IV. RIFLESSIONI CONCLUSIVE
1. Panoramica generale sui Comitati citati nel documento
Dalle pagine della Storia di Firenze di Davidsohn emerge che i Fiorentini, dalla seconda metà del XII secolo, furono i principali oppositori dell’autorità imperiale in Toscana. Il Comune di Firenze, poco prima dell’inizio dell’epoca sveva, aveva dato avvio ad una lunga stagione di spedizioni belliche nel territorio circostante le mura cittadine. Tale linea di condotta, naturalmente, contrastò con la volontà del Sacro Romano Impero, intenzionato a porre salde radici sul suolo toscano in modo da sfruttare comodamente le ricche risorse di quest’ultimo. Agli inizi del Duecento la città in questione, avendo scacciato da Montelupo (nel 1220) la nobile famiglia degli Squarcialupi di Mortennano368, aveva ormai stabilizzato il suo controllo sulla Val di Pesa. I Fiorentini esercitavano estesi poteri giurisdizionali pure nella Val d’Elsa dal momento in cui, tramite la distruzione di Semifonte (1202)369, era stato portato a termine con successo il lungo contenzioso con i Conti Alberti. Già dagli ultimi decenni del XII secolo, inoltre, l’aristocrazia signorile era stata spodestata dai suoi castelli nella Val di Sieve. Questa zona era colma di fortilizi fatti costruire dai signori rurali i quali, attraverso un intervento di Federico I Barbarossa, soltanto per breve tempo avevano potuto restaurare la loro egemonia in loco.
Firenze ebbe la possibilità di consolidare la sua supremazia sul contado circostante le mura cittadine negli anni seguenti la morte di Enrico VI. Il Comune
368 Davidsohn, op. cit., II, pp. 93-98. 369 Davidsohn, op. cit., I, pp. 943-946.
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in questione, infatti, assunse un ruolo egemone all’interno della Lega di San
Genesio, istituzione che era stata creata dai maggiori poteri locali toscani, con lo
scopo di ostacolare una futura restaurazione dell’autorità imperiale nella regione. Tale organizzazione si rivelò ben presto uno strumento della politica espansionistica fiorentina, che ormai minacciava fortemente i confini del distretto di pertinenza di Siena. Poggibonsi, che era stata fondata nel secolo precedente in opposizione a Firenze370, si trovò al centro degli interessi di quest’ultima, finché fu definitivamente acquisita sul finire del Duecento (inutile sarebbe stato il tentativo di Enrico VII di riportare sotto la protezione dell’Impero tale castrum). Le vittorie militari conseguite ai danni dei signori rurali e che, tra l’altro, misero in allerta pure i Comuni vicini, preoccupati della preminenza che stava acquistando la città in questione, resero i Fiorentini tanto superbi da rifiutarsi di riconoscere la superiore autorità del Sacro Romano Impero. Le zone del territorio circostante le mura fiorentine che all’epoca non erano ancora finite sotto la giurisdizione cittadina erano il Mugello, il Valdarno Superiore e il Chianti. Nel Mugello il potere signorile degli Ubaldini si sarebbe conservato fino agli inizi del Trecento, quando i Guelfi, che ormai avevano reso stabile la loro posizione di dominio a Firenze, si mobilitarono per rendere sicuro il transito delle merci nella suddetta area, controllata dalla celebre famiglia aristocratica (tradizionalmente filoimperiale)371. Nel Valdarno Superiore detenevano possedimenti i Guidi, gli Ubertini e i Pazzi. Tali casate furono tradizionalmente fedeli all’Impero, in quanto si opponevano alle mire espansionistiche dei Fiorentini. Ho già riportato, tuttavia, che una parte dei Guidi e il Vescovo Guglielmo Ubertini tradirono Federico II, facendo diventare la zona situata tra Firenze e Arezzo il centro nevralgico della ribellione contro lo Staufen. Dunque, paradossalmente, la resistenza dei Guelfi si concentrò in una fascia territoriale in cui il potere comunale non aveva ancora esercitato la sua giurisdizione. Nel Chianti possedevano beni i Guidi stessi e i Firidolfi (poi divenuti Ricasoli). Quest’ultimo era un territorio posto al confine tra i distretti di pertinenza di Firenze e Siena, dunque, inevitabilmente i signori si trovarono coinvolti negli incessanti dissidi opponenti i Comuni appena citati.
370 Davidsohn, op. cit., I, pp. 678-680. 371 Repetti, op. cit., I, p. 35.
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Proprio nel Chianti si ergeva il castello di Montegrossoli, sede dell’amministrazione imperiale per il contado fiorentino. Tale fortificazione era stata oggetto di ripetute contese al tempo di Federico I Barbarossa, a causa della suddetta funzione esercitata e delle attività di saccheggio compiute dai Firidolfi, che ne erano i proprietari, ai danni dei Fiorentini372. Federico II mostrò, appena incoronato Imperatore, la sua intenzione di far tornare all’obbedienza la città in questione. A tale scopo condusse una politica favorevole ai nemici di questa. Venne così sottoposta alla protezione del Sacro Romano Impero Poggibonsi (1220), furono emanati privilegi contenenti ampie concessioni territoriali a famiglie signorili ostili al Comune, che venne sanzionato con il bando imperiale373. Fino al 1238, tuttavia, lo Staufen ottenne soltanto insuccessi contro Firenze, che era riuscita ad estendere la sua giurisdizione pure su Poggibonsi e che, tra l’altro, disinteressandosi del provvedimento emanato dall’Imperatore, aveva cominciato a coniare monete, i fiorini d’argento. L’autorità imperiale, come rende noto Davidsohn374, cominciò a veder rispettate le sue pretese dal Comune fiorentino e nel contado intorno alle mura cittadine, tramite l’accordo raggiunto con la controparte da Gebhard Von Arnstein (giugno 1238). I Fiorentini, in quell’occasione, d’altro canto, erano riusciti a conservare i poteri giurisdizionali che detenevano sulle aree rurali che si trovavano a quel tempo sotto il loro controllo; questi, inoltre, videro riconosciuti il diritto di conio, la giurisdizione d’appello e non furono gravati di esazioni fiscali. L’Impero avrebbe richiesto contributi esclusivamente in termini di uomini da impiegare nelle campagne belliche, oltre a vincolare al suo consenso l’entrata in carica del Podestà eletto dai cittadini. Soltanto nel febbraio 1246, approfittando della crisi politico-istituzionale che si era generata all’interno del Comune, il potere imperiale conseguì pieno controllo sull’intero Comitato fiorentino. L’affidamento della carica podestarile a Federico d’Antiochia fu accompagnato dalla rinuncia, a vantaggio del Sacro Romano Impero, delle entrate fiscali provenienti dalle aree rurali sottomesse. Al Comune di Firenze fu tolta pure la giurisdizione d’appello.
372 Davidsohn, op. cit., I, pp. 837-838. 373 Davidsohn, op. cit., II, pp. 110-116. 374 Davidsohn, op. cit., II, pp. 333-335.
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Davidsohn375 documenta che, nell’occasione, il contado fu frazionato in cinque o sei distretti, in ognuno dei quali fu insediato un vicario. Purtroppo, la documentazione concernente tale riorganizzazione amministrativa è scarna; sono pervenute notizie soltanto su due porzioni di territorio, ossia l’area compresa inter
Arnum et Elsam (il Chianti, con Castelfiorentino e Certaldo) e il vicariato della Valle Arni [ ex] utraque parte, Mucillo et partibus adiacentibus. La salvaguardia
di quest’ultima zona si sarebbe rivelata, poco più tardi, di capitale importanza, dal momento in cui i fuoriusciti Guelfi si asserragliarono proprio nelle fortificazioni del Valdarno Superiore. Fu incaricato di amministrare tale distretto il giovane nobile napoletano Landolfo Caracciolo376. Sulla base delle vicende appena menzionate deve essere rilevato che l’autorità imperiale, durante il regno di Federico II, fu in possesso di pieni poteri giurisdizionali sull’intero Comitato fiorentino esclusivamente per pochi anni (1246-1250). In quel breve periodo di tempo che precedette la morte dello Staufen, l’Impero si adoperò per sfruttare al meglio le risorse locali. La popolazione, tuttavia, manifestò presto insofferenza nei confronti delle vessazioni subite; una porzione del contado fu sottratta al controllo dei funzionari al servizio della casata sveva, finendo in mano ai ribelli Guelfi. Sostengo, in ultima analisi, che le rivendicazioni del Sacro Romano Impero sul Comitato fiorentino, inseritenella fonte in esame, facciano riferimento ai diritti esercitati durante il mandato di Federico d’Antiochia.
Per quanto riguarda il Comitato lucchese si deve osservare che, agli inizi del XIII secolo, il Comune cittadino aveva scarso controllo sulle aree rurali prossime alle sue mura. Nella Valdinievole, così come nella Val di Lima e nella Valleriana, il potere esercitato da famiglie appartenenti all’aristocrazia signorile aveva posto salde radici. Nel Valdarno Inferiore, Fucecchio custodiva gelosamente la sua autonomia, riconosciuta mediante privilegio da Enrico VI (1187). In Garfagnana e in Versilia, i cattani conservavano la loro egemonia con l’ausilio dei Pisani; in Lunigiana vi era la coesistenza di più poteri locali, in primis i Malaspina e il Vescovo di Luni. Riguardo alla Valdinievole, sulla base di quanto afferma Giulio
375 Davidsohn, op. cit., II, pp. 436-438. 376 Ibidem.
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Bizzarri377, si deve rilevare che la presenza imperiale non venne meno neppure nei momenti di maggior crisi. In pratica, i funzionari al servizio della casata sveva affiancavano nelle cause giudiziarie i signori del luogo o i rappresentanti delle comunità rurali, pronunciando pene severe che manifestavano la volontà di custodire le prerogative possedute dall’Impero in loco. Fucecchio, come afferma Alberto Malvolti378, era un centro abitato che, nei secoli centrali del Medioevo, fu protagonista di una crescita demografica ed economica abbastanza consistente. La comunità in questione ebbe l’intenzione di accompagnare l’incremento del suo benessere con la difesa dell’autonomia dal Comune di Lucca e dal Vescovo della città stessa (l’indipendenza religiosa era stata accordata nel 1076, mediante privilegio, da Papa Gregorio VII). Fucecchio si adoperò a respingere le mire espansionistiche dei Lucchesi, cercando protezione nell’Impero che nel 1187 consentì la costruzione di un castello in loco, il quale fu posto sotto la diretta giurisdizione imperiale. Il Sacro Romano Impero, d’altra parte, possedeva nel Valdarno Inferiore già la fortezza di San Miniato, che fungeva da vera e propria sede dell’amministrazione dei suoi affari in Toscana; accordando la sua protezione alla comunità fucecchiese, l’autorità imperiale incrementò la rilevanza strategica dell’area in questione. Il castrum Ficecchii si affermò come un baluardo svevo in grado di competere per importanza con il castello di San Miniato, tanto che, nella primavera 1249, fu scelto da Federico II come sua dimora, a discapito del fortilizio sanminiatese, durante la campagna bellica contro i Guelfi fiorentini379.
Nei primi decenni del Duecento i territori della Garfagnana e della Versilia furono motivo di incessanti dissidi tra il Comune di Lucca da una parte e i cattani, sostenuti dal Comune di Pisa, dall’altra. I Pisani vollero ostacolare un indesiderato rafforzamento territoriale dei vicini, che tra l’altro, sottomettendo le famiglie aristocratiche locali, si sarebbero guadagnati uno sbocco marittimo alle loro merci. Nel contenzioso si inserì la Chiesa di Roma, che pretese che venissero riconosciuti i suoi diritti sui beni matildini. I Lucchesi, prendendo atto di dover
377 Bizzarri, op. cit., pp. 23-49. 378 Malvolti, op. cit., pp. 339-371. 379 Davidsohn, op. cit., II, p. 492.
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fronteggiare troppi avversari per soddisfare i loro propositi, in un primo momento si arresero. Così, Gregorio IX ritirò le sentenze spirituali comminate a Lucca, che aveva dovuto subire la soppressione della sua diocesi380. Nel 1236, dunque, la Santa Sede prese possesso dei beni matildini (Garfagnana e Val di Lima), con soddisfazione di Pisa e dei cattani, che avevano appoggiato le rivendicazioni pontificie per allontanare la minaccia lucchese. Il riavvicinamento dei Lucchesi al Sacro Romano Impero, avvenuto nel 1238, fu seguito da un energico intervento di quest’ultimo nel territorio circostante il Comune in questione. Nei mesi a cavallo degli anni 1239-1240, truppe imperiali, in coincidenza con le operazioni belliche svolte in Lunigiana, cacciarono i rappresentanti papali dal patrimonio che era stato di pertinenza di Matilde di Canossa e al posto di questi, furono insediati funzionari obbedienti alla casata sveva. Nel 1243 fu costituito il vicariato della Garfagnana, della Versilia e della Lunigiana, che venne affidato al Marchese Oberto Pelavicino381 prima che, nel 1246, l’Imperatore conferisse il titolo di Vicario generale per i suddetti territori al figlio Enzo. Tale provvedimento non venne gradito dal Comune di Lucca che insorse per obbligare Federico II a soddisfare le aspirazioni espansionistiche della città382, costringendo tra l’altro il Podestà filoimperiale ad abbandonare la sua carica. Così, nel 1248, lo Staufen conferì la Garfagnana ai Lucchesi, che utilizzarono tale concessione come un trampolino di lancio per ulteriori acquisizioni. Insieme alla sopra citata regione montana, Lucca aveva ottenuto pure la confinante Val di Lima e, già prima della morte dello Stupor mundi, tornò ad attaccare la Versilia. Negli anni successivi al 1250, il Comune in questione si schierò nella coalizione dei Guelfi in opposizione alla ghibellina Pisa e, in due consecutive spedizioni militari (1254-1255), riuscì a conquistare la regione costiera383, guadagnandosi in questo modo l’agognato sbocco marittimo. I cattani vennero sconfitti e Pisa perse il controllo sui due importanti porti di Motrone e Viareggio che, in accordo con quanto testimonia il documento in esame, erano a quel tempo in suo possesso. Lucca fu capace di espandersi anche nella Lunigiana. Tale città, infatti, nella seconda metà del
380
Davidsohn, op. cit., II, pp. 298-299. 381 Salvatori, op. cit., p. 173.
382 Davidsohn, op. cit., II, pp. 444-445. 383 Repetti, op. cit., IV, pp. 216-237.
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Duecento, incamerò i possedimenti che erano stati di pertinenza del Vescovo di Luni (Aulla, S. Stefano di Magra, Ponzano, Falcinello, Sarzana, Ameglia, Castelnuovo di Magra, Ortonovo, Nicola, Volpigliano, Moneta, Avenza, Massa, Montignoso), oltre ai castelli di Verrucola Bosi e Pontremoli. L’autorità episcopale lunense dunque, vide vanificati i suoi sforzi inerenti la restaurazione dei poteri giurisdizionali che le erano stati sottratti dall’Impero, in occasione dell’intervento bellico del dicembre 1239.
Come rende noto Enrica Salvatori384, il prelato Guglielmo, a Pontremoli, fu portato in catene dinanzi all’Imperatore che, con le sue milizie, aveva sottomesso all’obbedienza il castrum appena menzionato. Guglielmo, tra l’altro, fu uno degli ecclesiastici che vennero catturati all’Isola del Giglio e mandati nelle carceri dell’Italia meridionale. I diritti che aveva esercitato sui territori di pertinenza della Chiesa di Luni, situati tra la Lunigiana e la Versilia, passarono sotto il diretto controllo imperiale; nello specifico questi furono sottoposti alla salvaguardia del Pelavicino, il più importante funzionario in loco. Quest’ultimo, nel 1241, allo scopo di poter sfruttare al massimo grado le risorse della provincia che gli era stata affidata, elencò scrupolosamente le varie entrate fiscali che erano state di pertinenza del Vescovo; sulla base di tale documentazione, il successore di Guglielmo, Enrico da Fucecchio, compose il Codice Pelavicino, che funse da cartina tornasole per le rivendicazioni dello stesso prelato385.
Un castrum che fu agevolato dalla politica di Federico II nel territorio lunigianese fu Sarzana, che fu destinataria di due privilegi (1226 e 1244)386. Deve essere ricordato che, nel 1204, Innocenzo III aveva decretato il trasferimento della sede episcopale da Luni alla suddetta località, che l’Impero pose sotto la propria protezione al fine di danneggiare il potere vescovile.
L’Imperatore dimostrò molti riguardi pure verso un altro castello della Lunigiana, che ricopriva una fondamentale importanza strategica, ergendosi lungo l’unico tratto stradale percorribile dalle forze imperiali collegante la Lombardia con il Centro Italia. La fortificazione in questione è il castrum di Pontremoli, che fu
384 Salvatori, op. cit., p. 171. 385 Salvatori, op. cit., pp. 169-170. 386 Salvatori, op. cit., p. 174.
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destinatario di un privilegio nel 1226 e del quale lo Staufen si garantì l’obbedienza, conquistandolo militarmente. Mentre Sarzana creò pochi problemi al potere imperiale, rimanendo costantemente fedele alla casata sveva, Pontremoli invece fu più difficile da salvaguardare. Quest’ultimo castello venne descritto come unica clavis et ianua (unica chiave e porta)387, in riferimento alla già menzionata posizione strategica; lo Stupor mundi, considerando le conseguenze nefaste che si sarebbero verificate nel caso in cui fosse stato perso il controllo della fortezza in questione, insediò in loco, con il compito di presidiarla, contingenti provenienti dal Regno di Sicilia. Il possesso di Pontremoli si fece estremamente difficile da custodire negli ultimi anni del regno dello Staufen, a causa delle agitazioni che ebbero luogo nella zona circostante, mosse soprattutto dai Malaspina, che si ribellarono all’autorità imperiale388. Conservato, sebbene con fatica, il controllo del castrum, il Sacro Romano Impero ne mantenne la giurisdizione pure successivamente alla concessione della Lunigiana al Comune di Pisa, avvenuta in corrispondenza all’assegnazione della Garfagnana ai Lucchesi. Oltre a Pontremoli, furono esclusi dal dominio pisano i feudi di Corrado Malaspina, che, diversamente dal cugino Obizzo, aveva abbandonato la ribellione contro l’Imperatore389
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Si deve aprire una parentesi sulle vicende politiche del Comune di Pistoia, situato in prossimità di Lucca. Pistoia fu una città che, nei secoli centrali del Medioevo, si rese protagonista di una considerevole crescita demografica ed economica, che fu accompagnata da una forte espansione dal punto di vista territoriale. Gli interessi politici dei Pistoiesi erano concentrati soprattutto nella zona a cavallo degli Appennini, che fu oggetto di continui dissidi, coinvolgenti molteplici poteri: il Comune in questione, Lucca, Prato, Bologna, i Conti Alberti, i Cadolingi, i Guidi, l’autorità episcopale pistoiese stessa. Firenze, insieme a Lucca, non gradiva la presenza di un centro urbano troppo potente nei pressi delle sue mura, così, si mobilitò per sottomettere alla sua volontà Pistoia.
387 Salvatori, op. cit., p. 167. 388 Salvatori, op. cit., p. 173. 389 Ibidem.
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Deve essere precisato che quest’ultima città, sin dai tempi di Federico I Barbarossa, si distinse per la sua fedeltà al Sacro Romano Impero, in contrapposizione alla ben nota avversione dei Fiorentini verso tale istituzione. Come rende noto Davidsohn390, il primo colpo alla potenza dei Pistoiesi fu sferrato nel 1228, in occasione del più volte ricordato conflitto, che si concluse con un accordo di pace in cui, Firenze, vittoriosa pure a causa delle manchevolezze della coalizione filoimperiale, costrinse il Comune nemico ad accettare pesanti condizioni di resa. In pratica, Pistoia perse la sua autonomia, dal momento in cui le fu tolta la possibilità di gestire in maniera indipendente i suoi rapporti con i poteri confinanti. Tale città entrò nella sfera di influenza di Firenze, conducendo una politica soddisfacente gli interessi del Comune appena citato. I Fiorentini, tra l’altro, intervennero nelle discordie tra milites e populus, che scoppiarono in loco per ben tre volte nel corso di un decennio (1231,1234,1237)391. Questi fecero sentire tutta la loro ingerenza, favorendo il ceto dei cavalieri, più incline ad accettare rispetto alla controparte cittadina, la situazione di dipendenza in cui si trovava il Comune di appartenenza. In seguito al riavvicinamento di Firenze al Sacro Romano Impero, pure Pistoia si sottomise all’autorità imperiale. Dopo la morte di Federico II, i Pistoiesi si schierarono, come in passato, nella coalizione ghibellina, in contrapposizione alle nemiche guelfe, Firenze e Lucca. In questo modo essi tentarono di riacquisire, nel territorio toscano, la potenza politica che avevano perso nei decenni precedenti.
Agli inizi del Trecento, tuttavia, tale città subì una nuova, grave sconfitta che compromise, analogamente a quanto era successo un secolo prima, la sua indipendenza. Nel maggio 1301, il Capitano del Popolo Andrea Gherardini, Guelfo bianco, condusse un’azione repressiva contro i Guelfi neri, che gli valse il nome di scacciaguelfi392. Ebbe così inizio un conflitto che durò cinque anni e in cui Pistoia si vide costretta a difendersi, con le sue uniche forze, da uno schieramento, posto sotto il comando dell’allora Duca di Calabria Roberto d’Angiò e costituito, oltre che dai concittadini esiliati, da Firenze, Lucca, Siena,
390 Davidsohn, op. cit., II, pp. 213-218. 391 Davidsohn, op. cit., II, pp. 299-300; p. 313. 392 Repetti, op. cit., IV, pp. 424-425.
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Prato, San Gimignano, Colle Val d’Elsa. Con tale guerra, i Pistoiesi proseguivano la loro tradizionale politica filoghibellina o comunque avversa ai Guelfi neri. Nonostante la fiera resistenza opposta alla moltitudine degli antagonisti, il Comune in questione cominciò, poco a poco, a subire gravi sconfitte. Già nel 1302 furono sottratti al suo controllo i castelli di Piteglio, Serravalle e Larciano393. Nel maggio 1305 fu dato inizio all’assedio delle mura cittadine che durò undici mesi, finché i Pistoiesi, la resistenza dei quali era stata guidata da Tolosano degli Uberti (cugino di Farinata), ridotti alla fame, aprirono le porte a Morello Malaspina, comandante di Lucca. In seguito alla sconfitta subita, Pistoia fu privata di ogni difesa, dal momento in cui furono demolite integralmente le sue mura e riempiti i suoi fossati394.
Al tempo della stesura del documento oggetto della mia tesi dunque, il Comune era politicamente dipendente da Firenze e Lucca; nel suddetto contesto deve essere collocato l’elenco dei territori che, malgrado fossero posseduti dai Lucchesi, furono inseriti nel Comitato di pertinenza pistoiese. Il Comune di Lucca