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3.2 Analisi dei sonetti d’amore a ignoto interlocutore

3.2.2 Amore un tempo in così lento foco

Il secondo e il terzo dei sonetti dedicati a ignoto sono fra i più noti, citati in molte raccolte: Amore un tempo in così lento foco e Qual vaga Philomena, che fuggita. Si considerano esempi di canto d’amore rivolto da una donna a un uomo, il che rappresenta di per sé un’innovazione.

Nel sonetto che andremo ad analizzare Tullia è “arsa” dal fuoco dell’amore e prigioniera di esso. Ma questa è la lettura più superficiale; è possibile rintracciare, infatti, una sorta di sottotrama che unisce i due sonetti e influenza in diversa misura anche quelli successivi, come vedremo più avanti.

Amore un tempo in così lento foco116

arse mia vita; e sì colmo di doglia struggeasi 'l cor, che quale altro si voglia martir fora ver lei dolcezza e gioco. Poscia sdegno, e pietate a poco a poco spenser la fiamma, ond'io più ch'altra soglia libera da sì lunga e fera voglia,

giva lieta cantando in ciascun loco. Ma 'l ciel né sazio ancor (lassa) né stanco de’ danni miei, perché sempre sospiri, mi riconduce a la mia antica sorte. Et con sì acuto spron mi punge il fianco, ch'io temo sotto i primi empij martiri cader, e per men mal bramar la morte.

Amore è evocato nell’incipit come un personaggio agente. Il suo ricordo reca la minaccia di gravi martiri, gli stessi che Tullia ha vissuto «un tempo», in un periodo non precisato della sua vita, forse in giovinezza117.

116 Sonetto su cinque rime a schema ABBA ABBA CDE CDE. Sono frequentissimi gli

enjambements e le a na strofi, due figure retoriche che si presenta no qua si sempre combina te. Rima

equivoca a i vv.3-7: il primo «voglia » è verbo, il secondo sosta ntivo. Il componimento occupa la posizione n°29 nella raccolta di rime dell’Aragona.

117 Si noti che la fronte e la sirma del sonetto corrispondono, rispettiva mente, a l pa ssa to e a l presente della na rra zione.

La formula d’esordio evoca il modello petrarchesco: «un tempo» è, infatti, l’espressione favorita da Petrarca quando vuole materializzare nel testo i ricordi per scrutarli dall’alto del suo isolamento morale e spirituale. Egli è un uomo maturo, che ha preso coscienza di sé e dei propri ‘errori giovanili’, nonostante non riesca a disfarsene del tutto e si sorprenda a riviverli con nostalgia e rimpianto.

Ora, Tullia si avvicina al maestro, adottando le sue stesse soluzioni formali, ma simultaneamente ne prende le distanze, poiché nel sonetto non vi è traccia del conflitto, sempre in atto nel Canzoniere, tra il pentirsi e al contempo giovarsi della passione. Inoltre, la poetessa rinuncia a replicare nei suoi versi quella dolcezza, ambigua e contraddittoria, con cui Petrarca sovente connota la prigionia d’amore, un altro tema ampiamente sviluppato nei Fragmenta118. Tullia ne descrive solo i

lati negativi, servendosi di parole espressive e patetiche quali «doglia», «struggeasi» e, soprattutto, «martir», che è un termine-chiave nel sonetto: nella prima quartina «martir» indica le vicissitudini del vivere che, rispetto a quelle dell’amare, paiono poca cosa; nella seconda terzina la parola, dentro il sintagma «primi empij martiri», suggerisce proprio le attitudini ond ivaghe della giovinezza e dell’amore, da cui germoglia spontaneo il turbamento.

Nell’arco delle due quartine troviamo gli aggettivi «lento» e «lunga» che qualificano, rispettivamente, il «foco» e la «voglia»119, rendendo l’impressione di

uno scorrere del tempo che ha le modalità di uno stillicidio illanguidente. Si notino, inoltre, due figure retoriche di suono, entrambe situate nel v.5: l’allitterazione della /p/ e la duplicazione di «a poco a poco»; due soluzioni che producono un ritmo incalzante e restituiscono nel testo qualcosa del faticoso processo di recupero vitale da parte di Tullia che, dopo tanto «sdegno e pietate», si libera dell’amore e può andare «cantando in ciascun loco» senza vincoli di natura sentimentale.

Dopo la breve parentesi rievocativa di libertà, descritta nella seconda quartina, segue la terzina, introdotta dal ‘ma’ avversativo, che ha il potere di ricondurre i lettori alla dimensione temporale presente e, contemporaneamente, l’io lirico alla memoria dell’«antica sorte», la prigionia amorosa, che ha radici nel

118 Il topos della prigione o della ca tena a morosa era diffuso nella poesia troba dorica , da cui Petrarca a ttinse a piene ma ni. Cfr. Il Canzoniere, a c. di Sa nta ga ta, cit., p.441, nota 11.

119 Il primo a l v.1, il secondo a l v. 7. Si noti a nche che il sosta ntivo ‘voglia ’ è a ccompa gnato da un a ltro a ggettivo notoria mente petra rchesco: «fera », che ha il significa to di ferina , crudele.

passato e incombe nuovamente, ineluttabile, nella forma di un castigo voluto dal Cielo, cioè da Dio, il quale non è ancora né «sazio» né «stanco» di dispensarlo.

L’interiezione «lassa» e il petrarchesco «sospiri» ci restituiscono un’idea di spossatezza e di debilitazione che va a completare il quadro descritto nelle strofe precedenti.Significativa– per quanto tradizionale – anche l’iperbole della terzina finale, in cui la poetessa invoca addirittura la morte come male minore, rispetto alla possibilità, di cui ha paura, di precipitare di nuovo nella disperazione dei «primi empi martirij».

C’è, comunque, un aspetto interessante che non è stato ancora preso in considerazione e che apre uno squarcio sulla possibile reale natura dei sentimenti di Tullia. Perché il ricordo di Amore è così penoso e inaccettabile? Forse la poetessa allude a qualcosa di diverso?

Finora abbiamo definito la lirica come ‘d’amore’, senza fornire ulteriori indicazioni; ma, prestando un po’ più di attenzione, ci accorgiamo che il sonetto possiede anche un carattere latamente autobiografico, poiché le sue partizioni formano una sorta di iter cronologico che percorre le tappe più importanti della vicenda biografica di Tullia, fino al momento in cui scrive. Così, la prima quartina ci fa pensare al periodo romano, ai rendez-vous con intellettuali e poeti, ai cartelli di sfida lanciati dagli ammiratori e al disastroso incidente raccontato da Giraldi nella novella di Nana e Saulo degli Ecatommiti120; la seconda quartina abbozza gli

anni d’oro, che vedono Tullia affermarsi autonomamente come poetessa e intellettuale di successo presso i circoli letterari più esclusivi; poi, subentrano la prima e la seconda terzina, che, forse, dal punto di vista biografico sono più vaghe ed enigmatiche, ma di sicuro alludono a un momento di grave incertezza, vissuto dalla poetessa come un passo indietro, un ritorno alle origini. Le terzine finali potrebbero, insomma, anticipare quella situazione di malessere finanziario, che si verrà a creare nel giro di poco tempo e costringerà Tullia a tornare a Roma121 dopo

il felice soggiorno nella Firenze cosimana; ipotesi non inverosimile, ma, purtroppo,

120 Da a lcuni ritenuto la ca usa dell’a llonta na mento della cortigia na a lla volta di Ferra ra nel 1527, ma , di fa tto, come a bbia mo spiega to nella premessa inizia le sulla vita e sulle opere di Tullia d’Aragona, non ci sono prove che gli avvenimenti della novella rispecchino il reale corso degli eventi. Si ricordi che la novella X è il prodotto sca turito da lla penna livida di un uomo che è sta to, a suo tempo, rifiuta to da lla cortigia na .

traballante: per avvalorarla dovremmo supporre, per il sonetto, una datazione molto tarda, se non addirittura posteriore alla pubblicazione della raccolta di rime.

Ora, questa interpretazione ‘autobiografica’ del sonetto, che in ogni caso non può essere collegata troppo strettamente a singole vicende personali, tuttavia ci permette di formulare un’altra ipotesi: quando scrive «Amore», Tullia non intende il sentimento che soggiace alla parola, bensì qualcosa di più intimo e profondo. Infatti, benché l’«acuto spron» del v.12 ricordi da vicino il Dante stilnovista, che verseggia «ben può con nuovi spron punger lo fianco»122, il sintagma non fa, qui,

riferimento a un nuovo oggetto d'amore, come hanno ritenuto molti studiosi, fra l’altro identificando tale oggetto con Piero Mannelli.

L’operazione che Tullia compie nel testo è un’altra: ella intende alludere, in modo velato, a un aspetto difficile e tormentoso della propria esistenza che la tiene sospesa tra due mondi, quello della letteratura e quello del vizio. Di quale aspetto si tratti è ormai evidente, s’intuisce dalle parole e dai sintagmi che affollano il sonetto, quali ad esempio «Amore», «lento foco», «martir», «lunga, et fera voglia», «acuto spron» etc., che in realtà sono espressioni metaforiche, epiteti dispregiativi con cui Tullia si riferisce alla sua vita da cortigiana. D’altronde è questa l’«antica sorte» con la quale deve fare i conti, suo malgrado e ancor più dolorosamente dopo aver sperimentato un periodo effimero di libertà123. Il sonetto dà voce a questo

dissidio intrinseco, e rappresenta la migliore opportunità di esorcizzare l’amore, inteso, appunto, come l’insieme degli obblighi imposti dal ruolo di cortigiana.

È una chiave di lettura da tenere in considerazione anche per i sonetti successivi, nei quali è possibile rinvenire tracce del sottofondo malinconico, nutrito di senso di colpa e di irrequietudine, che caratterizza la poetica dell’Aragona. Inoltre, tale lettura si sposa molto bene con il proposito finale di Tullia di tratteggiare, attraverso la poesia, un’autobiografia ideale da tramandare ai lettori, che la giustifichi come poetessa dotata di virtù – non ultime quelle morali – e allontani da sé l’immagine della cortigiana dai costumi reprensibili.

122 Rime CXI, v.12.

123 Non sfugge a lla nostra a ttenzione la seconda qua rtina , che na rra del periodo fuga ce di libertà dai vincoli della professione. Che la poetessa a lluda a l momento in cui ottiene l’a stensione da l velo gia llo delle cortigia ne?

L’insofferenza di sentirsi come in trappola, prigioniera di ‘amore’ – ovvero di un ruolo sociale opprimente quanto necessario – è il tema ripreso e sviluppato dalla poetessa nel sonetto successivo che, fra l’altro, è il più fortunato ed emblematico della raccolta, citato da un gran numero di studiosi, estimatori e interpreti delle Rime: Qual vaga Philomena, che fuggita.