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Il capitale dell'azienda tra credito e finanza: limiti e possibilità dell'equity-based crowdfunding

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Academic year: 2021

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Introduzione

Nel corso degli ultimi anni, il mondo delle imprese è stato gradualmente investito da un processo di trasformazione legato all’introduzione di strumenti e logiche proprie del web 2.0 all’interno delle organizzazioni. La diffusione di internet presso un pubblico sempre più ampio e l’esplosione dei social media hanno rivoluzionato l’approccio con il quale gli utenti si rivolgono al web, aprendo nuovi scenari per le imprese che ora possono “sfruttare” la rete dei propri contatti non solo per veicolare informazioni ma anche per reperire capitali. Il riferimento è al

crowdfunding, letteralmente “finanziamento da parte della folla”, uno

strumento nato sul web 2.0 che si è autoregolato fino ad oggi e che è diventato ancor più d’attualità dopo l’adozione di norme con le quali si è cercato di regolamentare l’incontro di due mondi molto diversi tra loro: il

web e gli investimenti finanziari.

La tesi esplora nello specifico il fenomeno del crowdfunding nella sua accezione equity-based e si interroga sulla possibilità che, stante la stretta creditizia attuale, questo strumento innovativo possa effettivamente costituire per le start up una fonte di finanziamento alternativa rispetto a quelle attualmente presenti.

Nel primo capitolo, dopo aver messo in evidenza le conseguenze dell’avvento del web 2.0 sul modo di vivere e pensare degli individui, si passa ad analizzare gli impatti che le nuove tecnologie informatiche e la creazione di un mercato globale fondato sulla rete stanno comportando sul modo stesso di fare impresa.

Nel secondo capitolo, si procede ad esporre le cause che rendono difficoltoso per le imprese il reperimento di capitali nella loro fase di avvio dell’attività. Nello specifico, viene descritto cosa genera il fabbisogno di

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capitali e come questo cambia nel corso delle fasi evolutive del ciclo di vita aziendale, per poi individuare la forma di finanziamento più idonea alla sua copertura.

Successivamente all’esposizione di questi temi, nel terzo capitolo si introduce il crowdfunding, di cui si fornisce una definizione esauriente, mettendone in risalto le principali caratteristiche. Si procede poi ad illustrare gli attori che caratterizzano tale strumento (il proponente, le piattaforme e i finanziatori), le motivazioni che li spingono ad avviare o partecipare ad una campagna di crowdfunding e, infine, vengono esaminate le varie tipologie di crowdfunding.

Il quarto capitolo, intitolato “L’equity-based crowdfunding”, costituisce il cuore di questa tesi. In esso, inizialmente viene descritto il percorso che ha portato il nostro Paese ad essere il primo al mondo a dotarsi di una normativa ad hoc sul tema, in questo anticipando sul tempo anche gli Stati Uniti. In Italia l’equity-based crowdfunding trova la propria base giuridica nel Decreto crescita bis e nel Regolamento Consob, che disciplina alcuni importanti aspetti legali della raccolta di capitali di rischio da parte delle

start up innovative tramite portali online. Nel corso del capito, dopo aver

presentato gli scopi e le novità apportate dalla normativa con riguardo ai diritti e doveri dei soggetti che a vario titolo sono coinvolti nelle operazioni di finanziamento, vengono messe in evidenza le principali implicazioni e criticità, legate soprattutto ad alcune scelte a suo tempo compiute dal Governo nella stesura del Decreto crescita bis.

Il quinto e ultimo capitolo conclude la trattazione con il caso StarsUp, la prima e, fino ad ora, l’unica società ad aver chiesto e ottenuto l’autorizzazione dalla Consob per la raccolta online di capitali di rischio destinati alle start up innovative.

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1. Azienda e cambiamento: come la tecnologia modifica la condotta umana e aziendale

Il focus specifico di questo primo capitolo è incentrato sull’analisi dell’evoluzione del rapporto fra azienda e ambiente, mettendo in evidenza gli impatti che le nuove tecnologie informatiche (cui spesso ci si riferisce con la sigla ICT – Information and Communication Technology) e la creazione di un mercato globale fondato sulla rete stanno comportando sul modo di vivere e pensare degli individui e, di conseguenza, sul modo stesso di fare impresa.

Pensiamo agli ultimi trent’anni di innovazione tecnologica e alla possibilità per i singoli individui e le imprese di disporre di computer sempre più veloci, allo sviluppo di sistemi di trasmissione dati culminati con l’affermazione di internet e, in tempi più recenti, all’evoluzione degli strumenti web-based e i social media che hanno favorito la diffusione delle

online community, luoghi di aggregazione sociale in cui le relazioni tra

imprese e persone sono mediate dal web.

Il crescente interesse da parte delle imprese nei confronti delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, ossia l’insieme delle tecnologie che attraverso l’utilizzo di mezzi digitali consentono di elaborare e comunicare informazioni, è dovuto essenzialmente all’evoluzione del loro ruolo all’interno delle organizzazioni: da semplici strumenti a supporto delle attività operative dell’impresa (amministrazione e controllo) a vere e proprie leve strategiche, in grado di incrementare e potenziare le capacità decisionali e di indirizzo strategico dei vertici aziendali.

Inizialmente, quando ancora non si aveva la giusta consapevolezza delle potenzialità che ne sarebbero scaturite, si pensava che la tecnologia fosse solo un utile strumento a supporto del lavoro tradizionale, non capendo,

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invece, che presentava grandi opportunità di espansione e la necessità, dalle grandi corporation alle piccole imprese, di ripensare strategie e modelli di

business per renderli più adatti alle esigenze partecipative e relazionali

tipiche degli utenti del nuovo web. Solo nel corso dell’ultimo decennio gli atteggiamenti e le modalità con le quali le imprese si sono rapportate all’ICT hanno visto spostare l’ottica dai soli aspetti tecnologici del web agli effetti che l’adozione delle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione hanno sulla produttività e competitività aziendale. Da un lato è stato enfatizzato l’apporto positivo ai processi aziendali in termini di efficienza, dall’altro si è riconosciuto il loro potenziale di connettività in grado di sostenere scambi informativi e dinamiche comunicative tra operatori economici a distanza.

In tempi recenti, sempre con maggior enfasi, vengono sottolineate le nuove opportunità connesse all’evoluzione nell’uso delle tecnologie di rete, in particolare del web 2.0 che ha fatto emergere uno spazio elettronico attraente dal punto di vista transazionale, comunicativo e di interazione.

1.1 Web 2.0: ruolo ed esigenze degli utenti del nuovo web

Il contesto economico e sociale contemporaneo vive un momento di grande trasformazione in ragione del ritmo e dell’intensità che caratterizzano il progresso tecnologico, soprattutto nella sua accezione informatica.

La fonte principale dei cambiamenti che si stanno verificando in questi anni è individuabile nella crescente diffusione degli strumenti web 2.0 che hanno decretato l’affermazione di un nuovo paradigma comunicativo, caratterizzato dalla collaborazione e dalla condivisione orizzontale di informazioni e conoscenza. In particolare, il nuovo web si sta affermando come ambiente volto a favorire la condivisione di saperi tra utenti, i quali

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5 mettono in comune le proprie esperienze e competenze secondo il “principio gestaltico” per cui l’insieme è più della somma delle parti e quindi c’è più conoscenza laddove questa è condivisa e socializzata.

Con il termine web 2.0 si tende ad indicare uno stato di evoluzione di

internet rispetto al precedente, che comprende l’insieme di tutte quelle

applicazioni online che permettono uno spiccato livello di interazione tra il sito e l’utente1. Questa locuzione pone l’accento sulla differenza rispetto al cosiddetto web 1.0, diffuso negli anni Novanta e composto prevalentemente da siti web statici, nel quale vi era una scarsa collaborazione e interazione con l’utente eccetto la normale navigazione tra le pagine, l’uso delle e-mail e dei primi motori di ricerca. A differenza del web di prima generazione, il

web 2.0 ha trasformato gli utenti di internet da semplici fruitori passivi di

contenuti, in soggetti attivi, in condizione di scrivere pensieri, opinioni e di condividere facilmente online contenuti digitali attraverso l’uso di social

media, che stanno rapidamente guidando la nostra società verso la “cultura

della partecipazione”. Social network, piattaforme di blogging e wiki rappresentano soltanto alcune delle applicazioni 2.0 che rendono possibile e facilitano la comunicazione, la collaborazione e la condivisione collettiva di saperi e conoscenze tra utenti. L’innovazione portata dal web 2.0 non risiede e non si concretizza nella proposta, utilizzo e implementazione di nuove tecnologie. Sostanzialmente, infatti, la tecnologia è rimasta quella che era e, anzi a voler essere più precisi, viene messa in atto una sempre maggior semplificazione di alcuni aspetti tecnici e di alcune applicazioni. A cambiare, in questa nuova epoca del web, sono i soggetti e, più precisamente, il ruolo e l’approccio con cui essi si rivolgono al web: dalla semplice consultazione passiva dei contenuti alla produzione dinamica e attiva di pagine web e informazioni che vanno ad arricchire e alimentare la rete. Non si tratta, quindi, della semplice consultazione delle e-mail,

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dell’uso dei motori di ricerca e della navigazione lineare del web, bensì di una partecipazione interattiva alla pubblicazione di contenuti sul web attraverso un maggior coinvolgimento degli utenti che scrivono commenti, lasciano feedback e aprono diari personali online2. Pertanto, il web 2.0 si distacca da un approccio prettamente tecnico e si pone piuttosto come un approccio di condivisione della rete: una vera e propria rivoluzione cognitiva, non una semplice innovazione di tecnologie.

1.2 Introduzione al fenomeno del 2.0 nei suoi risvolti business

Nella sfera del consumo, l’opportunità per i consumatori di trovare spazi di espressione in rete, dialogare con l’impresa e soprattutto con altri consumatori (comunità virtuali) si traduce in un cambiamento del tradizionale rapporto azienda-clienti che oggi, grazie all’uso dei social

network e delle altre piattaforme digitali, possono accedere a una quantità

notevole di informazioni sul rapporto qualità/prezzo e sulle caratteristiche del prodotto/servizio che sono intenzionati ad acquistare. Questa mole di informazioni, che si sviluppa in seguito alle conversazioni nate all’interno di forum di discussione, blog e social network, riduce l’asimmetria informativa tra azienda e consumatori e, sempre più spesso, ne inverte l’ordine a favore di questi ultimi, più maturi e consapevoli sulle scelte da fare.

La portata del cambiamento che stiamo vivendo nell’era digitale, che mette al centro l’importanza delle dinamiche relazionali rese possibili dalla cultura della partecipazione online, è così vasta che solo le organizzazioni che impareranno velocemente a salire sull’onda tecnologica eviteranno di

2 V. Bordin, Caratteristiche sociali e culturali del Web 2.0, 2008

(http://vitali.web.cs.unibo.it/viewfile/LabInt08/ConsegnaRelazioni?rev=1.3&filename=RelazioneBordin. pdf).

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7 farsi travolgere. L’evoluzione del web, come ogni cambiamento, porta con se nuove opportunità da valutare ma anche durissime sfide competitive da dover fronteggiare. Pertanto, le aziende devono essere in grado di reinventarsi e rinnovarsi costantemente non solo per affermarsi sul mercato, ma anche solamente per sopravvivere alle continue e costanti pressioni competitive. In particolare, esse devono rivedere le proprie politiche e i propri strumenti di comunicazione, di formazione, di gestione interna, di relazione con il territorio e la comunità. In una parola, la propria strategia e cultura d’impresa alla luce della rivoluzione portata dal web 2.0. È opinione largamente condivisa che queste dinamiche non possono essere ignorate e le aziende devono aprirsi ad un nuovo modo di comunicare con i clienti, intendendo il web 2.0 non come una moda passeggera da cavalcare superficialmente, ma comprendendo cosa rappresenta in profondità e riformulando in base a questo il modo di relazionarsi con le persone, pena il rischio di ritrovarsi sempre più isolate man mano che la percentuale di individui sensibili al cambiamento diviene più rilevante e le altre aziende si aprono al nuovo modo di intendere il rapporto con il cliente. Tuttavia, se da una parte i social software e i social media del web 2.0 hanno rapidamente ridefinito logiche e dinamiche di comunicazione e interazione del web in versione 1.0, dall’altra non significa che possa riproporsi con altrettanta rapidità lo stesso percorso evolutivo in azienda.

1.3 Il concetto di Enterprise 2.0

Come è stato appena accennato, il web 2.0 apre scenari e prospettive diverse e composite che non vanno a condizionare solo i fruitori del web ma anche le realtà aziendali, chiamate in prima persona a ripensare a se stesse, alla loro organizzazione interna e ai rapporti con l’esterno secondo

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le logiche 2.0. Questa evoluzione in ambito aziendale prende il nome di

Enterprise 2.0. Si tratta di un’espressione elaborata da Andrew McAfee,

professore della Harvard Business School, per identificare quel nuovo orientamento delle aziende al web 2.0 concretizzatosi con l’utilizzo di piattaforme di social software sia all’interno dell’organizzazione che nelle relazioni con le altre aziende e nei rapporti con partner, stakeholder e clienti3. Questo nuovo approccio è il risultato del cambiamento in atto nel mondo del business che vede le imprese adottare nuovi sistemi organizzativi di gestione delle informazioni sempre più influenzati dalla rete che, in modo persuasivo, sta modificando alcune strategie di mercato grazie a sistemi sempre più aperti, in cui diventa un fattore fondamentale la collaborazione e la gestione della conoscenza. L’implementazione degli strumenti web 2.0 offre alle imprese una nuova infrastruttura di comunicazione e interazione, più flessibile, adattabile e reattiva, sulla quale sviluppare organizzazioni maggiormente orientate all’innovazione. Se il

web 2.0 rappresenta l’evoluzione del web e delle sue logiche, allora

l’Enterprise 2.0 descrive una rivoluzione nel modo stesso di pensare l’organizzazione, un radicale cambiamento che sta portando all’emergere di modelli organizzativi e stili di gestione fondati sul coinvolgimento diffuso, la collaborazione emergente, la condivisione della conoscenza e lo sviluppo e valorizzazione di reti sociali interne ed esterne all’organizzazione4

.

Molteplici sono le motivazioni che, nel corso degli ultimi anni, stanno spingendo il mondo delle imprese a introdurre gli strumenti e le logiche proprie del web 2.0 all’interno delle organizzazioni. Anzitutto, in un contesto complesso e ipercompetitivo come quello attuale, la collaborazione è il nuovo fattore chiave per competere. La condivisione di

3 Il termine è stato coniato da Andrew McAfee, professore della Harvard Business School, nel paper

seminale “Enterprise 2.0: The Dawn of Emergent Collaboration”, pubblicato sul MIT Sloan Management

Review (http://it.wikipedia.org/wiki/Enterprise_2.0#cite_note-1).

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9 conoscenze tra persone permette loro di scambiarsi idee complesse riuscendo ad ottenere risultati che difficilmente si potrebbero raggiungere lavorando in modo autonomo. Attraverso la collaborazione si riducono i costi e si ottiene un’agilità di innovazione che permette alle imprese di conseguire vantaggi competitivi concreti e di lungo termine sul mercato. A tale scopo, l’implementazione degli strumenti web 2.0 consente la collaborazione non solo all’interno delle società, tra dipendenti e dirigenti e i loro fornitori, ma allarga i propri confini anche all’esterno coinvolgendo i clienti, gli azionisti e i membri della propria comunità. L’azienda è sempre meno una monade chiusa, ma diviene una rete aperta alle relazioni complesse con un numero crescente di stakeholder sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione. Tutto ciò offre all’impresa la possibilità di creare, gestire o inserirsi in community di persone interessate allo sviluppo di prodotti e servizi che rientrano nel core business dell’azienda, facendo emergere spunti interessanti, idee e professionalità anche al di fuori dei canali tradizionali. Si pensi, per esempio, ai social network dedicati ai consumatori di un determinato prodotto: gli utenti interagendo tra loro possono scambiare opinioni ed esperienze di consumo e le aziende produttrici possono trarne considerazioni importanti per la formulazione della propria offerta. In particolare, l’azienda può condividere con la

community informazioni sullo sviluppo di un prodotto/servizio o

appoggiarsi a questa per sviluppare attività di crowdsourcing, ottenendo risultati senza precedenti in termini di:

risparmio di tempo;

maggiore velocità nel prendere decisioni;

riduzione dei costi, in termini di investimento, rispetto alle tradizionali attività di ricerca e sviluppo svolte in prima persona dall’azienda;

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realizzazione di prodotti sempre più rispondenti alle reali esigenze dei membri delle community. La sfida per le imprese dei nostri tempi è quella di arrivare sul mercato in modo rapido con prodotti che rispondano alle richieste di clienti sempre più informati ed esigenti, grazie anche alla possibilità di documentarsi attraverso la rete.

La natura partecipativa del web 2.0 riduce poi la necessità di intermediari nel processo distributivo dei prodotti/servizi e, più in generale, consente la gestione diretta delle relazioni tra imprese, partner commerciali, clienti e fornitori. Sempre più aziende implementano nei loro siti web piattaforme di

e-commerce o utilizzano i social network per realizzare strategie di

comunicazione e social media marketing orientate a rafforzare le relazioni con il loro mercato di riferimento. I consumatori, da parte loro, possono utilizzare questi stessi strumenti per partecipare attivamente alle attività di

business delle imprese, condividendone direttamente con loro informazioni

e idee e sviluppando così forme di dialogo non ipotizzabili fino a qualche anno fa.

Le potenzialità degli strumenti e delle logiche del web 2.0 applicate ad ambiti aziendali sono sicuramente enormi, tuttavia hanno trovato non pochi ostacoli nella loro piena implementazione. Se da una parte, infatti, appare estremamente lunga e complessa la strada che porta a un completo rinnovamento delle aziende verso approcci organizzativi e tecnologici basati sul coinvolgimento diffuso, la collaborazione emergente, la condivisione della conoscenza e lo sviluppo e valorizzazione di reti sociali interne e esterne all’organizzazione, dall’altra, l’utilizzo e l’implementazione di queste tecnologie si scontra con le logiche classiche e consolidate di competitività ed efficienza, basate su una cultura di controllo e comando radicato nel management e adottato all’interno dei sistemi organizzativi d’impresa. Basti pensare all’apertura del sistema, fondamento

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11 del 2.0, e a come questo scontri con l’altrettanto fondamentale necessità di tutelare le opere d’ingegno di un’azienda, siano esse idee o prodotti finiti. Pertanto, la decisione di adottare questi strumenti deve partire dalla consapevolezza che tale processo non sarà semplice né, tantomeno, immediato perché presuppone un cambiamento profondo sia nei modelli organizzativi, con il ripensamento degli schemi di collaborazione e relazione, funzionali e gerarchici, una predisposizione delle persone verso nuove dinamiche lavorative e un’apertura dei confini in termini di attori esterni, sia nella cultura d’impresa.

L’enfasi che viene posta sugli strumenti 2.0 rischia di far dimenticare che l’Enterprise 2.0 è un fenomeno soprattutto organizzativo. Affinché le imprese siano pronte ad affrontare i cambiamenti imposti dall’innovazione digitale è necessario che adottino un nuovo schema organizzativo, non più gerarchico e verticale ma di tipo “social”, che permetta di abilitare processi collaborativi che rendano l’impresa maggiormente aperta, flessibile, veloce e spontanea nell’affrontare le nuove sfide di mercati sempre più turbolenti. Un’organizzazione tradizionale di tipo gerarchico è, invece, caratterizzata da un forte controllo verticale delle procedure, privilegia un apporto

standard all’operatività e limita fortemente la velocità e la qualità delle

interazioni tra i collaboratori dell’azienda. Questo modello di gestione dell’impresa sarà sempre meno in grado di far fronte alle sfide dei mercati; il modello “social” che, invece, privilegia gli aspetti collaborativi è alla base della filosofia innovativa dell’Enterprise 2.0.

In aggiunta a quanto detto, per poter sfruttare appieno le potenzialità offerte dagli strumenti 2.0, si rende necessario un cambiamento nella tradizionale mentalità e cultura dell’impresa: il problema principale riguarda non tanto la tecnologia, il business o una specifica funzione aziendale, ma è soprattutto una questione culturale. È un cambiamento che coinvolge in prima persona il top management dell’azienda che, dopo aver compreso a

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fondo la portata del fenomeno, deve farsi promotore e sostenitore fin dall’iniziale implementazione degli strumenti 2.0, cercando di abbattere quelle barriere presenti in azienda che ne limitano il loro potere d’azione.

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2. Il difficile accesso alle risorse finanziarie per le imprese nello stadio iniziale della loro attività

Avviare un’impresa è il sogno di molte persone che hanno acquisito conoscenze e competenze in un determinato settore e che intravedono in quel mercato opportunità interessanti da sfruttare. Il principale ostacolo è, nella maggior parte dei casi, sempre lo stesso, ossia dove reperire le risorse finanziarie necessarie per avviare l’azienda.

Tale difficoltà si ricollega anzitutto ai tratti tipici che contraddistinguono le imprese nello stadio iniziale della loro attività, vale a dire:

l’inesistenza di un cash flow iniziale; il basso livello di capitalizzazione;

la mancanza di dimensioni adeguate e di una storia consolidata.

La situazione è resa ancora più difficile a causa dell’impatto della crisi finanziaria americana (2008) sull’economia reale, cioè sulla produzione e sull’occupazione, che ha provocato il cosiddetto fenomeno di credit

crunch, ovvero la crisi del credito: sta diventando sempre più difficile per

le nuove imprese attrarre finanziamenti esterni nello stadio iniziale della loro attività, dato che le banche difficilmente concedono prestiti, accompagnati solitamente da altissimi tassi di interesse e dalla richiesta di garanzie reali o personali. Tutto ricade quindi sulle spalle dello stesso imprenditore, il quale ha maturato implicitamente la convinzione di avere a prescindere una porta sbarrata al credito bancario. Il risultato è che molte organizzazioni rimangono senza fondi e che numerose start up non riescono ad avviarsi, sia per la mancanza di contanti sia per l’incapacità di attrarre investitori.

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Pertanto, accanto alla formulazione di una valida idea di business e alla strutturazione di un chiaro percorso di start up, diviene di fondamentale importanza accertarsi della disponibilità delle risorse finanziarie necessarie a sostenere l’intero progetto. A tal fine, una delle competenze chiave richieste agli aspiranti imprenditori di successo risulta la capacità di conoscere o quantomeno quantificare in anticipo, con buona approssimazione, il fabbisogno finanziario aziendale iniziale e prospettico, stimare la propria capacità nell’attrarre risorse finanziarie e nel valutare il variegato set di fonti di finanziamento disponibili sul mercato e le relative implicazioni.

2.1 Fabbisogno finanziario e fonti di finanziamento

Per poter acquistare i fattori produttivi, dar vita al circuito della produzione e rinnovare i cicli produttivi, l’azienda deve disporre di risorse monetarie da investire, da trasformare, cioè, in fattori specifici della produzione. In particolare, essa deve disporre in ogni momento della propria esistenza di una quantità di finanziamenti sufficiente a coprire gli investimenti richiesti dalla gestione, dovendo sempre essere verificata l’uguaglianza tra fonti e impieghi. Quando parliamo di fonti, intendiamo far riferimento a “tutti i tipi di finanziamenti destinati a trovare un successivo impiego nell’attività di gestione; in senso più lato, il concetto di fonte (finanziaria) si riferisce a qualunque «causa» di afflusso di capitali (in forma liquida o meno) in azienda”. Definiamo impieghi, invece, “tutte le possibili destinazioni dei capitali pervenuti dalle fonti in attività utili per la gestione aziendale; in

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15 senso più ampio, il concetto di impiego si riferisce a qualunque «causa» di deflusso di capitali (in forma liquida o meno) dall’azienda”5.

In senso ampio, le fonti si distinguono in due grandi classi:

finanziamenti; disinvestimenti.

Gli impieghi, a loro volta, si distinguono rispettivamente in:

investimenti, intesi come qualunque impiego di capitale destinato a trasformarsi in denaro per effetto della gestione. Alcuni di questi investimenti si tramutano direttamente in denaro tramite le operazioni di vendita e incasso (come le merci acquistate per la rivendita da parte di un negozio o un credito commerciale), in altri casi la trasformazione in denaro avviene indirettamente (come nel caso degli impianti di un’azienda manifatturiera, che non sono destinati alla vendita ma solo alla produzione di beni da collocare sul mercato). Un caso particolare è costituito dal denaro liquido che rappresenta una disponibilità in attesa di impiego, piuttosto che un impiego di capitale in senso stretto. Il denaro, infatti, è un investimento sui generis (detto anche fattore produttivo generico) dal momento che non fornisce alcuna utilità diretta alla produzione ma è fondamentale per l’acquisizione di qualunque altro fattore produttivo. Gli investimenti possono essere distinti secondo molteplici classificazioni. Una fondamentale ripartizione distingue gli investimenti in:

- strutturali, volti a permanere a lungo in azienda cedendo gradualmente utilità in molteplici cicli di produzione di

5 L. Marchi, Introduzione all’economia aziendale. Il Sistema delle operazioni e le condizioni di equilibrio

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beni/servizi e di vendita degli stessi (come impianti, macchinari, immobili, automezzi, ecc.) e quindi destinati a realizzarsi in denaro in un periodo non breve;

- correnti, effettuati per dare luogo ad un unico ciclo produttivo (come materie prime, semilavorati, crediti concessi ai clienti, lavoro dipendente, ecc.) e quindi destinati a trasformarsi in denaro nel breve periodo.

rimborsi di capitale, da considerarsi impieghi poiché determinano un deflusso di capitale (come ad esempio il rimborso di un finanziamento bancario precedentemente ottenuto). Essi si differenziano dagli investimenti in quanto non comportano l’acquisizione di elementi destinati a trasformarsi direttamente o indirettamente in ricavi di vendita.

A questo punto si possiedono tutti gli elementi per fornire una definizione di fabbisogno di finanziamento che, in prima approssimazione, può essere inteso come il totale degli impieghi che un’azienda ha in corso. In quanto tale, esso richiede una corrispondente quantità di finanziamenti in grado di sostenerlo poiché, come detto in precedenza, in ogni momento è necessario che il totale delle fonti sia equivalente al totale degli impieghi. Ne consegue che le decisioni riguardanti gli impieghi non possono essere disgiunte dalle decisioni riguardanti le fonti e che la programmazione degli investimenti deve procedere di pari passo con la programmazione dei finanziamenti. Volendo fornire una definizione più precisa, il fabbisogno di finanziamento è dato dalle “occorrenze già concretatesi, o che si concreteranno, di mezzi monetari da usare per lo svolgimento della gestione, e quindi, in sostanza per ottenere la disponibilità, da parte del soggetto economico, degli

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17 strumenti o fattori della produzione”6. In sostanza, quando si parla di fabbisogno di finanziamento, si fa riferimento ai mezzi monetari di cui l’azienda necessita per procurarsi i fattori della produzione e allestire, così, la combinazione produttiva idonea allo svolgimento dell’attività aziendale. Il fabbisogno di finanziamento può essere distinto in:

fabbisogno lordo (o complessivo), dato dalla soma di tutti gli impieghi (siano essi costituiti da investimenti realizzati, in attesa di realizzo e rimborsi di capitale);

fabbisogno netto (o residuale), ottenuto sottraendo dal fabbisogno finanziario lordo i ricavi di vendita.

Nello specifico, il fabbisogno lordo trae origine dal coordinato insieme dei fabbisogni elementari determinati dallo svolgimento dell’attività aziendale e indica la quantità di mezzi finanziari di provenienza esterna e interna necessari per lo svolgimento della gestione. Il fabbisogno netto, invece, fa riferimento alla parte del fabbisogno la cui copertura dipende esclusivamente dall’acquisizione di mezzi finanziari esogeni; si riferisce, pertanto, alla sola parte del fabbisogno lordo che deve essere coperta con mezzi di provenienza esterna (capitale di proprietà e capitale di terzi).

La comprensione delle caratteristiche di quantità e qualità del fabbisogno finanziario rappresenta il presupposto informativo necessario per definire il

mix delle fonti di finanziamento più idonee a soddisfarlo e a garantire il

raggiungimento e mantenimento di un equilibrio finanziario (sia sotto l’aspetto monetario che strutturale).

6 E. Gonnella, Il fenomeno azienda. Elementi costitutivi e condizioni di funzionamento, Milano, Franco

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Le modalità di copertura del fabbisogno finanziario sono molteplici e, a seconda della fonte di provenienza, possono essere classificate in due grandi categorie:

fonti interne (o endogene) di finanziamento, costituite dai ricavi derivanti dalle vendite della produzione ottenuta e comportanti l’ingresso in azienda di nuovi mezzi monetari da impiegare per lo svolgimento di successive operazioni. L’aggettivo “interne” sta ad indicare la provenienza di tali fonti dallo svolgimento delle attività caratteristiche (acquisto, produzione e vendita) dell’azienda;

fonti esterne (o esogene) di finanziamento, rappresentate dai mezzi monetari non prodotti dall’attività svolta dall’azienda (non derivano da vendite della produzione aziendale), ma provenienti dall’esterno e forniti da diversi soggetti a titolo sia di capitale proprio, sia di capitale di debito. La loro funzione è quella di coprire il fabbisogno di finanziamento che non è stato possibile fronteggiare ricorrendo alle fonti interne.

La somma dei capitali che affluiscono dalle fonti interne e esterne rappresentano la fonte di finanziamento complessiva.

Nell’ambito delle fonti interne, un aspetto importante è rappresentato dall’autofinanziamento. Tale concetto può essere interpretato secondo due profili differenti. La prima interpretazione vede l’autofinanziamento come il processo con cui l’azienda “genera” mezzi finanziari mediante lo svolgimento della gestione corrente.

A questa visione si possono collegare i concetti di:

autofinanziamento lordo, rappresentato dai ricavi di vendita con le correlative entrate, provenienti dallo svolgimento delle attività caratteristiche dell’azienda, deputati a coprire sia i costi di periodo

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19 che hanno avuto manifestazione finanziaria (o costi pagati), sia quelli non aventi manifestazione finanziaria (o costi non pagati, come ad esempio gli ammortamenti e gli accantonamenti a fondi rischi, fondi spese, ecc.) e a formare l’utile di periodo per la parte distribuita e per la parte riservizzata (non distribuita);

autofinanziamento netto, ottenuto sottraendo dal volume dei ricavi di vendita (autofinanziamento lordo) le uscite correlate ai costi di periodo aventi manifestazione finanziaria7. L’autofinanziamento netto esprime il contributo offerto dai ricavi di vendita dell’esercizio (con le correlative entrate) al soddisfacimento della parte di fabbisogno di finanziamento che residua dopo la copertura dei costi d’esercizio pagati (con le relative uscite).

Se l’autofinanziamento netto d’esercizio è positivo, significa che il flusso derivante dalle fonti interne, cioè dai ricavi di vendita, non solo è stato sufficiente a coprire i costi aventi manifestazione finanziaria nell’esercizio, ma è anche disponibile per:

- effettuare nuovi investimenti, senza dover ricorrere a fonti esterne di finanziamento;

- rimborsare parte delle fonti esterne già acquisite, senza dover dismettere degli investimenti in corso8.

Da quanto detto, si intuisce che per le aziende questo tipo di finanziamento è particolarmente gradito in quanto consente una notevole autonomia finanziaria, non richiedendo il ricorso a fonti esterne. Inoltre, tale finanziamento non ha un costo esplicito e diretto, a differenza delle fonti esterne che in qualche modo

7

L’autofinanziamento netto, oltre alla modalità succitata (metodo diretto), può essere determinato anche andando a sommare all’utile/perdita d’esercizio i costi di periodo non aventi manifestazione finanziaria, vale a dire ammortamenti e accantonamenti (metodo indiretto).

8 L. Marchi, Introduzione all’economia aziendale. Il Sistema delle operazioni e le condizioni di equilibrio

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impongono all’azienda una remunerazione a favore di coloro che forniscono le risorse. Infine, questa forma di finanziamento non ha una scadenza, potendo indefinitivamente permanere in azienda. Se, invece, l’autofinanziamento netto fosse negativo, significherebbe che i ricavi di vendita non sono in grado neppure di coprire i costi di esercizio aventi manifestazione finanziaria. In tale situazione, consegue che l’azienda deve necessariamente acquisire nuove fonti esterne per fronteggiare la copertura dei costi di esercizio.

La seconda interpretazione definisce l’autofinanziamento come il processo con cui sono “trattenuti” in azienda i mezzi finanziari generati dalla gestione corrente nel corso del periodo amministrativo.

Si distingue in merito tra:

autofinanziamento proprio, derivante dalla riservizzazione di tutto o parte dell’utile di esercizio;

autofinanziamento improprio, costituito essenzialmente da ammortamenti e accantonamenti che, pur essendo portati a carico dell’esercizio dal punto di vista economico, non hanno avuto nell’esercizio stesso la relativa uscita monetaria-finanziaria9

. Questo fenomeno viene considerato autofinanziamento in quanto si tratta di mezzi finanziari non usciti dall’azienda, al pari degli utili riservizzati non prelevati dall’imprenditore10

. Mentre però per questi ultimi la decisione di non prelevarli viene presa nel momento della distribuzione degli utili, per l’autofinanziamento improprio la decisione di accantonare e ammortizzare viene effettuata a fine

9 Gli accantonamenti e ammortamenti sono dei costi che non hanno avuto la manifestazione finanziaria.

L’effetto che produce l’inserimento a conto economico di un costo non avente manifestazione finanziaria è quello di abbattere l’utile - si trattengono risorse in azienda.

10 A differenza dell’autofinanziamento proprio che ha effetti durevoli, l’autofinanziamento improprio ha

effetti temporanei (nel caso degli ammortamenti, viene meno nel momento in cui si procede al rinnovo del fattore strutturale).

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21 esercizio dall’amministratore in sede di compilazione del bilancio; si tratta, dunque, di utili non rilevati.

Le fonti esterne di finanziamento, il cui scopo come detto è quello di far fronte al fabbisogno di finanziamento non coperto dalle fonti interne, sono costituite:

dal capitale di proprietà (o di rischio); dal capitale di prestito (o di debito).

Queste due alternative, attraverso le quali i finanziamenti possono essere attinti, differiscono profondamente non soltanto sotto il profilo giuridico, ma anche negli aspetti che attengono più direttamente all’attività dell’impresa, alla sua economia.

Basti pensare:

ai differenti tempi di permanenza del capitale di proprietà, legato in modo durevole all’economia dell’impresa, rispetto a quello di prestito, che pone problemi di rimborso alle scadenze contrattuali; alle differenti modalità di remunerazione.

In particolare, con riguardo al primo punto, nel momento in cui uno o più soggetti intendono avviare un’iniziativa imprenditoriale, sono chiamati a dotare l’impresa costituenda di adeguati mezzi monetari (capitale iniziale). Il capitale di proprietà viene conferito senza obblighi temporali di restituzione; solitamente si ritiene vincolato in modo permanente alle vicende produttive dell’impresa, nel senso che, salvo casi particolari, non verrà restituito alla proprietà fino a quando non diventi esuberante o non si voglia cessare l’attività produttiva. Questa circostanza è di grande rilievo nella dinamica produttiva dell’impresa, poiché i mezzi monetari raccolti con il vincolo di capitale di proprietà possono essere tranquillamente

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impiegati per alimentare investimenti che assorbono durevolmente tali risorse o sono caratterizzati da recuperi graduali, che si protraggono anche per tempi lunghi, senza l’assillo della restituzione dei mezzi monetari. Tale preoccupazione caratterizza, invece, i finanziamenti attinti a presto, dati gli obblighi di restituzione contrattualmente assunti verso terzi, per importi e tempi definiti. Sulla base delle scadenze temporali, questi si distinguono in debiti a breve termine (aventi scadenza inferiore all’anno) e debiti a medio-lungo termine (esigibili oltre l’esercizio successivo), mentre a seconda della natura dell’operazione i finanziamenti di debito si distinguono in debiti di finanziamento in senso stretto (detti anche debiti finanziari o prestiti) e debiti di regolamento (detti anche debiti commerciali o di fornitura).

In relazione al secondo punto, si precisa che la remunerazione del capitale di proprietà conferito non è definita contrattualmente ma è decisa, di volta in volta, dalla stessa proprietà in relazione all’andamento delle vicende produttive (ossia all’entità del reddito generato dalla gestione) e alle prospettive di incremento del volume degli investimenti. È, dunque, una remunerazione variabile che non dovrebbe essere corrisposta nell’ipotesi di reddito negativo, quando l’attività produttiva, anziché creare nuova ricchezza, distrugge parte del capitale in essa investito. I finanziamenti attinti a prestito, invece, richiedono una remunerazione fissata dalle condizioni contrattuali che di solito prescinde completamente dalle circostanze in cui si svolge l’attività produttiva e dai risultati che da essa promanano. Tale remunerazione, che rappresenta il costo del finanziamento, deve essere comunque riconosciuta al finanziatore anche nei momenti in cui l’impresa non riesce a produrre redditi positivi. Si tratta, pertanto, di una fonte rigida di finanziamento, in cui i tempi e le modalità di rimborso sono strettamente vincolate a quanto definito in sede contrattuale.

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23 Il capitale di proprietà (sia quello conferito sia quello identificato nella nuova ricchezza generata dalla gestione e lasciata nella disponibilità dell’impresa) viene denominato “capitale di rischio”, a sottolineare la possibilità di mancata remunerazione, ma soprattutto la sua istituzionale destinazione ad investimenti effettuati in condizioni di incertezza e, pertanto, soggetti al rischio di perdite. Al riguardo, è opportuno ribadire che anche i mezzi monetari che affluiscono all’impresa a seguito di finanziamenti attinti con vincolo di prestito sono sottoposti al rischio d’impresa. Ciò significa che la restituzione di tali mezzi monetari, assunti a prestito e investiti, è condizionata dal recupero degli stessi attraverso la fase terminale dell’attività produttiva, cioè attraverso il conseguimento dei ricavi. Si comprende allora come la possibilità di attingere mezzi monetari a prestito da terzi (capacità di credito) sia largamente determinata dalla capacità dell’impresa finanziata di assicurare flussi prospettici di ricavi superiori ai flussi prospettici di costi (inclusi gli oneri dei prestiti), generando nuova ricchezza (reddito positivo) attraverso l’attività produttiva (capacità di reddito)11.

2.2 Fabbisogno finanziario e tipologie di finanziatori nelle diverse fasi del ciclo di vita dell’impresa

In fase di avvio dell’attività, l’analisi degli aspetti finanziari, finalizzata alla determinazione del fabbisogno di capitali e, di conseguenza, all’individuazione delle fonti di copertura più adeguate, deve essere fatta con una attenzione e con un impegno particolare perché fondamentale per creare buone basi per la futura impresa.

11 E. Cavalieri, R. Ferraris Franceschi, Economia aziendale (volume 1). Attività aziendale e processi

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La scelta tra le varie modalità di finanziamento, cui l’impresa può far ricorso per sopperire alla mancanza di risorse finanziarie, dipende primariamente dalle caratteristiche, dall’esperienza e dalle scelte dell’imprenditore, dal settore di riferimento e dalla fase del ciclo di vita dell’impresa. Ogni fase, infatti, presenta caratteristiche diverse, in termini di andamento delle vendite, intensità di assorbimento del capitale investito e capacità di autofinanziamento, che si riflettono sul fabbisogno finanziario e sul livello di rischio.

Secondo una classificazione largamente utilizzata in letteratura economica, il processo che dalla nascita dell’idea innovativa arriva allo stadio di vendita del prodotto sul mercato si compone di una serie di fasi caratterizzate da un differente livello di rischio e di fabbisogno finanziario e dal conseguente impiego di diverse fonti finanziarie che meglio si addicono alle esigenze di ciascuna fase di sviluppo del business.

In particolare, l’evoluzione del fabbisogno finanziario può essere rappresentato attraverso quattro fasi12:

1) fase di concepimento dell’idea innovativa (seed); 2) fase di avvio (start up);

3) fase di espansione iniziale (early growth); 4) stadio di sviluppo sostenuto (sustained growth).

La figura seguente13 (figura 1) mostra le diverse fasi di sviluppo del

business e, per ciascuna di esse, il livello di rischio, i fabbisogni finanziari

corrispondenti e il tipo di finanziamento generalmente più idoneo.

12

E. Gualandri, V. Venturelli, Nasce l’impresa. Start up: dal progetto al mercato (http://www.nascelimpresa.it/doc/guida_START-UP.pdf).

13 Figura tratta dal Quaderno IBAN (2008): Guida pratica allo sviluppo di progetti imprenditoriali.

Avviare un’impresa con il sostegno del Business Angel, a cura di KPMG con in patrocinio di AIFI

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25 La prima fase, di concepimento dell’idea innovativa (seed), si contraddistingue per un’elevata incertezza dei risultati prospettici e per un fabbisogno finanziario contenuto, spesso limitato all’esborso necessario per la valutazione tecnico-economica del progetto di investimento. Questa è la fase in cui, dopo un preliminare studio di fattibilità del progetto da parte dell’imprenditore (cd. fase pre-seed), le incertezze relative agli sviluppi futuri dell’idea imprenditoriale sono ai massimi livelli e il ricorso alle risorse finanziarie esterne è praticamente impossibile, in quanto l’idea d’impresa è soltanto abbozzata. In questa fase di concepimento dell’idea innovativa, in cui i volumi di vendita sono pari a zero, la capacità di autofinanziamento è nulla e la necessità di risorse sono limitate, i vincoli finanziari determinano il ricorso a forme di finanziamento informali che provengono dalle risorse personali dell’imprenditore o da famiglia ed amici, le cosiddette 3Fs. (Family, Friend and Fool, in italiano famiglia, amici e folli, ironicamente definiti come coloro disposti a prestare denaro solo per vedere se un’idea può funzionare).

La fase successiva, di avvio (start up), in cui l’idea precedentemente concepita viene sottoposta al mercato, è sempre caratterizzata da un elevato grado di aleatorietà circa le probabilità di successo dell’idea innovativa cui

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si aggiunge l’insorgere di un elevato fabbisogno finanziario (dovuto agli investimenti finalizzati alla predisposizione della capacità produttiva e quelli in capitale circolante) e una sostanziale assenza di ricavi associati ad una crescente intensità di capitale investito. In maggior dettaglio, il conseguimento di risultati economici negativi è legato al mancato raggiungimento dei volumi di vendita necessari a coprire i costi fissi aziendali; ciò si verifica perché l’impresa non ha ancora acquisito il proprio

target di mercato, non essendo ancora nota ai potenziali clienti o perché le

funzioni d’uso dei suoi prodotti sono ancora in gran parte sconosciute. In questo stadio, l’elevato fabbisogno finanziario viene reperito sia all’interno (risorse personali dell’imprenditore, autofinanziamento limitato) sia all’esterno, mediante il ricorso a due figure principali: gli incubatori

aziendali e i business angels, gli “angeli degli affari”.

La fase di espansione iniziale (early growth) vede gradualmente ridursi l’esposizione al rischio operativo a fronte del mantenimento di un fabbisogno finanziario elevato connesso all’esigenza di sviluppare una rete distributiva capillare sul mercato, all’elevata intensità di capitale per gli investimenti in capacità produttiva e al rapido sviluppo del capitale circolante. In questa fase, gli elevati tassi di crescita del fatturato comportano un miglioramento del margine di autofinanziamento, pur non sufficiente a coprire integralmente il fabbisogno finanziario. Particolare importanza assume la figura del venture capital, un investitore istituzionale che, oltre a finanziare l’impresa, affianca il management della stessa nelle decisioni spesso molto delicate che afferiscono ai primi stadi di vita del progetto.

Nello stadio di sviluppo sostenuto (sustained growth), caratterizzato da rischiosità operativa più contenuta, l’impresa aumenta la propria capacità di generare risorse interne, grazie all’elevato tasso di crescita del fatturato, a cui si associa una tendenziale contrazione dell’intensità del capitale

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27 investito, dovuta ad un più efficiente utilizzo della capacità produttiva e agli effetti della curva d’esperienza. In tal caso, l’autofinanziamento si sostituisce gradualmente al capitale di debito (soprattutto quello bancario), tuttavia ancora necessario per garantire il più appropriato equilibrio finanziario. Superate le fasi critiche dell’avvio e della crescita, durante la fase della stabilità generalmente le imprese tendono a diversificare le fonti di finanziamento, indirizzandosi verso strumenti finanziari più complessi, poiché le asimmetrie informative si riducono e l’impresa ha guadagnato una reputazione soddisfacente per operare sui mercati finanziari. Viene in questo modo a delinearsi una sorta di “gerarchia finanziaria” secondo cui i finanziamenti a titolo di capitale di rischio precedono il ricorso all’indebitamento bancario, in quanto meno costosi e più adeguati allo scopo. Vale la pena ricordare che, mentre il reperimento di finanziamenti a titolo di debito comporta l’impegno dell’imprenditore a mantenere i conti in ordine, a remunerare gli interessi pattuiti e a informare la banca periodicamente dell’andamento degli affari, la possibilità di coinvolgere nuovi soggetti nel capitale di rischio può apportare ulteriori stimoli all’innovazione, alla ricerca della redditività e alla conoscenza.

Dopo aver considerato le caratteristiche del fabbisogno finanziario delle imprese nel corso del loro sviluppo, con il passaggio dalla fase di seed a quella di sustained growth, veniamo adesso ad approfondire quali sono le più appropriate forme di finanziamento cui è possibile rivolgersi proprio nella fase di start up (a prescindere dalla tipologia di attività economica da svolgere), partendo da quelle a titolo di capitale di rischio per poi passare a quelle di debito, mettendone in evidenza pregi e criticità.

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2.3 Il capitale di rischio: il ricorso agli incubatori, business angels e venture capital

Nella fase immediatamente successiva a quella iniziale è frequente la situazione in cui l’aspirante imprenditore si trovi in una duplice difficoltà:

la prima legata al reperimento delle fonti di finanziamento per coprire il doppio fabbisogno, strutturale e corrente, summenzionato; la seconda determinata dal fatto che, una volta partita l’attività, dovrà

affrontare dei momenti di flusso di cassa negativo, cioè la situazione in cui prima del conseguimento dei ricavi deve sostenere dei costi. Questo, dal punto di vista strettamente finanziario – monetario, significa che prima si paga e dopo si incassa, il che può creare delle tensioni finanziarie soprattutto se l’imprenditore non dispone delle risorse finanziarie per mandare avanti il business per un certo periodo di tempo, cioè fino a quando non si inverte il flusso di cassa negativo e si trasforma in un flusso positivo.

Inoltre, la mancanza di una storia consolidata e la presenza di informazioni ancora scarse sul progetto da finanziare rendono limitato o eccessivamente costoso il ricorso al capitale di debito. L’unica strada sembra essere quella del capitale di rischio. Dando per assodata la validità strategica del progetto imprenditoriale, all’imprenditore che intende rafforzarsi patrimonialmente con il ricorso al capitale di rischio, prescindendo dalla disponibilità di risorse nell’ambito familiare o di ristrette conoscenze personali, si prospettano diverse soluzioni, con caratteristiche e implicazioni differenti e tali da renderle maggiormente idonee a specifiche fasi del processo di start

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29 Di seguito, si illustrerà il ruolo:

degli incubatori aziendali che, oltre a prestare servizi volti a facilitare la fase di pre-seed e di seed, possono intervenire per un periodo limitato con partecipazioni di minoranza;

dei business angels che intervengono sia a livello finanziario sia con l’apporto di know how, solitamente nelle fasi di seed e di start up; dei venture capitalists14, il cui intervento si estende dallo start up

all’early growth ma spesso con un target specifico ad imprese ad elevata propensione all’innovazione.

La demarcazione tra i vari momenti in cui le imprese in questione ricorrono alle diverse fonti di finanziamento non è così netta. Inoltre, le fonti sopra elencate hanno un alto grado di complementarità: spesso il business angel costituisce una figura chiave per l’impresa che vuole successivamente essere finanziata dal venture capital, così come quest’ultimo è un passaggio obbligato per ridurre le asimmetrie informative e accedere al mercato mobiliare.

Nel menzionare le fonti a titolo di capitale di rischio si prescinde volutamente dal considerare la quotazione in borsa, quale ulteriore canale di raccolta di finanziamenti, in quanto risulta essere troppo onerosa a causa della mancanza di informazioni disponibili agli investitori e quindi al permanere delle asimmetrie informative. Inoltre, i regolamenti di borsa spesso impongono una soglia minima legale e requisiti di trasparenza per essere immessi sul mercato azionario che, di fatto, impediscono alle start

up l’utilizzo di questo strumento. La quotazione, infatti, avviene

tipicamente nel momento in cui l’impresa ha raggiunto una certa

14 Pur essendo spesso utilizzati come sinonimi, venture capital e private equity sono riferibili a due

diverse fasi della vita di una società. Il venture capital vero e proprio si riferisce al solo finanziamento dell’avvio di nuove attività imprenditoriali, mentre il private equity comprende le operazioni di investimento realizzate in fasi del ciclo di vita delle aziende successive a quella iniziale.

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dimensione e notorietà (sustained growth), ossia si colloca come modalità di finanziamento nella fase finale di sviluppo dell’impresa.

2.3.1 Gli incubatori aziendali

Gli incubatori aziendali svolgono un ruolo decisivo nel processo di trasformazione di un’idea di business in realtà, fornendo ai neoimprenditori risorse e servizi (amministrativi, strategici, logistici, tecnologici e finanziari) per accelerare lo sviluppo aziendale.

In particolare, gli incubatori, considerati dei veri e propri “facilitatori aziendali”, sono enti di diversa natura ed emanazione (profit oriented, non

profit, di emanazione pubblica, universitari, appartenenti a gruppi

industriali) che raccolgono le idee imprenditoriali stimate ad alto potenziale di ritorno economico, ma non ancora pronte per essere massicciamente finanziate, e forniscono loro, per un periodo di tempo limitato (di solito uno o due anni) ed a patto che vengano rispettati determinati requisiti, tutto ciò che possa aiutarle a nascere e a crescere: da spazi fisici dove poter organizzare le prime fasi della propria attività, a servizi amministrativi, di

marketing, di reperimento del personale e di finanziamenti, all’assistenza

nella redazione del business plan, all’accesso a contatti con ulteriori potenziali investitori disposti a supportare il progetto negli stadi successivi. Lo scopo degli incubatori è quello di predisporre un ambiente favorevole alla nascita di nuove imprese, di accompagnarle nella prima fase di vita, anche condividendone una parte del rischio, e di accelerarne lo sviluppo attraverso la messa in rete con una serie di operatori che possano integrare il loro set di conoscenze e provvedere a round di finanziamenti successivi.

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2.3.2 I business angels

I business angels, gli “angeli degli affari”, sono investitori informali privati che seguono le giovani imprese con forte potenziale di crescita al fine di investirvi nella fase di concepimento (seed) o di avviamento (start up) e ritrarre in futuro elevati rendimenti dalla vendita, parziale o totale, della partecipazione iniziale. L’aggettivo informale si riferisce alle modalità di ricerca e selezione dell’investimento che caratterizza tale figura (per questo vengono anche identificati con il termine di informal venture capital) a cui si contrappongono gli investitori nel capitale di rischio di tipo formale, ossia coloro che adottano un approccio di analisi formale agli investimenti nell’equity (come i fondi di venture capital).

In particolare, i business angels sono “uomini di impresa” (manager in attività o in pensione, ex titolari d’impresa, liberi professionisti), dotati di un buon patrimonio personale, che apportano ad aziende in fase di start up (o che presentano un forte potenziale di crescita):

capitali di rischio per un certo numero di anni (comunemente dai tre ai cinque anni);

preziosi consigli gestionali e conoscenze tecniche-operative; una consolidata rete di contatti nel mondo degli affari.

Divenendone soci di minoranza partecipano alla gestione dell’impresa investita. Non si tratta di finanziamenti in forma di credito poiché non devono essere ripagati ad una data cerata (sono generalmente disponibili a mantenere la loro partecipazione nel medio-lungo periodo in quanto il loro fine ultimo dichiarato è quello di realizzare il proprio investimento tramite la cessione della loro partecipazione con profitto) e non fruttano interessi al creditore. I business angels selezionano le società nelle quali investire in

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base al business plan e non richiedono garanzie, rispondendo quindi alle esigenze delle start up. Il loro intervento consente alle neoimprese di finanziare una parte del fabbisogno nelle prime fasi di vita e di essere affiancati da partner competenti nella conduzione della start up. L’investimento può essere fatto singolarmente, e in tal caso il taglio medio può variare dai 20.000 euro ai 250.000 euro per impresa, o in gruppo (sindacati) con investimenti ben più importanti.

Occorre rimarcare che i business angels non sono esclusivi finanziatori delle imprese in quanto il loro apporto di competenze, solitamente in finanza e gestione di investimenti, e di contatti si rivela spesso importante tanto quanto il finanziamento stesso. Un aspetto collaterale dell’intervento di un business angel è legato all’aumento della reputazione della start up, in quanto si presume che esso abbia investito poiché, basandosi sulla sua esperienza imprenditoriale e conoscenza specifica del business, ha giudicato interessante il progetto. Dopo l’intervento del business angel risulta pertanto più facile ottenere credito dagli istituti finanziari, che percepiscono il rischio in misura minore.

Sovente dopo l’uscita del business angel subentrano altri tipi di investitori più evoluti, quali le imprese di venture capital, ed in grado di apportare capitali più sostanziosi per finanziare la fase di crescita dell’azienda.

Nel caso dei business angels (lo stesso discorso si potrebbe fare in merito alle imprese di venture capital), poiché un fattore determinante nella scelta dei progetti da finanziare è il rendimento atteso del progetto stesso, alcuni progetti, pur avendo buoni rendimenti, non verrebbero presi in considerazione nel caso in cui la loro profittabilità risultasse inferiore a quella desiderata dal business angel. Un ulteriore aspetto negativo è legato alle possibili divergenze di opinioni che possono ingenerarsi con l’imprenditore sulle strategie da adottare o sugli obiettivi da perseguire.

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2.3.3 Il venture capital

Qualora l’impresa disponga già alla nascita di un piano imprenditoriale chiaro, di un valido progetto di sviluppo con buone prospettive di crescita e di uno staff manageriale determinato e ambizioso potrà rivolgersi a un fondo di venture capital, una tipologia di investitore istituzionale specializzata nell’apporto di capitale di rischio in realtà di nuova costituzione, di piccole dimensioni e di elevata propensione all’innovazione.

Reperire mezzi finanziari da un venture capitalist non è però così semplice in quanto tali investitori istituzionali concentrano l’attenzione su progetti caratterizzati da un elevato potenziale di sviluppo, cioè su iniziative nelle quali l’apporto di capitale e di competenze professionali da parte loro potrebbe accelerare il processo di creazione di valore. In altri termini, essi privilegiano imprese con valide prospettive di crescita dimensionale e reddituale, con un imprenditore competente, credibile e trasparente ed un

management con consolidata esperienza nel settore. Per l’imprenditore che

si presenta da un venture capitalist alla ricerca di capitali, il business plan rappresenta lo strumento fondamentale per dimostrare la realizzabilità e profittabilità del proprio progetto imprenditoriale. Esso è il documento dal quale l’investitore avvia tutte le valutazioni in merito all’opportunità di investire ed al potenziale ritorno economico.

A differenza del business angel, il venture capitalist opera come un vero e proprio intermediario finanziario raccogliendo i fondi da un gruppo di investitori (generalmente banche, fondi pensione, compagnie di assicurazione) e rinvestendoli nel capitale azionario di società giovani ad alto potenziale di crescita e di rischio, che operano spesso nel settore high

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di capitale di rischio, in cambio del quale i venture capitalists ricevono una percentuale dell’equity e solitamente uno o più posti nel consiglio di amministrazione. La partecipazione, da intendersi temporanea e minoritaria, è finalizzata allo sviluppo dell’impresa, all’aumento del suo valore e alla possibilità di realizzare un elevato capital gain in sede di dismissione. Il loro obiettivo, infatti, è quello di realizzare nel medio termine un importante guadagno in conto capitale: molta attenzione nella scelta delle iniziative da finanziare viene, quindi, riposta nella valutazione delle tendenze del mercato e delle prospettive di smobilizzo della partecipazione. Il venture monitora in maniera continuativa l’andamento dell’impresa (attraverso uno o più soggetti che siedono nel consiglio di amministrazione dell’impresa) ed interviene nella formulazione delle strategie fino al pieno sviluppo aziendale, laddove l’investitore in questione decide, nella maggioranza dei casi, di dismettere il finanziamento (rivendendo le quote ai soci o ad altro investitore oppure quotando l’impresa). Oltre ad apportare risorse finanziarie, i venture capitalists forniscono anche una serie di competenze specifiche in quanto solitamente, essendo specializzati nel finanziamento di un dato settore, sviluppano un’alta conoscenza dello stesso che poi sfruttano sia assumendo un ruolo attivo nella gestione dell’impresa sia fornendo una continua consulenza al

management sui temi di finanza, marketing, controllo di gestione e

pianificazione strategica.

Come già sottolineato, il venture capital si rivela una figura chiave nel finanziamento delle imprese in fase di start up perché aiuta a ridurre le asimmetrie informative nei confronti di terzi, infondendo credibilità nel progetto e nell’impresa. Ciò va a beneficio di un’eventuale quotazione sul mercato borsistico che altrimenti sarebbe di difficile attuazione. Tuttavia, esso presenta aspetti che non lo rendono adatto a finanziare tutti i progetti: si fa riferimento agli investimenti che si trovano nella fase embrionale di

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seed o caratterizzati da una dimensione economica ritenuta dai finanziatori

insufficiente per recuperare i costi contrattuali e di valutazione (cosiddetto

small ticket problem). Esistono, infatti, idee imprenditoriali realizzabili con

poco denaro ma non così profittevoli da giustificare l’ingresso di un fondo di venture capital, più attratto da progetti di importi e profittabilità maggiori. L’interesse di questi investitori è generalmente rivolto a progetti di grandi dimensioni che appartengono soprattutto a settori innovativi (quali ICT, telecomunicazioni, energie rinnovabili e ambiente biomedico e meccanico). In particolare, i venture capitalists sono caratterizzati da tagli minimi di investimento (che vanno da 500.000 euro a 1.500.000 euro), solitamente troppo elevati rispetto alle esigenze di nuovi progetti imprenditoriali. Di conseguenza, un piccolo progetto, sebbene potenzialmente di successo, rischierebbe di essere scartato laddove il suo ambito non fosse d’interesse per l’impresa di venture capital. Pertanto, l’intervento del venture capitalist avviene solitamente quando la fase di primo avvio dell’impresa si è conclusa e l’investimento richiede un ulteriore sostegno finanziario oppure in seguito all’uscita del business

angel. Infine, non si può non tener conto del fatto che il venture capital non

risulta adeguatamente sviluppato nel nostro Paese, avendo il comparto una dimensione media pari circa a un terzo di quella europea e meno di un decimo di quella americana.

2.4 Il capitale di debito: prestito e leasing finanziario

Tipicamente le imprese coprono una quota rilevante del proprio fabbisogno finanziario ricorrendo ai prodotti/servizi offerti da intermediari, quali banche o società finanziarie. In alternativa, alcune di esse possono intraprendere la via dell’emissione di titoli obbligazionari o di cambiali

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finanziarie, ma queste ultime possibilità si sono rivelate piuttosto limitate per le realtà di nuova costituzione in quanto sottoposte a vincoli rigidi, come l’assunzione della forma giuridica di società per azioni o la presentazione di più bilanci in utile.

2.4.1 Il prestito

Il prestito consiste nella cessione di una somma di denaro, da parte di un istituto o una società di credito autorizzata, con il vincolo della restituzione di capitali di pari o maggiore valore. In altri termini, il soggetto finanziatore presta denaro all’azienda per un certo intervallo di tempo, trascorso il quale la somma di denaro dovrà essere restituita e, nel frattempo, l’azienda pagherà un interesse come compenso per la disponibilità del denaro.

Al riguardo, la banca rappresenta la principale controparte delle imprese nella ricerca di fondi a titolo di capitale di debito. L’indebitamento bancario costituisce storicamente una delle forme di finanziamento maggiormente utilizzate dalle imprese ed è da tempo oggetto di specifiche regole, introdotte con gli accordi di Basilea15, che hanno comportato l’applicazione di nuovi criteri in grado di valutare con maggiore precisione il rischio di affidamento e a cui sono collegati degli accantonamenti obbligatori, che naturalmente impattano sulla redditività delle imprese e delle banche. La politica di finanziamento degli istituti di credito è improntata ad un’analisi molto scrupolosa del merito creditizio, insito nelle

15 L’accordo di Basilea per l’adeguatezza patrimoniale delle banche nasce nel 1988 con l’obiettivo di

adeguare le risorse patrimoniali delle banche ai rischi, in particolare quello di credito. Con la successiva revisione di Basilea 2, approvata nel 2004 e in vigore dal 2007, viene introdotto lo strumento del rating per determinare il rischio di credito delle imprese che richiedono finanziamenti alle banche. Tale impostazione è confermata da Basilea 3 che, approvata nel 2010, entrerà in vigore gradualmente entro il 2018.

Riferimenti

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