione a stampa del Canzoniere curata da Bembo per l’editore Manuzio e della sua enorme diffusione, grazie al piccolo formato e alla disponibilità di copie che, distribuite su tutto il territorio italiano, crearono per la prima volta un mercato della cultura condiviso su base nazionale; le poesie di Petrarca da quel momento non furono più appannaggio esclusivo delle corti, ma entrarono nelle case private delle persone e dentro le Accademie. Nel 1525 Bembo pubblica il dialogo in volgare intitolato Prose della volgar lingua, che si impone come il caposaldo teorico alla pratica del petrarchismo; poi, nel 1530 pubblica a stampa le sue Rime, con le quali fornisce un esempio concreto di quanto aveva prima teorizzato. Benché le Rime non siano un canzoniere vero e proprio, nel senso che non possiedono una struttura organica costituita da una storia d'amore per un'unica donna, condividono con il modello lo stesso vocabolario, gli stessi motivi e le stesse immagini, mettendo in risalto una scrittura limpida, pulita e monotonale, che non dà adito a commistioni con altri generi letterari. Da quel momento in poi Petrarca diviene il modello classico privilegiato della letteratura in volgare per tutti gli aspiranti rimatori che, a partire da un codice espressivo condiviso, sperimentano un ventaglio di temi, occasioni e motivi più ampio e diversificato di quanto lo stesso Petrarca non facesse nei suoi Fragmenta.

Fatta questa premessa, torniamo dunque a Croce e alla sua ricerca di realismo. Nell’articolo sopracitato, dopo una disamina di poeti che composero versi

che lasciavano trapelare un profondo e consapevole legame con la storia politica del tempo – in particolare Giovanni Guidiccioni, Luigi Alamanni, Marco Tiene e Antonio Caracciolo –, Croce passa in rassegna le voci femminili da lui ritenute più veraci, “che parlano di amori e di affanni per nulla letterari e retorici”195. Comincia

con la sventurata Isabella di Morra, che sognava la libertà entro le mura del “selvaggio castello di Basilicata dov’era costretta a vivere, esule il padre con gl’inselvatichiti fratelli”196; poi, cita la senese Virginia Salvi, corrispondente di

Pietro Bembo nelle Rime sotto lo pseudonimo di Cinzia; la ferrarese Aurelia Roverella, sospesa tra la meraviglia e il timore verso un amore privo di scompiglio; e continua con la celeberrima Laura Battiferri; la veneta Alla Armani; l’umbra Francesca Turrini Bufalini; dopodiché cita il nome di Tullia d’Aragona, riguardo alla quale egli osserva:

Era la Turrini una dama e fu, per nozze, contessa di Stupinigi, e nei suoi versi si rispecchiano le vicende della sua vita. Non così in quelli di Tullia d’Aragona che rifulse cortigiana in Roma, in Venezia, in Ferrara, in Firenze e in altre città d’Italia, segnatamente tra letterati e poeti, ma che seppe gettar nell’ombra la sua vita pratica e portare sulla scena letteraria solamente la decorosa favola che le piacque comporre; nella quale si raffigurò degnamente ardente di spirituale amore e assetata di lasciar nobile fama di sé con le congiunte opere dell’ingegno suo e di quello dei letterati amici, che la celebravano e che essa incitava a celebrarla.197

Abbiamo visto che in tutti i sonetti dell’Aragona affiorano lo sdegno, la malinconia e la tristezza nei confronti della vita della cortigiana. A differenza di Veronica Franco, a suo agio con la professione che aveva abbracciato con leggerezza – e per ‘leggerezza’ non intendiamo superficialità –, per Tullia la miseria è di essere una figlia dell’arte, come sua madre prima di lei, e non la donna onesta e nobile in cui vorrebbe riconoscersi. Questo affannarsi in direzione fermamente contraria alla vita toccatale in sorte è un motivo cardinale nella raccolta.

Nel capitolo precedente l’abbiamo vista cimentarsi nella materia amorosa, argomento spinoso e non privo di suggestioni, che rinvia al suo vissuto personale. Analizzando le liriche d’amore abbiamo avuto l’impressione che il sentimento da 195 B. Croce, La lirica del Cinquecento, cit., p.7.

196 Ibidem.

lei cantato non fosse del tutto reale, e che tali rime fossero nate per gioco, anzi per sfida, su condizionamento di un Piero Mannelli, poeta ignoto, che ne aveva ferito l’orgoglio di aspirante intellettuale. Anche se Tullia canta l’inizio, l’evoluzione e l’epilogo del suo amore letterarionei confronti di un uomo, in alcuni componimenti della suite – si pensi a Qual vaga Philomena, che fuggita –, l’argomento principale rimane il dissidio interiore nei confronti della vita da cortigiana, che è l’aspetto più caratteristico dell’opera. In ogni caso, scorrendo i sonetti si intuisce che i desideri vani, il tormento, l’infelicità d’amore non sono temi esclusivamente dotti, bensì esperienze realmente vissute e a lei tristemente familiari. In altre parole, la poesia di Tullia non è un mero esercizio di scrittura, e anche se modellata sulla tradizione poetica di riferimento, che passa attraverso il filtro del neoplatonismo, racchiude qualcosa di intimo e di vero. A proposito di questo, Croce, nel vagliare esempi di ‘realismo’ nella poesia di Tullia d’Aragona, riporta all’attenzione dei lettori un componimento inedito di cui menziona alcuni versi sufficienti ad accreditare la sua opinione: se Tullia, a mezzo di liriche e di scambi epistolari, maschera la vita pratica per lasciar nobile fama di sé – e porre in risalto quella “figura elegantemente spiritualizzata”198 con cui identifica se stessa –, nel seguente scritto non ufficiale si

lascia sfuggire qualcosa che è più conforme al suo spirito vivace, confessando certe sue piccole miserie con parole di sorprendente spontaneità. Si tratta di una supplica, in forma di capitolo in terza rima, indirizzata a Cosimo I; l’intestazione recita: All’eccellentissimo Signor Duca di Fiorenza. Su una prammatica sul vestir delle donne, fatta dal duca. Si legga:

Signor, che per gra ndezza e per bonta de199 tra pa ssa te color che posti in cima

da n legge a l mondo in questa nostra eta de200, non vengo a loda r voi con ba ssa rima , 5 perch’io non voglio sulle spa lle il cielo, né ta nto il poco mio sa per si stima . Ma qua lunque non è di stucco o gielo So che aperto dirà, ch’un vivo sole Sete d’alta virtù, senz’alcun velo. 10 Qui non fa n di bisogno a ssa i pa role; che la vostra profonda provvidenza discorre dritta mente, intende e vuole.

E puossi da r questa breve a vvertenza; che chi cerca de’ principi l’esempio, 15 miri il gra n Cosmo, duca di Fiorenza .

In voi si sta , come in suo proprio tempio, e giustizia e clemenza a tutte l’ore; onde ne spera e teme il buono e l’empio: quella prima mi pon freno e timore; 20 l’altra mi porge ardire, e m’assicura

ch’io vi discopra quel che chiudo in cuore. Tanto più ch’ei potrebbe, per ventura, pa rer quel ch’io vi chieggo e giusto e sa nto, se l’interesse il veder non mi fura.

25 Ei non si potria ma i ridir con qua nto a lto giudizio provveduto a bbia te, che ’l soperchio ornamento stia da canto; perché le donne, che sono svoglia te, e bra ma n ogni dì fra sche e novelle, 30 venghin da questa legge ra ffrena te: che vera mente è ben fa tta per quelle ch’hanno tanto favor dalla natura,

che, a cconcie e sconcie, pa iono e son belle; non già per me, che sono una figura 35 prodotta a ca so; oltra che bene spesso

gli a nni mi fa nno da nno, e non pa ura . Io mi tengo impa ccia ta (e lo confesso) per non potere a mio pia cer usa re

quei pochi drappi ch’io mi trovo appresso. 40 Dio sa qua nt’a bbia voglia di sfoggia re!

Ma per non consuma rmi in vesti nuove, bra mo poter le fa tte a doperare

per ca sa , e a le volte a ncora a ltrove: ben ho detto A le volte, perch’invero 45 pa r che troppo ire a ttorno non mi giove.

Anzi so ben che non n’arò pensiero, s’ho da portare il segno giallo in testa, come i prelati il rosso, il verde e ’l nero.

dovrei pur poter ir libera mente, la ssa ndo il segno gia llo in ogni loco, senza cagion ch’altri vi ponga mente.

Voi, signor mio, deh non piglia te a gioco 65 questa dima nda, e sia temi cortese

di quel ch’a me fia assai, benché a voi poco. Né perciò si dovra n tenere offese

l’altre; perché non è fuor dell’onesto, ch’io nell’a bito sia del mio pa ese. 70 Benché, s’io non dò scandol ma nifesto

a i giova ni a morosi, è ben ra gione ch’io non commuova le donne sì presto. Io fuggo per na tura il pa ra gone, e mi contento sta r sotto a l mio tetto, 75 ove non vivo con reputa zione.

Pia cemi nondimen vedere il letto e la ca sa a ppa rata a cconcia mente, perché di ga la ntuomini è ricetto:

là dove, s’io non posso arditamente 80 usa r le mie ba ga glie, son forza ta

chiuder la porta in fronte a tutta gente; e sta rmi il più del tempo ritira ta , per non esser trova ta in fa rsettino201, come s’il pan facessi o la bucata.

199 Ca pitolo di qua ra ntatré strofe. Il ca pitolo è una forma metrica deriva ta da lla terzina da ntesca; è costituita da una serie di terna ri inca tena ti, conchiusa da un verso che rima col secondo dell’ultimo terna rio. Lo schema è perta nto ABA BCB CDC DED e così via .

200 Si ricordi che a bbia mo già incontra to la rima «bonta de:etade», nel sonetto Signor, pregio e honor

di questa etade, a nch’esso dedica to a Cosimo I. §1 p.22.

201 Il fa rsetto era un indumento, con o senza ma niche, imbottito d'ova tta . Era sta to introdotto in Fra ncia verso la metà del Qua ttrocento ed era divenuto di moda nel Cinquecento. Più ta rdi sarà indossa to da i servitori, e da lla gente di ca mpa gna.

Questo sì che più d’altro mi molesta, 50 e m’è troppo contra rio, oggi ch’a more

più da l sonno, pia ngendo, non mi desta . L’armi gli ho rese, e ho riscosso il core ch’egli avea in mano; o mai pensier diverso da questo mi tormenta e dà dolore.

55 Restivi dunque il gia llo, il bigio e ’l perso a chi gode o tra va glia nella vita

a morosa , e vi sta fitto e sommerso: che s’io qui forestiera, anzi romita, mi vivo, e sono dall’altre differente, 60 là dove senza questo ognun m’a ddita

85 Ch’io di nuovo m’addobbi, il mio destino mi vieta , che gra n pa rte dei miei pa nni mi tolse, e mi la ssò senza un qua ttrino. Son fuor della mia terra, u’ tanti inganni ha n fa tto nido, e ristora r non posso 90 i miei sofferti ingiusta mente da nni.

Dunque, perché non debbo e bia nco e rosso vestir, se povertà le leggi spezza ,

e m’è già penetrata infin all’osso?

Già non cerco io, signor, mostra r va ghezza 95 con questi vecchi e poveri orna menti,

che mai non n’ebbi, e mi ci sono avvezza: non son vaga di lisci, o d’altri unguenti;

sol bra mo orna rmi in sì fa tta maniera , ch’io non m’abbia a nasconder dalle genti. 100 Dice un proverbio: chi ma ttino e sera

veste dra ppo, o gli è ricco o gli sta ma le. La ssa ! Il mio luogo è in quest’ultima schiera .

Per non irmene dunque a lo speda le, bisogna strologa re202 a tutte l’ore, 105 e per fuggire il peggio, a vere il ma le. Or s’io riporto, a ltissimo signore,

da vostra cortesia , come ho fida nza , un così segna la to a lto fa vore; tutto quel che di vita oggi m’avanza 110 spenderò, sol perché di voi sia udita la gloria , che ne dà ta nta spera nza. Giusto desire a ciò mi porge a ita ; poiché sicura d’ogni offesa sono vostra sola mercé, libera e in vita .

115 Di questo dunque sì gra dito dono m’è la bontà di voi sta ta cortese, e di mill’a ltri a ncor, ch’io non ra giono. Già l’opre vostre virtuose, intese sono e loda te da i più chia ri ingegni, 120 sotto ogni clima , in ogni stra n pa ese:

fra ta nti a ncor non fia ch’io non m’ingegni, invittissimo duce, e più ch’uma no, na to per governa r citta di e regni, ca nta r del va lor vostro a lto e sopra no, 125 e giungere a lle vostre lodi, qua nto

una gocciola d’a cqua a ll’ocea no. Or se Dio e na tura e virtù ta nto

Vi dier, che, come il chia ro grido suona , porta te solo d’ogni gloria il va nto, esa udite, signor, Tullia Ara gona .

Il capitolo si compone di un exordium (vv.1-21) che contiene la captatio benevolentiae e lo speculare abbassamento della scrivente, il cui canto o «bassa rima» non è adeguato all’altezza del destinatario.

A partire dalle virtù innate a Cosimo I, giustizia e clemenza, che sono in lui perfettamente bilanciate, Tullia anticipa al Duca la richiesta esposta nella narratio del capitolo (vv.22- 48): l’esenzione dagli obblighi previsti per lei dalla legge suntuaria cittadina. La vicenda è nota: nella primavera del 1547 Tullia d’Aragona viene fermata, interrogata e costretta a obbedire alla legge emanata da Cosimo I il 202 Strologa re è un verbo ra ro che ha diversi significa ti; in questo ca so ‘supera re una difficoltà ’.

19 ottobre del 1546; la donna si rivolge allora a Don Pedro, il nipote di Eleonora di Toledo, il quale le consiglia di indirizzare una supplica alla duchessa, allegando una selezione di sonetti, dedicati a lei da illustri letterati, per sostanziare la sua richiesta di esonero dal velo giallo; la richiesta trova il favore di Eleonora e, successivamente, di Cosimo I. L’episodio si rivela, poi, determinante per l’avvio della carriera poetica dell’Aragona, che poco dopo vede consensualmente pubblicate le sue poesie, in una raccolta corale ed eterogenea dedicata al Duca di Firenze. Il capitolo che leggiamo precede cronologicamente la raccolta.

Nei vv.25 e sgg. chi scrive ci tiene a precisare che non vi è nulla di ambiguo nel provvedimento dettato dall’«alto giudizio» del Duca. Si prende persino la briga di biasimare certe donne «che sono svogliate/e braman ogni dì frasche e novelle»203,

ma le accuse non sono particolarmente mordaci. Chi scrive sottolinea, inoltre, che il presente nel quale Tullia vive è diverso dal passato, e ciò principalmente per effetto del corso del tempo, che l’ha resa più matura e ha fatto scaturire in lei la necessità di una ‘conversione’ a una vita più morigerata.

In fase di argumentatio (vv.37-105) finalmente nomina il «segno giallo», il velo previsto per le cortigiane dal dress code fiorentino e dice apertamente: «questo sì che più d’altro mi molesta,/e m’è troppo contrario». Questi due versi, in particolare, sono citati da Croce nel suo contributo; a detta dello studioso, la cortigiana “parla senza negare l’innegabile”204, senza veli, potremmo aggiungere

con un gioco di parole: ella che ormai ha reso le armi ad amore205rifiuta quel giallo

segnalatore, poiché a Firenze non lavora più nell’ambito del commercio erotico, vi è giunta da «forestiera», con lo spirito di chi si allontana da affetti e luoghi familiari per immergersi in un mondo nel quale nessuno lo conosce, e perciò può permettersi di essere come gli altri. Pone l’accento sulle amicizie che coltiva e sulla stima di cui gode: «Piacemi nondimeno vedere il letto/e la casa apparata acconciamente, / perché di galantuomini è ricetto»,

e confessa certe sue piccole miserie con parole atte a chiamar compassione sulla poveraccia come su qualunque persona vediamo sforzarsi di sostenere il

203 Nell’uso figura to, questa coppia di termini descrive bene l’insta bilità , la va nità e la leggerezza che a ppa rtengono a certe donne, specia lmente se giova ni.

204 B. Croce, La lirica del Cinquecento, cit., p.11.

205Cfr. vv.9-10 del sonetto Qual vaga Philomena, che fuggita: «Ben a vev'io ritolte (a hi stella fera !)/da l tempio di Ciprigna le mie spoglie», p.56.

proprio decoro in pericolo, come sopr’ogni e qualsiasi fortuna decaduta e vergognante.206

Segue la peroratio (vv.106-129), in cui ancora una volta Tullia rivolge la propria adulazione a Cosimo, offrendo, in cambio del suo ascolto, il proprio canto di lode.

Ora, se l’autrice fosse l’Aragona, sarebbe un dato notevole, farebbe del capitolo in questione un caso unico e ben lontano dal lirismo solenne e calcolato che qualche volta esibisce nella raccolta. La poesia coniuga una genuina schiettezza con una raffinata sapienza letteraria, è caratterizzata da una forte impronta narrativa ed è ricca di immagini tratte dall’esperienza del quotidiano. Si leggano ad esempio i vv.82-84: «e starmi il più del tempo ritirata,/ per non esser trovata in farsettino,/come s’il pan facessi o la bucata.». A ciò si aggiunge un registro colloquiale, che tende a riprodurre i modi del parlato, infatti è ricco di espressioni idiomatiche: vv.100-101: «Dice un proverbio: chi mattino e sera/veste drappo, o gli è ricco o gli sta male».

Benedetto Croce, però, è stato frettoloso nell’attribuire tale componimento a Tullia d’Aragona; Francesco Bausi ha, infatti, dimostrato che l’autore è il senese