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3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore

3.2.8 Ov'è (misera me) quell'aureo crine

È l’ultimo sonetto di cui non viene specificato il destinatario, l’ultimo sul quale – per alcuni – volteggia ancora l’ombra di Piero Mannelli. Il successivo sarà, infatti, dedicato a “Lilla”, un personaggio sul quale si è discusso molto. Ci fu chi la ritenne una nobildonna, o una cortigiana dello stesso rango di Tullia; altri, tuttavia, sia per ragioni intrinseche al sonetto, che per ragioni onomastiche, ipotizzarono che Lilla fosse un animale domestico, verosimilmente un cane. Peraltro, commenta Hairston: “[…] this sonnet seems to be situated with the Roman tradition of elegies dedicated to dead pets that belonged to the beloved”181; ma la cosa straordinaria è

che Tullia si rivolge direttamente alla bestiola e, mentre la consola della morte del suo cucciolo, parla del dolore straziante della propria perdita. Un sonetto molto singolare, che contiene un enigma sul finale, ma ne parleremo più avanti. Per il momento ci interessa constatare che il percorso tematico d’amore che abbiamo istituito, e con cui abbiamo collegato fra loro le poesie, si avvia alla conclusione.

Nella sirma del sonetto precedente la poetessa cercava di impietosire l’amato: i suoi sentimenti volavano a lui sulle fragili ali della poesia, con cui sperava di persuaderlo a rinsaldare il loro legame. L’uomo in questione veniva indicato con una perifrasi che occupava per intero il v.11: «ov’è chi sol può darmi, e morte, e vita». Il verso è importante, poiché è l’anello di congiunzione tra questo componimento e quello successivo, dove la formula interrogativa ‘ov’è’, con le sue variazioni, costituisce il Leitmotiv.

Si legga:

Ov'è (misera me) quell'aureo crine182

di cui fe rete per pigliarmi Amore? ov'è (lassa) il bel viso, onde l'ardore nasce, che mena la mia vita al fine? Ove son quelle luci alte, e divine in cui dolce si vive, e insieme more? Ov'è la bianca man, che lo mio core stringendo punse con acute spine?

181 J. Ha irston, Poems and letters, cit., p.113.

182 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE CDE. Inclusiva la rima «a more:more» (ai vv.2-6), mentre è interna «morte:sorte» (a i vv.10-13); c’è, inoltre, a ssona nza tra le pa role «sole» e «sorte» (vv.12-13). Occupa la posizione 35 della prima sezione delle Rime.

Ove suonan l'angeliche parole,

ch'in un momento mi dan morte, e vita? U' i cari sguardi? u' le maniere belle? Ove luce hora il vivo almo mio sole, con cui dolce destin mi venne in sorte quanto mai piovve da benigne stelle?

La poesia è scandita dalla figura retorica dell’anafora e dal ritmo incalzante delle interrogative dirette. L’intonazione è fortemente patetica, sottolineata dalla sequela di domande senza risposta e dai due incisi parentetici che contengono le interiezioni «misera me» e «lassa», e suggerisce che l’amore di Tullia non potrà mai più essere ricambiato. La ripetizione costante dell’avverbio di luogo – nelle forme «ov’è», «ove» e «u’»183 – ha lo scopo di sottolineare proprio la desolazione

della poetessa, che è come se brancolasse alla cieca, con voce querula e ansimante, ripercorrendo con la mente i lineamenti del volto e le mani dell’amato, la cui descrizione è idealizzata e caratterizzata da numerosi topoi letterari184. Tullia si rifà

a Petrarca nell’invocare le parti elette perdute del corpo dell’amato, il quale a sua volta le derivava da quel ricco filone della poesia stilnovista che prevedeva la lode, stupita e grata, delle virtù della donna. Secondo la tradizione la donna possiede una bellezza salvatrice, umana e divina al tempo stesso, e un’anima tanto pura e autentica da rendere i cuori più ‘gentili’. La poetessa accoglie questa lezione, naturalmente declinandola al maschile. L’amato possiede, quindi, gli stessi connotati di angelicità della donna ‘gentile’: crine aureo, viso etereo, occhi da cui scaturiscono «cari sguardi», membra candide e «maniere belle», conformi alla tipica imagery petrarchesca. È il motivo per cui Julia Hairston, nella nota al testo della sua edizione, definisce il componimento “a classic Petrarchan blazon”185.

Sopra abbiamo detto che il v.11 del sonetto che precede,«ov’è chi sol può darmi, e morte, e vita», funge da collegamento con il presente. Ciò non solo per ragioni formali, ma anche di contenuto. Questo verso riassume il paradosso

183 Forma dotta da l la tino ubi.

184 Si ricorderà qua nto a veva scritto Bia gi, che da l sonetto a ttinse i pa rticola ri per delinea re l’esatta fisionomia del Mannelli, che “biondo era e bello e di tal leggiadro aspetto da colpire la fantasia d’una dotta ricercatrice e tentatrice della virile bellezza”. Sembra, inoltre, che egli utilizzi fantasiosi riferimenti a l Ma nfredi da ntesco che pa iono tota lmente fuori luogo.

amoroso, che poi è il topos letterario per eccellenza: l’amore terreno è disprezzabile come la morte e necessario come la vita, due aspetti complementari racchiusi in un unico sentimento. Colui che decide della sorte del cuore della poetessa, in un modo o nell’altro, è appunto l’amato.

L’antinomia tra i concetti di vita/morte è fondamentale nel testo. Ai vv.3-4 l’ardore, che è un desiderio vibrante, un motore instancabile per l’animo, anziché agire da forza vivificante qual è, conduce la vita di Tullia al suo termine; al v.6 «le luci alte e divine», cioè gli occhi d ell’amato, sono quel luogo-non luogo «in cui dolce si vive e insieme more»; al v. 10 le «angeliche parole» dell’uomo sono in grado di decretare la morte e la vita di Tullia.

Nell’ultima terzina l’amato viene indicato con la perifrasi «vivo almo mio sole»: un altro omaggio al Canzoniere, dove il sole è un simbolo di Laura, associato all’‘auro’ splendente della chioma, o al fulgore della sua bellezza, che è tale da rendere la donna quasi un oggetto celeste. Nel Cinquecento si appropriano di questo potente senhal molti poeti e poetesse. Fra queste, ad esempio, Gaspara Stampa lo adopera qualche volta per l’amato Collaltino; ma è Vittoria Colonna a farne un uso ricorrente. Nelle sue Rime la metafora solare rappresenta il marchese di Pescara Ferrante D’Avalos, del quale è rimasta vedova prematuramente. Il senhal del sole si riscontra fin dal sonetto proemiale186 delle Rime Amorose, in cui Vittoria

giustifica il basso valore dei suoi versi, composti non tanto per «giunger lume al mio bel Sole» – cioè per dare ulteriore risalto alla gloria del marito –, ma per sfogare il dolore dato dalla sua perdita.

Si ricorderà che Tullia aveva impiegato la stessa perifrasi anche in Se ben pietosa madre unico figlio (p.74 e sgg.). L’ultima terzina recitava:

Ma io, s'avvien che perda il mio bel sole, o per mia colpa, o per malvagia sorte, non spero aver, né voglio, alcun conforto.

Fra l’altro il riferimento alla «malvagia sorte» lasciava intuire la presenza di un sottofondo esistenziale amaro. L’ultima terzina del sonetto presente si articola in modo molto simile e abbraccia gli stessi temi: la poetessa cerca e rimpiange

186Vittoria Colonna , Rime, Amorose I, vv.1-4: «Scrivo sol per sfoga r l'interna doglia /ch'a l cor mandar le luci a l mondo sole, /e non per giunger lume a l mio bel Sole, /a l chia ro spirto e a l'onora ta spoglia .»

l’’almo sole’ che ormai non brilla più per lei, e si rammarica di aver perduto l’unico dono che il «destin» le aveva fatto, per una volta che le stelle, da sempre avverse, le erano state benevole.

3.3

Conclusione sul presunto gruppo di sonetti d’amore per