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2.2 Analisi dei sonetti a Cosimo I, Duca di Firenze

2.2.6 Dive, che dal bel monte d’Helicona

Questo è l’unico sonetto, il sesto del gruppo di quelli dedicati a Cosimo I, a non contenere un’invocazione diretta al «Signor», bensì alle «Dive», le Muse, destinatarie ‘reali’ ma in verità fittizie del componimento. Si legga:

Dive che dal bel monte d'Helicona88

discendete sovente a far soggiorno fra queste rive, onde è che d'ogn'intorno il gran nome Thoscan più altero sona: d'eterni fior tessete una corona a lui, che di virtù fa 'l mondo adorno, sceso col fortunato Capricorno, per cui l'antico vizio n'abbandona. Et per me lodi, e per me grazia a lui rendete, o Dive, che lingua mortale, verso immortal virtù s'affanna indarno; quest'è valor, quest'è suggetto tale, che solo è da voi sole, e non d'altrui: così dicea la Tullia in riva d'Arno.

È strano trovare l’invocazione alle muse a quest’altezza nella raccolta; il sonetto sarebbe stato meglio all’inizio, e forse – ma è solo un’ipotesi – nei piani di Tullia era stato pensato per occupare quella posizione e quando affidò le poesie a Varchi per farle pubblicare, quest’ultimo, o il curatore dell’edizione, stravolse l’ordine originale. La consuetudine topica di inaugurare così i canzonieri era stata, infatti, introdotta con le Rime da Pietro Bembo, che l’aveva a sua volta mutuata dal genere sublime dell’epica. Di fatto, l’intera produzione bembiana e quel famoso primo sonetto, Piansi e cantai lo stratio e l’aspra guerra, costituivano un riferimento obbligatorio per qualunque poeta si apprestasse a compilare una

88 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE DCE. Una pa usa sinta ttica lunga divide fronte e sirma del sonetto. Gli enjambements coinvolgono qua si tutti i versi del componimento; a nche le a na strofi sono molto frequenti e, insieme a i primi, crea no un effetto di forte coesione. Da l punto di vista fonico, all’interno dello schema rimico regolare, fatto di parole di consolidata tradizione petrarchista, troviamo la rima inclusiva «mortale:tale» e quella ricca «indarno:Arno»; c’è una consona nza pa rticola rmente evidente, «a dorno: inda rno», e frequenti a llittera zioni che suonano intense, quasi martellanti; si segnalano, infine, l’anafora «et per me lodi, e per me gratia» e il chiasmo molto effica ce che coinvolge i sinta gmi «lingua mo rta le» e «immorta l virtù».

raccolta di liriche, con l’intenzione di emulare, oppure superare, la tradizione petrarchista:

Nel caso di Varchi, ad esempio, è noto che i sonetti 1 e 2 dialogano non solo con Rvf 1 ma anche con il sonetto proemiale delle Rime bembiane, cioè con i due autori che nella lettera dedicatoria dell’edizione fiorentina Varchi designa come propri modelli (subito però dichiaratamente traditi)89.

Così, Varchi fa proprio l’appello alla divinità, Apollo, a cui chiede fama immortale, non per se stesso, ma per la sua poesia laurana90, e ricusa, di contro, i fini didascalici

e morali cercati da Bembo, che con la sua poesia aspirava a distogliere i giovani dal «van desio» amoroso e a condurli su «quella strada ch’a buon fine porti», cioè a Dio91.

Il caso di Tullia è ancora diverso. Il favore richiesto alle Muse è uguale, reso nel testo con la metaforica azione di ‘tessere una corona di fiori eterni’, cioè di poesie che ottengano uno statuto di immortalità; solo che qui le finalità non sono didattiche, né ispirate da idee neoplatoniche, bensì schiettamente encomiastiche: perpetuare le poesie equivale a dire rendere immortale colui per il quale sono state scritte, cioè Cosimo I.

Sempre a proposito del motivo encomiastico, si noti che nella prima quartina ci viene detto che le Dee delle arti calano dalla mitica dimora, il monte Elicona, per soggiornare tra le rive dell’Arno, cosicché ovunque «il gran nome Thoscan più altero suona».

L’aggettivo «Thoscan» era già stato impiegato da Tullia, nel sonetto Nuovo Numa Thoscan, che le chiar’onde, in riferimento a Cosimo, e questo sottolinea ancora una volta – se non fosse già evidente dal contesto – che l’epiteto non è generico, ma è riferito alla realtà fiorentina, specialmente la realtà culturale, al volgere degli anni ’40: il prodotto ben riuscito di una tradizione poetica luminosa, che poteva vantare il primato grazie ai nomi di Dante, Petrarca e Boccaccio, e che

89 S. M. Va tteroni, I testi proemiali nei Sonetti. Parte prima di Benedetto Varchi, La Rivista 5, 2017, http ://etudesita liennes. hypotheses. org

90 Quel ch’Amor mi dettò casto e sincero, vv.11-14.

91 vv.9-14: «Ché potra nno ta lhor gli a ma nti a ccorti, / queste rime leggendo, a l va n desio / ritoglier l’alme col mio duro exempio; // et quella strada, ch’a buon fine porti, / scorger da l’altre, et quanto a dora r Dio / solo si dee nel mondo, ch’è suo tempio//».

continuava a suscitare menti di altissimo ingegno, come, ad esempio, gli intellettuali dell’Accademia Fiorentina, reclutati e sapientemente controllati da Cosimo, che se ne avvaleva per allargare la base del consenso tra i ceti più sensibili al loro linguaggio. L’assoluto primato fiorentino è evidenziato dall’avverbio «sovente» a v.2; le Muse hanno dimorato spesso a Firenze in passato, e continuano a farlo nel presente, per guidare e sostenere le fatiche scrittorie di innumerevoli poeti.

Subito dopo, Tullia passa a celebrare il suo signore, «che di virtù fa ’l mondo adorno», anch’egli ‘sceso’ su Firenze come le Muse vi ‘discendono’ dall’Elicona. I due verbi sinonimici – «discendete» e «sceso» – che, fra l’altro, occupano la stessa posizione iniziale nei versi, rispettivamente il 2 e il 7, sono significativi: Tullia pare immaginare che le Muse e Cosimo condividano la stessa natura divina, e suggerisce che se le prime giungono per sostenere i poeti, il secondo viene per soccorrere gli uomini dalla grave impasse politica in cui sono invischiati.

Con la metafora del capricorno, il simbolo astrologico che il duca adotta come parte dell’iconografia personale, la poetessa fa riferimento, infatti, al periodo dell’anno «fortunato» in cui gli viene offerto il controllo su Firenze, cioè il gennaio del 153792. È da quel momento che «l’antico vitio» abbandona la città e il suo

popolo. Hairston scrive: “it is not clear whether d’Aragona is referring to pride, traditionally the first vice, or more generically to the vice that abandoned Florence after Cosimo became duke.”93 La seconda delle due ipotesi, quella di natura

politica, è certamente la più corretta: la poetessa allude a Firenze e alle sue lotte, ha in mente la discordia civile che ne frantuma da sempre la collettività, radicata come un vizio, che è «antico» perché è lo stesso già denunciato due secoli prima da Dante nei canti più amari della Commedia. Quindi, il Duca è riuscito in un’impresa che ha dell’incredibile, la sua venuta ha conciliato tutti e pertanto merita di essere celebrato.

A questo proposito, nelle terzine finali la poetessa rinnova l’appello alle «dive», offrendo se stessa a loro, quasi come se fosse un oggetto inanimato («et per me…e per me») di cui impossessarsi per rendere il giusto omaggio a Cosimo, dal

92 Cfr. J. Ha irston, The poems and letters, cit., p.71, nota 25. 93 Ibidem.

momento che la sua lingua, per il fatto di essere mortale e imperfetta, «verso immortal virtù s’affanna indarno». Ancora una volta, il motivo dell’inadeguatezza dell’espressione al tema, e del concetto all’oggetto, è il dispositivo retorico favorito di Tullia per esprimere la lode del suo signore.

A proposito dell’ultimo verso, Ann Rosalind Jones commenta: “Tullia eternalizes herself by speaking from the third person perspective of a posthumous biographer"94. Ora, questo è senz’altro vero, com’è vero che l’auspicata immortalità

del sonetto coinvolge di riflesso colei che lo ha scritto. Tuttavia, bisogna aggiungere che l’espediente di parlare di sé in terza persona, se contestualizzato, ci dà una suggestione in più: è come se Tullia volesse accentuare il processo di spersonalizzazione a cui è andata incontro nella finzione lirica delle terzine, offrendosi alle Dive come una sorta di vaso contenitore da saturare di ispirazione poetica; l’impressione che dà è che i versi siano scaturiti irrazionalmente, per effetto di una frenesia indotta dalle Muse, del resto le uniche in grado di sostenere un canto così alto: «quest’è valor quest’è suggetto tale / che solo è da voi sole e non d’altrui». Pertanto, alla fine, attraverso la terza persona, la poetessa si fa da parte e lascia la parola proprio a loro, che hanno autorizzato il sonetto, fattesi artefici dei versi, custodi del suo nome e garanti dell’eternità della sua poesia.