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Enrico VII e la Toscana

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Academic year: 2021

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INDICE

I.

LA DISCESA DI ENRICO VII

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II.

CONTENUTO E STRUTTURA DEL DOCUMENTO

25 1. Firenze 28

2. Lucca 47

3. Volterra 72

4. Siena 76

III. L’AMMINISTRAZIONE IMPERIALE IN TOSCANA

AL TEMPO DI FEDERICO II

83

1.

Incoronazione imperiale di Federico II 83

2.

Anni Venti e Trenta 88

3.

Vicende sarde 100

4.

Tuscia imperialis 105

5.

Federico d’Antiochia e il tramonto del potere imperiale 118

IV.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE

134

1. Panoramica generale sui Comitati citati nel documento 134

2. La volontà centralizzatrice di Federico II 153

3. Finalità del documento 156

4. Il progetto utopico di Enrico VII 162

5. Il patriziato fiorentino 165

6. La morte dell’Alto Arrigo 168

FONTI

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I.LA DISCESA DI ENRICO VII

Il mio lavoro di ricerca si basa su un documento compilato dal notaio al servizio dell’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo, Bernardo de Mercato. Tale fonte è oggi conservata all’Archivio di Stato di Torino (Diplomi Imperiali Mazzo 3 numero 23)1. Si tratta di una lista di nomi di località toscane rivendicate, dal punto di vista giurisdizionale, dal Sacro Romano Impero. Parlerò nei capitoli successivi della morfologia, del contesto e delle motivazioni di tale compilazione; in questa introduzione mi limiterò a riassumere l’attività politica di Enrico VII in Italia. Enrico, nato in un anno compreso tra il 1270 e il 1280, era Conte di un territorio appartenente al Sacro Romano Impero, il Lussemburgo, che culturalmente era più vicino alla Francia che alla Germania. Egli effettivamente fu educato alla corte francese e, a partire dall’anno 1294, percepì una rendita fissa da Filippo IV il Bello in cambio di un appoggio alla politica del Capetingio. Nel frattempo si guadagnò la fama di buon amministratore dei territori a lui sottoposti e di principe giusto, senza macchie morali. Davidsohn2, descrivendo fisicamente Enrico, afferma che questi aveva circa quaranta anni di età quando decise di scendere in Italia per cingere la corona di Carlo Magno. Egli era di media statura, non portava la barba (lo stesso Tino di Camaino lo ha scolpito rasato) e, nonostante avesse una corporatura robusta, i lineamenti del volto erano dolci, seppur alterati da un lieve strabismo e da una manifesta miopia. I capelli erano biondo-rossicci. Non parlava molto, ma nelle circostanze necessarie sapeva essere un ottimo oratore; una dimostrazione ulteriore della sua vicinanza culturale alla Francia è il fatto che egli si servisse della lingua francese nelle conversazioni, essendo poco padrone del tedesco così come dell’italiano. L’ostilità di Enrico nei confronti di Filippo IV il Bello, del quale era vassallo, cominciò in occasione dell’elezione del nuovo Re di Germania. Il primo giorno di maggio del 1308 il Re di Germania Alberto I era stato assassinato dal nipote Giovanni (detto il parricida), per questioni ereditarie. La morte dell’Asburgo, che nei dieci anni del suo regno si era mostrato del tutto disinteressato alle vicende italiane, aprì un vuoto di potere che avrebbe originato

1 ASTo, Dipl. imp., mazzo 3.2, fasc. 23.1.

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anni di conflitti politici e militari nella Penisola. Come trentacinque anni prima Carlo I d’Angiò aveva tentato di agire per suo nipote Filippo III di Francia, così pure Filippo il Bello fece ricorso a tutto il suo prestigio, all’oro e alle arti diplomatiche per favorire l’elezione al trono tedesco di suo fratello, Carlo di Valois. Ambasciatori del Re di Francia fecero visita ai principi elettori ecclesiastici e laici, cercando indubbiamente di corromperli. L’obiettivo era di imporre in maniera ancora più forte la supremazia dei successori di Ugo Capeto sull’Europa. La Chiesa di Roma dallo Schiaffo di Anagni non si trovava più in condizioni di perseguire una linea di condotta autonoma dai Francesi e dunque Papa Clemente V (1305-1314) non poté rifiutarsi di appoggiare le aspirazioni di Re Filippo. In realtà al Papato premeva che fosse eletta una personalità che agisse nell’interesse della Santa Sede stessa e che liberasse il Vicario di Cristo dalla sua situazione di dipendenza politica. In effetti tra i papabili successori di Alberto I, oltre al Valois, vi era Enrico, la cui candidatura era sostenuta, tra i principi elettori, dal fratello Baldovino, Arcivescovo di Treviri. L’azione diplomatica di quest’ultimo ebbe fortuna poiché il Conte di Lussemburgo fu eletto Re di Germania il 27 novembre 1308 a Francoforte sul Meno. L’incoronazione avvenne ad Aquisgrana il 6 gennaio 1309 prima ancora che giungesse la notizia del gradimento pontificio, giunta poi il 29 luglio dello stesso anno. Le norme più elementari di una accorta politica imperiale spingevano Enrico a sottrarre i territori occidentali del Sacro Romano Impero all’influsso del sovrano di Francia, al quale nelle ultime due generazioni erano stati abbandonati per la debolezza dei suoi predecessori. In pratica il prestigio della carica ottenuta da Enrico era decaduto con la morte di Corradino di Svevia, avvenuta a Napoli il 29 ottobre 12683. Per affermarsi di fronte a Filippo il Bello e al cugino di questi Roberto

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È doveroso precisare che Corradino di Svevia (1252-1268), figlio di Corrado IV, non fu mai eletto Re dei Romani, ma fu Duca di Svevia, Re di Sicilia e Re di Gerusalemme. Egli, all’età di sei anni, in pratica, fu costretto da Manfredi a cedergli il trono meridionale (1258). Corradino crebbe sul suolo tedesco, ma, in seguito alla morte dello zio, avvenuta a Benevento (26 febbraio 1266), durante la celebre battaglia contro l’esercito di Carlo d’Angiò, fu chiamato a gran voce dai Ghibellini italiani a scendere nella Penisola. Dopo una serie di iniziali successi, che preoccuparono non poco lo schieramento guelfo-angioino, lo Staufen, che era riuscito a sottomettere pure Roma, si recò nel Meridione, per cacciare dal Regnum il vincitore di Benevento. Nella battaglia di Tagliacozzo (23 agosto 1268), tuttavia, Carlo d’Angiò riportò una nuova vittoria. Fuggito in direzione di Roma, Corradino fu tradito (a Torre Astura) da Giovanni Frangipane, esponente della nobile famiglia romana, e consegnato all’Angioino. Processato e condannato a morte, lo Staufen fu giustiziato nella suddetta data a Campo Moricino (l’attuale Piazza del Mercato di Napoli).

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d’Angiò (sovrano di Napoli), il nuovo Re dei Romani doveva scendere in Italia e cingere la corona di Carlo Magno, potendo affrontare così in nome di un’autorità universale l’egemonia franco-guelfa. Come già detto la Chiesa di Roma, almeno inizialmente, appoggiò i progetti enriciani, con il fine di sfruttare un possibile successo del neo-eletto al trono tedesco, che avrebbe posto fine alla soggezione del pontefice nei confronti della monarchia francese. Dunque non si può sostenere che Clemente V, in continuità con la politica che la Santa Sede aveva intrapreso nei due secoli precedenti, fosse a priori intenzionato a porsi in difesa dei Comuni guelfi contro l’azione restauratrice del Re dei Romani. Tentò per qualche tempo di fare da mediatore tra gli interessi angioini e guelfi da una parte e le rivendicazioni imperiali dall’altra; in seguito, poco prima che Enrico giungesse a Roma, decise di schierarsi dalla parte franco-guelfa, tradendo in questo modo il Lussemburghese, molto probabilmente a causa delle forti pressioni di Filippo il Bello. In questo contesto politico-istituzionale il Re dei Romani prese la decisione di scendere in Italia.

Le prime iniziative di governo di Enrico riguardarono il territorio al di là delle Alpi. Il sovrano si preoccupò di evitare uno scontro con i figli di Alberto I, che si erano visti privati della corona regia e che avrebbero potuto rappresentare un importante sostegno per i suoi disegni politici in Italia. Di conseguenza furono confermati a questa casata i suoi feudi imperiali (ottobre 1309) e, in questo modo, Leopoldo d’Asburgo fu convinto a prendere parte alla spedizione nella Penisola dell’anno successivo, fornendo importanti aiuti militari. Un’altra questione impellente riguardò la successione al trono boemo. Enrico, facendo sposare suo figlio Giovanni con la figlia di Venceslao II di Boemia, Elisabetta, ampliò notevolmente la consistenza patrimoniale del suo casato; un’abile attività diplomatica dovette essere svolta in questo caso, visto che anche gli Asburgo ambivano a quella corona4. Si può affermare che le fortune dei successori dell’Alto Arrigo fossero derivate in larga parte dall’acquisizione del Regno

4 Il matrimonio tra Giovanni di Lussemburgo ed Elisabetta di Boemia fu celebrato a Spira, il 30 agosto 1310. All’epoca, il figlio di Enrico aveva quattordici anni, mentre la principessa boema, sorella minore di Venceslao III (assassinato nel 1306), ultimo Re della discendenza dei Premyslidi, ne aveva diciotto. Le nozze erano state precedute dalla deposizione, effettuata da Enrico, di Enrico di Carinzia e Tirolo, marito della sorella di Elisabetta (Anna), dal titolo di Re di Boemia, in modo che i nuovi coniugi potessero essere insigniti della suddetta carica.

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Boemo e, soprattutto, dalle miniere d’argento dello Kutna Hora. Giuseppe Petralia, nel saggio di introduzione agli atti del convegno Enrico VII, Dante e

Pisa5, ha messo in evidenza che la storiografia ha recentemente messo in dubbio il fatto che Enrico si fosse messo in marcia contando soltanto su un carro d’oro e d’argento, messogli a disposizione dal fratello Baldovino. Dall’alleggerirsi del contenuto del suddetto carro, sarebbero iniziati i guai per il Re dei Romani6. Si deve tenere presente che le casse sovrane poterono godere dei pagamenti effettuati dalle città e dai signori della Lombardia e della generosità, certamente non spontanea ma interessata, di Pisa che, come nei secoli precedenti, decise di scommettere tutto sull’Impero. Inoltre va ricordato che il Lussemburghese partì per l’Italia contemporaneamente alla spedizione del figlio alla volta della Boemia appena ottenuta. Le zecche di quel Regno tornarono a battere moneta solo nel 1311, in quantità peraltro minori rispetto agli anni del boom minerario del tempo di Venceslao II. La storiografia deve ancora però stabilire se Enrico avesse avuto effettivamente accesso all’argento di Kutna Hora, i quali diritti, due mesi prima della discesa nella Penisola, erano entrati in un accordo stipulato a Francoforte con i principi boemi. Comunque sia, non vi sono dubbi che egli era riuscito a rafforzare la sua posizione in Germania. Alla Dieta di Spira (15 agosto 1309) annunciò la decisione di partire per Roma entro il 10 ottobre 1310. Clemente V, agli ambasciatori che lo avevano informato della avvenuta incoronazione ad Aquisgrana, si era dichiarato disposto a cingere il capo di Enrico con la corona imperiale nella Candelora (2 febbraio) del 1312 a Roma. L’anticipazione della spedizione italiana fu resa possibile dal buon esito di sondaggi effettuati da funzionari presso città al di qua delle Alpi e soprattutto dai colloqui condotti, per conto del Re dei Romani, da Amedeo V di Savoia presso il Papa, allora dimorante ad Avignone. Dagli incontri diplomatici, il Conte ottenne da Clemente V il consenso a una discesa anticipata, sebbene quest’ultimo non si fosse dichiarato disposto a mutare la data dell’incoronazione e a sborsare somme di denaro in favore della causa del Lussemburghese. Enrico, tramite il suo Legato, giurò di

5 G. Petralia, L’Italia di Enrico VII e di Dante: una ricognizione (e un’agenda) storiografica, in

Enrico VII, Dante e Pisa. A 700 anni dalla morte dell’imperatore e dalla «Monarchia» (1313-2013), a cura di G. Petralia e M. Santagata, Longo editore, Ravenna 2016, p. 33.

6 Il suddetto carro fu immortalato in un ritratto inserito nella Bilderchronik, raffigurante il passaggio attraverso le Alpi dello stesso.

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aiutare in ogni circostanza la Chiesa, di difendere i diritti di quest’ultima su tutta una serie di città e terre dell’Italia Centrale e pure di partecipare a una futura spedizione in Terrasanta; il sovrano ottenne comunque ciò che più gli premeva, ossia l’assenso del pontefice a una discesa anticipata.

La situazione politica italiana al tempo di Enrico VII è nota attraverso le testimonianze dei contemporanei e, su tutti, di Dante Alighieri. Dalle lotte tra Chiesa e Impero del secolo precedente, la Penisola aveva ereditato una forte instabilità istituzionale caratterizzata dagli scontri tra i Comuni di fazione avversa e, all’interno di questi, tra i sostenitori della Parte Guelfa e i sostenitori della Parte Ghibellina. In realtà lo scenario era reso ancor più complesso dalla divisione (Firenze ne è un esempio) all’interno dei guelfi tra Neri e Bianchi. Enrico si presentò nelle città italiane come restauratore della pace: egli era intenzionato a svolgere un ruolo super partes per facilitare il rientro degli esclusi, coloro che avevano perso la battaglia per il potere in seno al governo cittadino e che dunque erano stati vittime di ostracismo. Egli era profondamente consapevole dell’importanza della sua missione e del significato storico del suo viaggio, tanto che dette incarico al suo confessore, il domenicano Bernardino di Montepulciano, di scrivere la cronaca delle sue gesta7. La volontà del sovrano di ristabilire la concordia all’interno delle realtà comunali è dimostrata da un documento, ricordato da Giuliano Milani in Enrico VII, Dante e Pisa8, emesso il 23 gennaio 1311 ed intitolato Cassatio bannorum et repressaliarum dal suo editore nei

Monumenta Germaniae Historica9. Dopo una breve arenga che ricorda con toni solenni e biblici la necessità di adempiere alla giustizia da parte del sovrano quale condizione per il mantenimento della pace, segue una narrazione in cui Enrico afferma di aver trovato al suo arrivo in Italia la tendenza a privilegiare la competizione tra fazioni, rispetto al culto della verità e della giustizia. Ne conseguiva la pessima abitudine dei cittadini di denunciarsi l’un l’altro falsamente

7 L’opera del frate domenicano si trova raccolta in W. V. Donniges, Acta Henrici VII. 2. Bande, Berlin 1839.

8 G. Milani, Giustizia, politica e società nei comuni italiani al tempo di Enrico VII, in Petralia- Santagata, op. cit., p. 361.

9 Monumenta Germaniae Historica (MGH), Legum sectio IV, Constitutiones et acta publica

imperatorum et regum, IV, ed. J. Schwalm, 1 (1298-1311), Hannoverae et Lipsiae, Impensis

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e calunniosamente per diversi crimini; i reggitori, macchiati del peccato della parzialità, imbastivano processi ingiusti ed emanavano inique sentenze di bando, condanne al confino che portarono uccisioni, distruzioni di case e altre nefandezze. L’Alto Arrigo in seguito afferma di aver provato inizialmente a separare le sentenze giuste da quelle ingiuste, in modo da mantenere intatto quanto era stato fatto correttamente e cassare quanto era stato originato dall’odio e dalla guerra. Mentre stava procedendo per questa via, un po’ per l’enormità del compito e un po’ per l’insensatezza dei processi, sopravvennero confusione e difficoltà. Egli dunque decise di attingere alla fonte della sua clemenza e di cancellare ogni macchia dei delitti trascorsi a chi si fosse sottoposto alla sua obbedienza. Enrico emanò un editto che prevedeva la cancellazione di ogni sentenza o bando dati o promulgati dai Comuni fino a quel momento, nei confronti di chi si fosse sottoposto ai suoi ordini, per qualsiasi ragione tali provvedimenti giudiziari fossero stati emanati.

Per quanto concerne l’ambito politico-economico in cui erano state emanate tali sentenze, tornerò nella parte finale di questa introduzione, seguendo la linea interpretativa di Giuliano Milani. Intanto è doveroso porre in rilievo il fatto che il provvedimento enriciano fu oggetto di giudizi opposti tra i contemporanei. Da una parte vi era la prospettiva ghibellina sostenuta, tra gli altri, dal capo della Camera imperiale, Bernardo de Mercato, che interpretò l’editto come un atto legittimo e auspicabile, che avrebbe annullato condanne mosse dallo spirito di parte. Dante stesso, che avrebbe potuto beneficiare di questa azione legislativa, sostenne questa linea interpretativa. Vi era poi la prospettiva guelfa che ritenne illegittimo il provvedimento del sovrano, poiché destinato di fatto a sottrarre ai Comuni la più importante tra le regalie esercitate, ovvero l’esercizio della giustizia, al fine di far trionfare una fazione sull’altra. Dal punto di vista dei Guelfi si può facilmente desumere il motivo per cui essi, dopo un primo momento di apparente accondiscendenza, si opposero strenuamente ai piani di restaurazione imperiale dell’Alto Arrigo. Essi temevano infatti che il rientro in patria dei fuoriusciti Ghibellini e Bianchi, la reintroduzione di questi nell’assetto governativo cittadino, avrebbe portato all’egemonia degli ex banditi a loro danno. D’altra parte non si può negare che proprio i nemici dei Guelfi Neri corsero incontro al Re dei

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Romani, nel momento in cui quest’ultimo giunse nel Nord Italia. Essi videro in lui il difensore della loro causa, colui che avrebbe fatto trionfare la giustizia ponendo fine alle loro sofferenze.

Enrico aveva una altissima concezione della dignità e della potenza dell’Impero e, in questo modo, non tenne in considerazione l’evoluzione storica, la forza economica e l’energia spirituale delle città italiane. Dante, insieme agli altri fuoriusciti fiorentini, sperava che con il successo delle armi imperiali, Firenze diventasse una città libera del Sacro Romano Impero, ottenendo dall’Alto Arrigo l’investitura con la giurisdizione e il diritto di batter moneta e percepire tutte le altre regalie. In cambio la città si sarebbe obbligata a pagare un tributo e a fornire armati su richiesta del sovrano. In realtà quest’ultimo ambiva a molto di più. Egli avrebbe voluto sfruttare appieno le ricchezze prodotte dal territorio toscano e, di conseguenza, non era propenso a riconoscere la giurisdizione sul contado dei Comuni. Ciò è chiaramente testimoniato dalla fonte argomento della mia tesi. In questo senso Enrico tentò di proseguire una politica che era stata bruscamente interrotta con la fine degli Svevi e che gli Asburgo non ebbero mai l’audacia di riprendere. Per quanto concerne l’influenza della sua attività politico-istituzionale sugli sviluppi signorili immediatamente successivi nella storia italiana, ne parlerò più avanti.

Superate le Alpi al valico del Cenisio, Enrico giunse a Susa il 23 ottobre 1310, passando successivamente per Torino, Asti, Vercelli, Novara ed entrando a Milano il 23 dicembre, accolto ovunque con i massimi onori e circondato da grandi speranze. Egli impose con il proprio arbitrato la pacificazione tra Guido della Torre (Guelfo) e Matteo Visconti (Ghibellino), che si erano contesi negli anni precedenti la signoria di Milano. Il giorno dell’Epifania del 1311 cinse la corona di Re d’Italia (Corona Ferrea) nella Chiesa di Sant’Ambrogio. Il Davidsohn10 riporta un aneddoto che dimostra quanta scarsa considerazione veniva data a quel tempo al potere regale nella Penisola e che può istruire sulle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare l’Alto Arrigo nel perseguire i suoi progetti di Renovatio Imperii. La Corona Ferrea veniva anticamente conservata a

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Monza nel Duomo del Battista e aveva il valore di una santissima reliquia; infatti traeva il suo nome da un sottile cerchio interno di ferro forgiato con un chiodo della Croce di Cristo. Accadde tuttavia che questa non fu trovata nel consueto luogo di conservazione e nessuno volle dire di sapere dove fosse questo prezioso oggetto; solo alcuni anni dopo fu rintracciata presso un usuraio ebreo, al quale l’aveva data in pegno Guido della Torre in un momento di scarsa liquidità. Fu necessario dunque ricorrere ai servigi di un orafo senese dimorante a Milano (maestro Lando), che fabbricò una nuova corona per Enrico e un’altra per la regina Margherita di Brabante. Un altro fatto rappresentava un’anticipazione delle difficoltà che avrebbe incontrato il sovrano successivamente. Alla consacrazione regia presenziarono delegati di tutte le città del Centro-Nord Italia tranne Firenze e i Comuni suoi alleati: Firenze dunque, nonostante la propaganda pro-imperiale di Dante, si mostrò sin da subito ostile al Lussemburghese.

Penso che sia necessario adesso fornire una breve descrizione sugli schieramenti opposti presenti in Toscana a quel tempo. I Guelfi fiorentini contavano sugli aiuti di Lucca, Siena, Bologna e Perugia. Vi erano poi i Comuni minori (Pistoia, Prato, San Miniato, Volterra, San Gimignano, Colle Val d’Elsa) che dovettero piegarsi e unirsi alla resistenza contro Enrico, desiderata dai vicini più potenti. Città di Castello fu un entusiastico membro della Lega Guelfa in quanto nemica di Arezzo; anche la poco importante Città della Pieve, sotto l’influsso di Perugia, si associò alla Lega. Infine vi accedettero, pur senza fare atto formale di adesione, i vescovi di Luni-Sarzana, Gherardino Malaspina, e di Volterra, Ranieri Belforti; il primo perché in vari modi danneggiato da Pisa e il secondo per sentimenti guelfi. Completava lo schieramento Orvieto che mantenne anche in questa occasione l’antica fratellanza d’armi con Firenze. Rispetto a questa fazione, pochi erano i Comuni dell’Italia Centrale che obbedivano all’Alto Arrigo. Dei maggiori vi era Pisa, che proseguì la sua tradizionale politica ghibellina, e Arezzo, a quel tempo in forte contrasto con i vicini fiorentini. Entrarono inoltre a far parte del gruppo fedele all’Impero, dopo alcune esitazioni, Cortona, che era stata un tempo distrutta dai Guelfi di Firenze, Corneto (l’odierna Tarquinia), la piccola Montalcino e Borgo San Sepolcro. Il fronte filo-imperiale era dunque costituito da meno componenti; deve essere comunque tenuto presente che tutti i Comuni risoluti a

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difendere la propria indipendenza contro Enrico, avevano numerosi fuoriusciti avvezzi alle armi, che anelavano al giorno della sua comparsa per far ritorno in città.

Avviata la sua opera di pacificazione mediante l’imposizione di arbitrati ai turbolenti Comuni dell’Italia settentrionale (Cremona, Reggio, Modena, Lodi, Crema), cassate (tramite il documento già citato) tutte le sentenze di condanna per motivi politici, assegnati ad ogni città vicari regi, in sostituzione dei preesistenti Podestà e Capitani, nominato vicario generale il cognato Amedeo V di Savoia, Enrico potè illudersi di aver dato un primo assetto stabile alla vita politica italiana. Già nell’inverno 1311 tuttavia emersero problemi per il sovrano. La prima città a ribellarsi all’autorità dell’Imperatore designato fu Milano, dove il vicario regio, il senese Niccolò de’ Buonsignori, mostrò la sua volontà di instaurare un governo dispotico, avvalendosi di uomini senza scrupoli. Guido della Torre tentò di sfruttare il malumore del popolo per reimpadronirsi del potere e fu ingannato a questo scopo da Matteo Visconti stesso. Questi, fingendo di tendere la mano verso il suo antico rivale per combattere il nemico straniero, nell’ora della lotta corse dal Re ad assicurargli la sua fedeltà. Tale mossa fu decisiva per le sorti future di Milano visto che il Visconti fu nominato vicario della città lombarda il 13 luglio 1311 e riuscì in seguito, sulla base di questa carica ricoperta per conto del Sacro Romano Impero, a instaurare una signoria personale. Guido della Torre invece si rifugiò a Cremona che, dopo un timido tentativo di rivolta, fu rasa al suolo il 26 aprile 1311.

Molto più impegnativa fu invece la campagna condotta da Enrico contro Brescia, iniziata a metà maggio e terminata con la resa degli insorti il 18 settembre. Costò cara all’Alto Arrigo questa operazione militare, dato che dinanzi alle mura della città scoppiò un’epidemia di pestilenza e parte delle sue truppe, scoraggiate da tale evento, lasciarono il campo di battaglia. L’assedio di Brescia ebbe ripercussioni negative anche dal punto di vista strategico. Enrico seguì i consigli derivanti dallo stato emotivo del momento, che era caratterizzato dall’ira per le opposizioni incontrate, piuttosto che la ragione, che invece avrebbe consigliato di dirigersi in Toscana per reprimere l’opposizione guelfa e di Firenze su tutti. Dante, ancor

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prima dello scoppio delle rivolte lombarde, quando il sovrano si trovava a Milano, aveva consigliato quest’ultimo a muovere contro i suoi concittadini

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D’altra parte il Comune di Firenze stava alla guida dell’opposizione guelfa contro i disegni del Re di Germania. Le agitazioni antimperiali del settentrione italiano erano state felicemente appoggiate dal governo fiorentino. A Firenze si sosteneva che anche il solo fatto che l’Alto Arrigo fosse stato costretto a usare la violenza per spezzare le ribellioni, rappresentasse di per sé una vittoria, dato che agli occhi degli italiani, l’immagine di Enrico come Imperatore restauratore della pace si era ormai sbiadita. Quest’ultimo sembrava in quel momento piuttosto un tiranno comandante di milizie assetate di sangue. Pure Clemente V cominciò a quel tempo ad avere un atteggiamento più freddo nei confronti del Lussemburghese. Il fatto che Firenze non intendesse assolutamente venire a patti con il sovrano è dimostrato dal fatto che negli atti ufficiali della cancelleria del Comune, questi veniva chiamato Re di Germania e non Re dei Romani, titolo che invece spettava a Enrico essendo imperatore designato11. Si trattava di una manifestazione di disobbedienza nei confronti del legittimo sovrano temporale, sebbene non evidente. Disobbedienza che si manifestò invece apertamente nel momento in cui l’Alto Arrigo, recandosi a Genova (ottobre 1311), inviò delegati a Firenze per ricevere il giuramento di fedeltà e, in questo modo, porre fine all’ostilità della città verso l’Impero. La spedizione degli ambasciatori non ebbe successo, tanto che essi dovettero temere per la loro incolumità poiché il Comune dette ordine di aggredire tali funzionari nei beni e nelle persone12. Nel frattempo fu assestato un altro duro colpo all’autorità di Enrico. Infatti Ghiberto di Correggio, importante signore del territorio emiliano che si era legato al Re dei Romani ricoprendo la carica di vicario di Reggio, disertò l’esercito imperiale mentre questo si stava dirigendo da Pavia a Genova. La mossa fu dovuta probabilmente al fatto che erano state scoperte le trattative segrete che questi stava conducendo da mesi proprio con Firenze, fatto che sarebbe stato punito con l’incarcerazione per delitto di lesa maestà. Conseguenza di tale evento fu la formazione di una Lega Guelfa tosco-lombarda, alla quale presero parte Parma, Reggio, Bologna, Guido della

11 Ibidem.

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Torre con gli sbanditi milanesi e i Guelfi di Bergamo, Cremona e Modena. Il suo obiettivo fu di impedire l’avanzata del sovrano verso Roma e di distruggere ciò che quest’ultimo aveva costruito nell’Alta Italia in un anno, con molta fatica e lotte snervanti. In effetti tra la fine del 1311 e l’inizio del 1312 si ribellarono Parma, Asti, Vercelli, Padova, Pavia. In questo contesto di rivolta Enrico decise di nominare come vicari, nei Comuni rimasti sotto il controllo imperiale, esclusivamente personaggi noti per la loro fede ghibellina: in questo modo tuttavia il Re dei Romani si dimostrò influenzato dalla logica del gioco politico italiano e, nonostante le dichiarazioni di facciata, non si poteva più considerare

Rex iustus et pacificus13.

Enrico giunse a Genova con il proprio esercito decimato dal conflitto contro Brescia e dalla pestilenza, oltre che con le casse vuote. Dopo aver dichiarato Firenze città ribelle dell’Impero (24 dicembre 1311) per aver compartecipato alle insurrezioni avvenute nell’Alta Italia, liberando al contempo chi si trovava in debito verso i creditori fiorentini dall’obbligo di restituire la somma dovuta, il Re dei Romani proseguì le trattative, che si prolungavano da più di un anno, con il Re di Napoli Roberto d’Angiò. Il ruolo di mediatore veniva svolto dal pontefice e il progetto era di unire in matrimonio la figlia di Enrico, Beatrice, con il figlio di Roberto, Carlo Duca di Calabria. L’Alto Arrigo sperava che, attraverso il vincolo matrimoniale stretto con la casa angioina, si riducessero le tensioni presenti in Italia tra i Guelfi, che guardavano verso il sovrano di Napoli come il loro naturale protettore, e i filo-imperiali Ghibellini. Durante il suo soggiorno a Genova, tuttavia, il Lussemburghese venne a sapere che l’Angioino non era disposto ad assecondare un rafforzamento della potenza imperiale nella Penisola e che quest’ultimo si era posto a capo della Parte Guelfa. I negoziati tra i due monarchi continuarono comunque l’anno seguente, ma le parti non giunsero mai a un accordo finale per le elevate richieste di Roberto: egli infatti pretendeva che suo fratello Carlo fosse nominato a vita vicario imperiale della Toscana e che il futuro Imperatore designasse per dieci anni vicari in Lombardia soltanto persone gradite alla corte di Napoli. In cambio l’Angiò prometteva di non frapporre ostacoli al viaggio per l’incoronazione imperiale, ma solo se Enrico avesse giurato di lasciare

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Roma non più tardi di quattro giorni dopo la cerimonia14. L’autorità dell’Impero doveva essere caduta davvero molto in basso se Re Roberto poté osare porre tali patti solo per permettere il rito dell’incoronazione. In queste trattative emerge pure la Realpolitik dell’Angiò. Se queste fossero andate in porto infatti, attraverso il vicariato a vita di Carlo, la Toscana sarebbe stata consegnata in pratica alla casata franco-napoletana. Si evince dunque quanto poco egli avesse in realtà a cuore la libertà dei Comuni guelfi e quanto fosse sempre pronto a cogliere le occasioni per ampliare la potenza della propria dinastia. D’altro canto poco tempo dopo fu Firenze stessa a offrirgli, insieme ad alcuni suoi alleati, i poteri signorili sulla città. Il Re dei Romani reagì all’atteggiamento poco collaborativo di Roberto, che nel frattempo si era preoccupato di inviare a Roma suo fratello Giovanni (Conte di Gravina) con 400 cavalieri, ordinandogli di presenziare all’incoronazione imperiale e di prestare giuramento di fedeltà per i domini posseduti in Piemonte e in Provenza. Per mettere pressione sul rivale, Enrico avviò negoziati con il Re di Sicilia, l’Aragonese Federico III di Trinacria, che prometteva denaro e truppe per una possibile futura spedizione militare contro Napoli. Dopo aver trascorso l’inverno a Genova, l’Alto Arrigo fece scalo a Pisa il 6 marzo 1312 e fu ricevuto con grande entusiasmo dai nemici tradizionali di Firenze. Nella città sull’Arno egli si preoccupò di ultimare i preparativi per la discesa verso San Pietro, ma allora si rese manifesto il tradimento di Clemente V. Accadde infatti che una lettera, scritta dal Papa stesso su richiesta del Re dei Romani e indirizzata al Conte di Gravina, nella quale si chiedeva di non porre intralcio all’incoronazione, fu bloccata presumibilmente per intervento di Filippo il Bello. Questi era preoccupato di non indebolire la posizione del cugino e utilizzò, presso il pontefice, il pretesto di difendere da un possibile pericolo la Chiesa di Roma15. Non è possibile sapere quanta libertà di iniziativa avesse avuto Clemente V in questa decisione. Si può affermare però che egli avesse iniziato a mutare atteggiamento verso Enrico già dall’anno precedente e inoltre, le trattative di quest’ultimo con l’eretico Federico III, non poterono che avvicinare sempre di più il Vicario di Cristo allo schieramento franco-napoletano.

14 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 626-627. 15 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 644-646.

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Enrico lasciò Pisa il 23 aprile ed entrò a Roma il 7 maggio; egli avrebbe dovuto sconfiggere i suoi avversari per cingere la corona di Carlo Magno. Nella Città Eterna si fronteggiavano lo schieramento filo-imperiale (composto dalle milizie tedesche, dal senatore Luigi di Savoia e dalla famiglia Colonna) e lo schieramento ostile all’Alto Arrigo (formato dal Conte di Gravina, truppe fiorentine e gli Orsini). I Colonna avevano il controllo della Basilica di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore e del Colosseo; gli Orsini, invece, custodivano San Pietro, la Torre delle Milizie e Castel Sant’Angelo. Dopo alcuni scontri armati favorevoli alla fazione filo-imperiale, questa subì una pesante sconfitta il 26 maggio per le vie cittadine. Tale episodio convinse i più dell’impossibilità di risolvere la questione militarmente. La situazione di stallo fu sbloccata da sommovimenti della popolazione romana che, desiderosa di un ripristino della pace, si diresse verso il quartier generale di Enrico chiedendo con veemenza la conclusione delle ostilità. Questa agitazione popolare fu probabilmente promossa dal vicesenatore Niccolò de’ Buonsignori e richiedeva che l’incoronazione, non potendosi svolgere a San Pietro, avesse luogo in un’altra sede. In questo modo venivano fatte pressioni sui tre cardinali16 che seguivano l’Alto Arrigo dall’inizio della sua discesa in Italia e che avrebbero dovuto amministrare la cerimonia al posto del Vicario di Cristo17. Ambasciatori del Re dei Romani avevano già precedentemente chiesto al Legato Pontificio in loco la possibilità che l’incoronazione avvenisse in un luogo diverso da San Pietro, ma i tre cardinali, seppur di fede ghibellina, manifestarono perplessità dinanzi a queste proposte. Costoro, dopo che il clero romano si era pronunciato favorevolmente a una tale cerimonia, chiesero istruzioni al Papa, che ricordiamo essere allora ad Avignone. Infine essi si lasciarono indurre, senza attendere il responso di Clemente V, a non impedire, pur non approvando esplicitamente tale atto, che Enrico cingesse la corona imperiale in San Giovanni in Laterano (29 giugno 1312). Niccolò da Prato, Cardinale Vescovo di Ostia, pose il diadema sul capo dell’Alto Arrigo. La questione formale della sede dove il sovrano veniva incoronato, secondo i concetti

16 Due di loro erano Niccolò da Prato, Cardinale Vescovo di Ostia e di Velletri, e Luca Fieschi, Cardinale diacono di S. Maria in Via Lata.

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medievali, aveva una grandissima importanza e se ne seppe servire successivamente Roberto d’Angiò18

.

Era da quasi cento anni che non veniva consacrato un Imperatore, l’ultimo era stato Federico II19. Gli eventi romani dimostrarono ulteriormente l’inimicizia del sovrano angioino e, rimanendo quest’ultimo fermo sulle sue inique condizioni di alleanza, Enrico (divenuto ora Enrico VII) decise di concludere i negoziati con il Re di Sicilia. Cinque giorni dopo la cerimonia tenuta in Laterano, fu infatti solennemente stipulato il patto secondo il quale Beatrice, figlia dell’Imperatore, andava fidanzata al principe ereditario di Sicilia don Pedro e Federico III veniva nominato ammiraglio generale del Sacro Romano Impero. Fu concordato di unire le forze contro il Regno di Napoli, ma prima di tutto l’Alto Arrigo pensò di regolare i conti con Firenze20.

Il 20 agosto Enrico VII lasciò Roma con l’intento di sottomettere il ribelle Comune fiorentino. Egli fece sosta ad Arezzo, a lui fedele, dove si raccolsero le forze ghibelline che intendevano dare battaglia alla città guelfa. L’Imperatore giunse alle porte di Firenze il 19 settembre e dette inizio a un assedio che durò sei settimane ma fu povero di risultati. Siena, Bologna, Lucca inviarono al Comune alleato ampi aiuti militari e l’Alto Arrigo, come sottolinea Davidsohn21

, dovette affrontare un avversario che, consapevole di non poter combattere in campo aperto contro i cavalieri tedeschi e Ghibellini, poiché sarebbe stato sicuramente sconfitto, decise di rinchiudersi dentro mura ben difese, applicando così una tattica attendista che logorò le forze imperiali. Si può affermare che questo atteggiamento prudente simboleggiasse il ceto dirigente fiorentino di quel tempo, che era formata da uomini provenienti dal populus, uscito vittorioso dalle guerre del secolo precedente. La definitiva ascesa al potere dei mercanti fu favorita dagli Ordinamenti di Giustizia, emanati tra il 1293 e il 1295 da Giano della Bella, che estromisero i magnati dalle cariche governative. I nuovi protagonisti della politica di Firenze, dunque, non avendo alle spalle un passato glorioso non si sentirono in

18 Davidsohn, op. cit., IV, p. 656. 19

Lo Stupor mundi, come ricorderò in seguito, fu incoronato a San Pietro, da Papa Onorio III, il 22 novembre 1220.

20 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 658-659. 21 Davidsohn, op. cit., IV, p. 679.

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grado di compiere azioni eroiche e perciò decisero di tentare di sconfiggere il nemico attraverso l’astuzia, della quale si sapevano servire, dato il loro ceto di appartenenza. Per questo motivo essi furono oggetto di biasimo anche all’interno della stessa popolazione fiorentina, ma, a lungo andare, la loro strategia si sarebbe rivelata vittoriosa.

Enrico VII si trovò costretto ben presto a compiere scorribande nel contado per approvvigionare il proprio esercito e, come l’anno precedente a Brescia, si diffuse un’epidemia che abbatté il morale degli uomini al servizio dell’Imperatore. Durante le incursioni in campagna, comunque, molte comunità si sottomisero alle forze imperiali. Bonaini22 ha documentato nella sua raccolta di documenti gli atti di sottomissione avvenuti a quel tempo (tra gli altri Santa Maria Novella, Monte Campolese, Lamole, Lucardo, Cepparello). Furono tuttavia successi di scarso valore strategico e neanche duraturi, visto che entro aprile 1313 tutto il distretto fiorentino era tornato sotto il controllo della Dominante23. Una volta tolto l’assedio Enrico VII si stanziò a San Casciano in Val di Pesa, nelle case di campagna dei ricchi banchieri fiorentini Gianfigliazzi24. Da questa località egli, nonostante le continue difficoltà caratterizzate dal rifornimento di cibo e dal ritorno al di là del Reno di numerosi cavalieri nordici, continuò a capitanare la guerriglia contro Firenze. A metà gennaio 1313 si spostò a Poggibonsi e, in questa contrada, vi fu una manifestazione dell’alta considerazione che egli aveva per la carica che ricopriva. Poggibonsi, nel secolo precedente, era stato un centro sottoposto alla protezione imperiale contro le mire espansionistiche di Firenze. Con la fine degli Svevi il castello che si ergeva sul poggio fu distrutto (1270) e la popolazione fu costretta a scendere in pianura, dove sorgeva un tempo il borgo di Marturi, perdendo, in questo modo, ogni autonomia. In cima al borgo distrutto Enrico VII piantò il suo accampamento e volle innalzare in mezzo alla Toscana un monumento che testimoniasse la potenza dell’Impero e che dominasse i luoghi tutt’intorno. Fece ricostruire quindi il castello e la prima pietra fu posta solennemente a metà febbraio, decidendo che la località dovesse chiamarsi da

22

F. Bonaini, Acta Henrici VII imperatoris romanorum et monumenta quaedam alia suorum

temporum historiam illustrantia, Aalen 1970 (ed. orig. 1877), pp. 247-268.

23 Davidsohn, op. cit., IV, p. 690. 24 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 690-691.

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allora in poi Monte Imperiale25. In seguito, la drammatica fine del Lussemburghese spense del tutto le speranze di indipendenza degli abitanti di Poggibonsi e ciò che era stato costruito per volere del sovrano andò distrutto. Prima di partire per Pisa, dove giunse il 10 marzo, l’Alto Arrigo condannò gli alleati di Firenze e, per danneggiare la città posta al bando, fu concesso a Opizino Spinola di Genova e al Marchese di Monferrato il privilegio di mettere in circolazione fiorini d’oro con l’identico stampo di quelli fiorentini26

. A Pisa, il 26 aprile, Enrico VII emise la sentenza di condanna alla pena capitale di Roberto d’Angiò. Senza dubbio l’Imperatore fu mosso a prendere questo provvedimento dagli ostacoli frapposti dal Re di Napoli alla sua incoronazione a Roma e dagli appoggi militari che l’Angioino aveva inviato in Toscana. Quest’ultimo fu chiamato figlio della corruzione, traditore, ribelle alla maestà imperiale: si trattava di appellativi che dimostravano che l’Alto Arrigo era fedele a quella ideologia che individuava nell’Imperatore il capo supremo della Cristianità, a cui tutti dovevano obbedienza. Re Roberto rispose sostenendo che il Lussemburghese fosse indegno del titolo che portava e che, d’altro canto, quest’ultimo aveva ricevuto la corona non secondo i canoni consueti27.

Come già detto l’ira di Enrico VII verso il sovrano di Napoli era in gran parte dovuta all’appoggio che questi dava alla resistenza dei Guelfi toscani e, in effetti, di lì a poco l’Angiò si schierò, senza più possibilità di tornare indietro, a difesa dei suoi naturali alleati. Il primo giorno di maggio del 1313 infatti, nei consigli fiorentini furono nominati delegati muniti di pieni poteri per conferire a Roberto, a nome del Comune, la balìa di nominare il Podestà per i successivi sei mesi28. Con questo atto veniva sacrificata l’indipendenza della città che era stata gelosamente difesa contro l’Impero e veniva data la possibilità all’Angioino di esercitare poteri di Signoria, dapprimaper cinque anni, anche se poi, in realtà, egli governò Firenze per otto anni e mezzo tramite un proprio rappresentante29. Il

25 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 705-707. 26 Davidsohn, op. cit., IV, p. 713. 27

Davidsohn, op. cit., IV, p. 734. 28 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 730-731.

29 Il primo reggente che l’Angioino inviò a Firenze fu il vecchio nobile provenzale Giacomo di Cantelme, uomo di grande esperienza e da molto tempo noto ai Fiorentini. Già sotto Carlo I, questi

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conferimento dei poteri di governo al sovrano straniero avvenne in un momento in cui il Popolo, stanco dei gravami imposti dalla guerra e consapevole del fatto che di lì a poco l’Alto Arrigo sarebbe tornato alla carica, richiedeva con veemenza una battaglia in campo aperto contro le forze enriciane che ponesse fine alle sofferenze. Tali agitazioni causarono la necessità di un potere dispotico che calmasse i ceti inferiori. Per quanto riguarda gli altri Comuni guelfi della Toscana, logicamente si presumeva che avrebbero seguito l’esempio fiorentino; di fatto poi soltanto Pistoia, Lucca e Prato nominarono per un numero determinato di anni come loro Signore il Re di Napoli.

Enrico VII, durante il suo soggiorno pisano, nonostante le difficoltà incontrate e gli insuccessi, nutriva grandi speranze per gli eventi futuri, consapevole del fatto che si stava per giocare la partita decisiva. D’altra parte, dopo tutte le energie spese fino a quel momento, non avrebbe potuto far ritorno in Germania a mani vuote. In quel caso sarebbe stato oggetto di scherno. Egli riuscì a raggruppare un forte esercito composto da aristocratici tedeschi, Ghibellini e Guelfi Bianchi sbanditi, cavalieri e fanti forniti dai Comuni governati dai suoi vicari, fiorentini residenti nelle città fedeli all’Impero che furono costretti a combattere per lui. In più l’Imperatore poteva contare sulle truppe e sul denaro di Federico III, suo alleato. L’Alto Arrigo stavolta aveva l’intenzione di indirizzare un attacco militare, una volta occupata Roma, contro il Regno di Napoli.

Una vittoria dell’esercito imperiale non era ritenuta fuori da ogni possibilità, tutt’altro. Davidsohn30

riporta che nei circoli dei Guelfi fiorentini, che da sempre riponevano scarsa fiducia nelle capacità militari di Roberto d’Angiò, veniva sostenuto che Enrico VII sarebbe divenuto l’effettivo padrone d’Italia e che l’Angioino o non avrebbe atteso l’avversario fuggendo in Provenza, o per la sua avarizia e le difficoltà di preparazione, avrebbe perduto il suo Regno senza potersi difendere. Intanto però l’Alto Arrigo dovette subire un altro duro colpo da Clemente V. Il 12 giugno 1313 il Papa emanò una bolla in cui minacciò la

aveva occupato cariche importanti nell’amministrazione napoletana e alti gradi nell’esercito. Si diceva che nelle sue vene scorresse, da parte di madre, sangue reale; a corte Giacomo rivestiva la carica di maitre pannetier.

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scomunica e la perdita di ogni privilegio a chiunque avesse osato assalire il Regno di Napoli, feudo della Chiesa, anche se fosse investito della dignità imperiale. In questo provvedimento deve essere riconosciuta la grande influenza esercitata da Filippo il Bello, i Guelfi toscani e Re Roberto. L’Imperatore, comunque, non riusciva a credere che il Vicario di Cristo lo avesse tradito e la sua religiosità e devozione verso il Capo della Chiesa non caddero completamente nemmeno dopo questa dolorosa esperienza. L’incredulità di Enrico VII era determinata dal fatto che egli confidava nel suo buon diritto, dalla consapevolezza che era stato lui a essere provocato dai molteplici atti ostili compiuti dal sovrano angioino ai suoi danni. Egli, tra l’altro, rassicurò più volte il pontefice sul fatto che non intendeva attentare i diritti della Chiesa sul Regno di Napoli; voleva soltanto punire l’Angioino, se possibile facendolo decapitare, ponendo successivamente il paese conquistato a disposizione di Clemente V, chiedendo a questi di mettere sul trono un suo congiunto in sostituzione diRoberto31.

Il De Monarchia32 di Dante deve essere messo in relazione con la bolla emessa dal Papa. In questo trattato, in cui venne teorizzata la necessità dell’Impero, infatti, fu negato il diritto del Vicario di Cristo di confermare e deporre gli imperatori. L’Alighieri dimostrò che il popolo romano aveva creato la dignità imperiale e che dal popolo romano essa traeva la sua origine; nell’ultimo dei tre libri il Sommo Poeta sostenne che l’autorità imperiale derivasse direttamente da Dio e non mediatamente dal suo rappresentante in terra. Il De Monarchia è un trattato nato in risposta al provvedimento del pontefice attraverso cui era stato minacciato di scomunica Enrico VII, il quale, se avesse attaccato il Meridione, sarebbe stato deposto dal Capo della Chiesa stesso. In più l’Angiò poneva in discussione la validità dell’incoronazione avvenuta nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Affermando che il titolo di Imperatore fosse stato originato dal popolo romano e che la sua autorità derivasse direttamente da Dio, venivano

31 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 735-736.

32 Il De Monarchia è un saggio politico in latino composto, tra il 1312-1313, da Dante Alighieri e strutturato in tre trattati.

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esplicitati i presupposti teorici che avrebbero dovuto mettere al riparo l’Alto Arrigo da coloro che non avrebbero voluto riconoscere la sua carica33.

Il Lussemburghese partì da Pisa l’8 agosto 1313 per combattere a un sol tempo contro la Chiesa, i Guelfi e gli angioini. Egli innanzitutto marciò contro Siena. Niccolò de’ Buonsignori aveva riallacciato rapporti con i suoi concittadini, si era fatto seguaci sia fra i nobili sia fra il popolo e aveva assicurato il sovrano che la Parte Ghibellina si sarebbe ribellata e che quindi la città si sarebbe arresa. Nonostante i violenti dolori articolari e l’insopportabile dolore di testa, contro il consiglio dei medici, Enrico VII volle montare in sella sperando di potere con i suoi e con l’appoggio dei congiurati penetrare in Siena. Tuttavia la grave minaccia, forse anche la certezza di un prossimo aiuto di Firenze, infiammò il coraggio della Parte Guelfa della cittadinanza. Pertanto coloro che si erano accordati con il seguace dell’Imperatore non osarono muoversi e l’Alto Arrigo, che si era troppo fidato della promessa del Buonsignori, vide di nuovo fallire le sue aspettative34. Egli decise allora di deviare momentaneamente dalla strada che conduceva a Roma, per cercare di trovare sollievo alle sue sofferenze nei bagni di Macereto, allora molto celebrati. Enrico VII infatti aveva contratto una infezione malarica durante la campagna militare contro Firenze e il suo corpo, provato dai calori estivi e stanco per gli strapazzi sofferti, ormai non poteva più resistere. Nessuna fonte avrebbe potuto, in quei pochi giorni, curare il male che lo affliggeva, per il quale non c’era più alcun rimedio. Sebbene non fosse intervenuto alcun miglioramento, egli, con spirito indomito e con profonda consapevolezza dei doveri associati alla carica ricoperta, dette ordine di far ritorno sulla strada per la Città Eterna proseguendo per Radicofani, Acquapendente e Viterbo. Così il 21 agosto giunse a Buonconvento, dove ebbe fine l’avventura di questo cavalleresco Imperatore. La sua malattia peggiorò in modo gravissimo e il 24 agosto 1313, tra la costernazione delle milizie tedesche e dei Ghibellini italiani, l’Alto Arrigo morì e con lui si spensero pure le speranze di restaurazione imperiale nella Penisola35.

33 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 742-743. 34 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 746-747. 35 Davidsohn, op. cit., IV, pp. 747-748.

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Termino questa introduzione esponendo due argomenti, al centro della ricerca storiografica odierna su Enrico VII. Il primo riguarda i rapporti tra quest’ultimo e i Comuni italiani. Per secoli l’Alto Arrigo è stato accusato di ingenuità, di essere stato incapace di interpretare il contesto comunale. Gli studi odierni tendono a dimostrare, al contrario, che gli strumenti politici e giuridici che egli utilizzò nei suoi rapporti con le città, furono assai innovativi nel campo della legittimazione di poteri di intervento sui meccanismi istituzionali del Comune stesso. Alma Poloni, in Enrico VII, Dante e Pisa36, afferma che le libere realtà cittadine della Penisola avevano cominciato, dalla seconda metà del Duecento, a compiere esperimenti governativi tesi a sacrificare l’autonomia delle stesse. Già Carlo I d’Angio, tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, aveva tentato di costruire una struttura istituzionale che coordinasse le città sottoposte al suo controllo. Emerse in questo frangente il problema di legittimare i poteri esercitati dal sovrano straniero all’interno del tradizionale assetto politico comunale. La legittimazione derivò da un formale riconoscimento e da un’esplicita delega di poteri da parte degli organi di governo. Gran parte dell’Italia settentrionale e della Toscana si assoggettò dunque all’Angioino a cui, quasi dovunque, fu conferita la giurisdizione con mero e misto imperio sulla città e sul suo territorio. La Signoria esercitata da Carlo I, in tutti i casi, fu determinata da intense negoziazioni tra le parti ed ebbe una natura pattizia, in quanto caratterizzata da un elenco di impegni reciproci, bilateralmente vincolanti (pur all’interno, ovviamente, di una relazione di potere asimettrica)37. Dalla forma pattizia del conferimento dei poteri signorili si desume che il Re di Napoli, come d’altra parte suo nipote Roberto nei confronti di Firenze nel 1313, era preoccupato esclusivamente di assicurarsi la fedeltà dei Comuni, garantirsi il controllo del territorio e procurarsi risorse economiche (un aspetto, comunque, centrale per tutti i monarchi che venivano a contatto con le ricche città italiane). Egli fu promotore dunque di una coordinazione signorile sovracittadina, non invasiva delle specifiche libertà comunali.

36 A. Poloni, «Ad sue voluntatis arbitrium». Enrico VII e i comuni italiani, in Petralia-Santagata, op. cit., pp. 111-129.

37 Le dedizioni a Carlo I d’Angiò rappresentarono le prime sperimentazioni di una tipologia documentaria, ossia i capitoli di dedizione, che in seguito sarà alla base dei processi di costruzione degli stati regionali.

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Enrico VII ebbe invece propositi diversi: egli utilizzò nei rapporti con le città lo strumento giuridico rappresentato dall’arbitrium liberum. Tramite il conferimento da parte delle assemblee cittadine del suddetto arbitrium liberum vennero trasmessi all’Alto Arrigo ampi poteri di intervento sulle istituzioni e le leggi del Comune. Egli, in pratica, consigliato da esponenti del suo seguito provenienti dalle città italiane, fece uso di un elemento giuridico che si era diffuso tra il XIII e il XIV secolo come forma di legittimazione dei nascenti poteri signorili (il primo esempio documentato è il caso di Obizzo II d’Este a Ferrara nel 1264). Dove poté esercitare l’arbitrium liberum, Enrico VII destituì e rinominò ufficiali e consiglieri, ridisegnò il sistema istituzionale, abrogò ordinamenti e statuti, prese decisioni che ebbero un pesante impatto sulla realtà locale. L’Alto Arrigo pretese poteri di governo senza limiti per la sua volontà di sedare i conflitti endemici all’interno del mondo comunale. Tale desiderio richiedeva la possibilità di intervenire con efficacia nei meccanismi di funzionamento dei Comuni stessi. Le lotte tra le fazioni investivano pesantemente gli equilibri istituzionali e la distribuzione degli uffici e dei seggi consiliari. Egli aveva preso molto sul serio il suo ruolo di pacificatore e, per questo motivo, intervenne in molti casi nella vita politica delle città in maniera molto più invasiva rispetto agli Angiò.

C’è da aggiungere che il Lussemburghese non si limitò a sfruttare un dispositivo giuridico già in uso, ma le utilizzazioni successive furono molto influenzate dalle giustificazioni che Enrico stesso e il suo entourage avevano dato del ricorso all’arbitrium liberum. L’esercizio del potere signorile, nel corso del Trecento, venne spesso ideologicamente legittimato dalla necessità di difendere il buono e pacifico stato cittadino (un esempio è rappresentato dai Visconti a Milano), ossia l’obiettivo che si era prefissato l’Alto Arrigo nella sua discesa in Italia.

Infine penso che sia doveroso ritornare brevemente al saggio di GiulianoMilani38. Nell’editto attraverso cui il sovrano aveva cassato le condanne emanate nei confronti di avversari politici, venne adoperata come sua motivazione non soltanto l’alta mole di tale materiale giudiziario, ma pure l’incapacità di distinguere le sentenze giuste (“criminali”) dalle sentenze sbagliate (“politiche”).

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Questa difficoltà era dovuta alla stretta connessione tra politica e giustizia che vi era a quel tempo nei Comuni e dall’uso ambiguo che le fazioni dominanti facevano del linguaggio giuridico. Venivano infatti impiegati termini che si rifacevano alla tradizione del Popolo, ma la realtà era che il ceto mercantile che si trovava allora al governo, si era sempre più distanziato dagli elementi più poveri della società. Il ricorso a un vocabolario, che faceva costante riferimento al bene comune per giustificare talune condanne, era un abuso. Deve essere tenuto presente che le città del Centro-Nord Italia, come già precedentemente ricordato, erano divise in fazioni. La scelta di condannare uomini appartenenti allo schieramento avverso rispetto a quello di cui si faceva parte, era determinata dalla necessità di eliminare il pericolo che l’assetto governativo fosse turbato da elementi ostili. Mantenere un saldo controllo delle cariche di governo garantiva il rafforzamento del patrimonio familiare. Ciò si concretizzava attraverso il drenaggio di risorse: direttamente, attraverso gli interessi sui prestiti al Comune o tramite il controllo su certe imposte; indirettamente, mediante il godimento di privilegi commerciali e di monopoli nell’erogazione di credito concesso da sovrani, vicini o lontani, alle città che li sostenevano e ai privati che le governavano. Può essere affermato che i Comuni italiani, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, furono retti dal ceto mercantile che si era arricchito durante la più grande espansione economica del Medioevo, ovvero quella culminata a metà Duecento, e che allora formarono un patriziato intento a utilizzare la giustizia come un elemento per mettere al sicuro il proprio giro d’affari. Per questo motivo il progetto pacificatore di Enrico VII fu fortemente osteggiato dai Guelfi. Per fare un esempio, secondo Giovanni Villani,39 dietro ogni ribellione all’Alto Arrigo si trovavano i fiorentini che, preoccupatissimi di perdere le proprie posizioni strategiche fondate sull’alleanza con Roberto d’Angiò, furono disposti a sborsare somme enormi per evitare che fosse cambiato lo status quo. Tutte queste spese si scaricarono sulle casse comunali che, per rimanere in piedi, dovettero attingere a nuove entrate. I mercanti-banchieri che guidavano il Comune egemonizzando il Priorato imposero prestanze assai dure e

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talvolta, continuando la più antica tradizione dei milites, si fecero pagare ingenti risarcimenti di guerra.

Mi accingo adesso a tentare di ricostruire quali fossero i piani che l’Alto Arrigo aveva in mente per la Toscana.

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II.CONTENUTO

E

STRUTTURA

DEL

DOCUMENTO

All’Archivio di Stato di Torino è conservato il registro notarile di Bernardo de Mercato, esponente di spicco del funzionariato al servizio di Enrico VII. Bernardo aveva prestato i suoi servigi presso Amedeo V di Savoia prima di entrare a far parte del seguito dell’Alto Arrigo, insieme al Conte stesso. Deve essere specificato che egli fece parte del personale della Camera e non della Cancelleria, poiché proprio al tempo di Enrico VII, avvenne un trasferimento di competenze tra questi due organi amministrativi del Sacro Romano Impero. La Camera non si occupò più della gestione delle finanze che fu assegnata ai chierici della tesoreria, ma concentrò la sua attività nella redazione di documenti, soprattutto di carattere amministrativo. Il Lussemburghese si preoccupò di circondarsi di personaggi esperti di diritto, poiché era consapevole dell’importanza di fornire una base legittimante alle sue ambizioni di restaurazione imperiale. Oltre al De Mercato è doveroso citare anche il pisano Leopardo de Sancto Petro, notaio formatosi in ambito comunale. Patrizia Merati nel suo saggio L’attività documentaria di

Enrico VII in Italia40, afferma che in pratica si venne a costituire un team di giuristi capace di affrontare le molteplici situazioni problematiche che si presentarono loro durante la discesa in Italia di Enrico.

All’interno del registro conservato presso l’Archivio di Stato di Torino è presente un piccolo fascicolo (32x12 cm) in cui sono elencate città e località della Toscana41. Il formato ridotto corrisponde a quello dei cosiddetti “manuali”, ossia quaderni tascabili pratici e maneggevoli, utilizzati nella prima fase della redazione documentaria. Si evince da questa prima descrizione, che la fonte in oggetto contiene delle annotazioni che non hanno carattere ufficiale, ma hanno la funzione di serbare la memoria di determinati diritti. Si tratta in definitiva di appunti. Il documento risale al 1312, in accordo con quanto viene riportato nei Monumenta

Germaniae Historica42. Presumibilmente fu scritto durante il soggiorno pisano di Enrico VII, prima dunque della sua partenza per Roma. Con ogni probabilità

40 P. Merati, L’attività documentaria di Enrico VII in Italia, in Enrico VII e il governo delle città

italiane (1310-1313), a cura di G. M. Varanini, «Reti Medievali Rivista», 15, 1, 2014, pp. 47-74. 41

ASTo, Dipl. imp., mazzo 3.2, fasc. 23.1

42 Monumenta Germaniae Historica (MGH), Legum sectio IV, Constitutiones et acta publica

imperatorum et regum, IV, ed. J. Schwalm, 2 (1298-1311), Hannoverae et Lipsiae, Impensis

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Bernardo de Mercato insieme ai suoi colleghi, sfruttò la permanenza del sovrano nella città toscana per indagare quale fosse la situazione dei diritti imperiali nella regione e darne conto nel nostro documento.

Nella parte iniziale del documento è operata una distinzione tra le città che appartengono alla Lega Guelfa e quelle fedeli al Sacro Romano Impero. Sotto la dicitura Civitates et castra, que sunt in liga et sotietate in Tuscia contra dominium

nostrum, infatti, si trovano Florentia (Firenze), Luca (Lucca), Sene (Siena), Perugium (Perugia), Bononia (Bologna). Tali erano in effetti le città maggiori che

si opponevano in Toscana alle ambizioni dell’Alto Arrigo. Il raggruppamento dei membri della Lega Guelfa è diviso tra membri principali e secondari. I Comuni sopra menzionati, infatti, sono preceduti dalla annotazione Civitates principales

sunt e sono delimitati al loro fianco destro da una parentesi graffa. Entro un’altra

parentesi graffa sono elencati altri sette centri urbani, di minore importanza rispetto ai primi cinque. Questi sono Pistorium (Pistoia), Pratum (Prato), Sanctus

Miniate (San Miniato), Vulterra (Volterra), Sanctus Geminianus (San

Gimignano), Colle (Colle Val d’Elsa), Civitas Castelli (Città di Castello). Sono poi menzionati i Comuni fedeli all’Impero, sotto la dicitura Civitates et castra,

que non sunt in dicta liga, set sunt imperii. Questi sono dodici: Massa (Massa

Marittima), Grossetum (Grosseto), Monte Pulciano (Montepulciano), Monte

Alcino (Montalcino), Cortonium (Cortona), Closium (Chiusi), Castrum Plebis

(Pieve a Castello), Civitas Castelli (Città di Castello), Aretium (Arezzo), Burgus Sancti Sepulcri (Borgo San Sepolcro), Urbevetero (Orvieto), Cornetum

(Tarquinia).

Prima di passare alla descrizione della parte successiva della fonte, è doveroso fare alcune constatazioni sugli elenchi sopra citati. Tali liste, come già detto, rappresentano una suddivisione delle città toscane, principali e minori, che erano fedeli o meno a Enrico VII. Rispetto alla situazione politica descritta nel capitolo introduttivo, che fa riferimento a quanto affermato da Davidsohn43, si possono dedurre delle informazioni aggiuntive. Innanzitutto va segnalato che Città di Castello è menzionata in entrambi i raggruppamenti: con ogni probabilità si tratta

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di un errore del compilatore, dato che l’appartenenza alla Lega Guelfa di questo Comune è fuor di dubbio, tenendo conto pure della sua inimicizia con Arezzo. Per quanto concerne lo schieramento antimperiale, può essere affermato che grosso modo siano stati annotati tutti i componenti della Lega Guelfa, tranne poche eccezioni (come Orvieto e Città della Pieve). Esaminando invece l’elenco successivo, balza subito agli occhi il fatto che non viene menzionata Pisa. Presumibilmente non fu sentita la necessità di segnalare l’obbedienza di un Comune noto per la sua fede ghibellina e che al tempo della stesura del documento, ospitò con molte celebrazioni l’Alto Arrigo. Viene citata, al contrario, Massa Marittima. Cercando di spiegare i motivi della sua militanza nel fronte antiguelfo, va considerato che Massa Marittima era da tempo nelle mire espansionistiche di Siena: è ipotizzabile che questa sperasse, tramite un possibile successo della spedizione di Enrico VII, di allontanare il pericolo rappresentato dalla più potente vicina. Può essere fatto lo stesso tipo di ragionamento per Grosseto, Montepulciano, Montalcino. Questi Comuni infatti ambivano a liberarsi dal dominio senese e d’altra parte, per quanto concerne Montepulciano e Montalcino, la loro adesione alla fazione imperiale non fu immediata, proprio per il timore di una rappresaglia da parte dei Senesi. Pure Chiusi vide nel Sacro Romano Impero un protettore contro aggressivi vicini come Siena stessa e Orvieto. Deve essere rilevato il fatto che tutte le località appena menzionate (Massa Marittima, Grosseto, Montepulciano, Montalcino, Chiusi) non sono citate da Davidsohn tra le appartenenti alla fazione fedele all’Alto Arrigo. Desta stupore trovare Orvieto (Urbevetero) tra i Comuni nemici della Lega Guelfa; l’ostilità di quest’ultima città nei confronti di Enrico VII, tuttavia, è indubbia.

Dopo i primi due elenchi miranti a schematizzare la situazione politica vigente all’epoca, comincia una sezione diversa della fonte in esame. Non vengono più infatti menzionati Comuni cittadini (di maggiore o minore importanza), ma sono annotate comunità e castelli appartenenti al contesto rurale. Si comprende che il compilatore persegue adesso un obiettivo non corrispondente alle liste precedenti. Egli infatti scrive: Terre et castra de comitatu Florentie, que sunt imperii. In questa sezione dunque furono riportati i nomi dei centri del contado fiorentino, sotto la giurisdizione del Comune di Firenze, que sunt imperii. In pratica, viene

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rivendicata la giurisdizione del Sacro Romano Impero su una serie di località fuori dalle mura di Firenze. Chiaramente va spiegato attraverso quale logica avvenne tale rivendicazione.

1.Firenze

Per il momento, tuttavia, mi limito a descrivere la struttura degli elenchi stessi. La lista dei territori che si trovano sotto l’enunciazione Terre et castra de comitatu

Florentie, que sunt imperii è ripartita in quattro raggruppamenti. Innanzitutto sono

elencate le comunità e i castelli In contrata Vallis Pese (Val di Pesa), successivamente vi è una lista riguardante la Val d’Elsa (In contrata vallis Else), poi il Mugello (De partibus Mucelli), infine la Valbisenzio (In val di Bisenco). Il numero di località appartenenti all’epoca al Comitatu Florentie presenti in questa sezione è di 95. Queste sono suddivise in maniera diseguale: 40 sono citate nella sola Val di Pesa, 30 nella Val d’Elsa, 13 nel Mugello e 12 nella Valbisenzio. Leggendo i nomi dei castra inseriti nel raggruppamento In contrata vallis Pese se ne incontrano alcuni che ebbero importanza non trascurabile nella storia fiorentina del XII-XIII secolo: Montelupo, Capraia, Montegufoni, Lucardo, Santa Maria Novella, Passignano, San Casciano in Val di Pesa, Empoli. Può essere affermato che in questa parte del Districtus, il Comune di Firenze impose precocemente la sua egemonia. Montelupo fu conquistata dai Fiorentini, ai danni della temibile famiglia aristocratica degli Squarcialupi, nel 1220; il castello di Montegufoni (di proprietà degli Ormanni) fu raso al suolo dalle truppe cittadine addirittura già nel 1135; a Lucardo e a Santa Maria Novella era insediato il potente casato degli Alberti, che tuttavia subì una pesantissima sconfitta contro Firenze tra il 1198 e il 1202 (con conseguente distruzione di Semifonte); un’altra grande stirpe signorile, i Guidi, deteneva il controllo di Empoli (come pure dei centri vicini di Cerreto Guidi e Vinci), che d’altra parte fu assaltata e sconfitta nel 1182 (in seguito i Guidi dovettero condividerne la gestione con il Comune). A Capraia, dominio del Conte Rodolfo di Capraia, fu combattuta una importante battaglia al tempo di Federico II, con esito sfavorevole per i ribelli Guelfi che si erano lì rifugiati (25 aprile 1249). Rodolfo stesso terminò in maniera terribile la sua esistenza, come molti altri finiti in quell’occasione prigionieri delle truppe ghibelline, accecato e

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