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La volontà centralizzatrice di Federico II

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 153-156)

IV. RIFLESSIONI CONCLUSIVE

2. La volontà centralizzatrice di Federico II

Ritengo necessario aprire una parentesi riguardante la politica condotta da Federico II in campo amministrativo. Cito un passo tratto dal saggio di Enrica Salvatori420:« Sul contrasto col Vescovo, infatti, - più che sul non rapporto con le famiglie lunigianesi- si misura la differenza esistente tra i comportamenti di Federico Barbarossa e Federico II in Lunigiana in termini di strategia politica. Ricordiamo infatti il Barbarossa vide nel prelato- anche se tardivamente- un punto d’appoggio importante per controllare il territorio, al punto da nominarlo comes

lunensis. Giuridicamente, quindi, il Vescovo era per l’Impero un vassallo

imperiale, conte del comitatus lunensis, ma né la qualifica né lo stesso distretto amministrativo ebbero alcun peso nella lucida e pragmatica politica di Federico II. Uberto Pallavicino, fu vicario, legato, mai comes. Nella documentazione federiciana il comitatus lunensis non compare mai. Al suo posto- e questa è una novità di enorme portata- compare invece la Lunigiana in sé e per sé, individuata per la prima volta chiaramente come territorio dotato di una sua identità amministrativa. I riferimenti sono innumerevoli e spiccano proprio per densità e importanza all’interno di una documentazione medievale che, nel suo complesso, assai raramente parla di questa microregione considerandola nel suo insieme. Uberto Pallavicino è infatti vicario in Lunexana et Pontremulensi, o in Lunexana

et partibus convicinis o in Lunisiana, Versilia, Garfagnana et partibus convicinis,

o ancora capitaneum in Lunesana, frumento e armati devono essere inviati in

Terra Lunesana o ad partes Lunesani, la Francigena è strata Lunesane. La

politica federiciana tesa al ripristino dell’autorità imperiale sulle città del Regnum passò- com’è noto- anche attraverso la creazione di una nuova geografia politico- amministrativa dello stesso, basata su grandi circoscrizioni a carattere sovraregionale e regionale create a partire dal 1236. La Lunigiana fino ad allora praticamente inesistente dal punto di vista geopolitico, divenne improvvisamente una regione chiave per la strategia bellica federiciana, da controllare militarmente ma anche da amministrare. Lo si ricava non solo dalle attribuzioni del Pallavicino, o dai numerosi mandati di Federico II, ma anche dal fatto che nel primo infuriare della guerra sul fronte appenninico Uberto Pallavicino abbia considerato

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essenziale allo svolgimento del suo ruolo di vicario la raccolta degli atti relativi ai diritti del Vescovo di Luni e la compilazione dell’omonimo codice. Nel preambolo del Codice

Pelavicino si legge infatti: Anno 1275, nel mese di maggio.

Noi Enrico da Fucecchio, per misericordia divina Vescovo lunense, abbiamo composto questo libricino, nel quale vi sono tutti i redditi e i proventi dell’episcopato di Luni come [ sono stati trascritti] nei libri, scritture, documenti e privilegi antichi e principalmente nel libro chiamato “Maestro”, che fu scritto dal nobiluomo signore Oberto Pelavicino, allora vicario della provincia di Lunigiana, e in seguito dal venerabile padre Guglielmo Vescovo lunense, e da tutti gli altri sia chierici sia laici e principalmente dai vicari e consiglieri della Lunigiana in seguito istituiti e nei singoli anni approvato. È un passo che, pur scritto a venticinque anni dalla morte dell’Imperatore, fa emergere con chiarezza l’incisività delle riforme da lui operate e anche il perdurare dei loro effetti nel tempo. La Lunigiana di Federico II appare una realtà territoriale-amministrativa, in cui il responsabile si è premurato di raccogliere e ordinare la documentazione più importante e in cui hanno operato vicari e consiglieri anche successivamente al vicario nominato da Federico». Il passo appena citato concernente la Lunigiana, fornisce un chiaro esempio della volontà centralizzatrice di Federico II, che costituì vicariati generali nelle varie zone dell’Italia centro-settentrionale a lui fedeli.

Nel decennio 1240-1250, l’Italia imperialis si presentava come segue421: il nord- est era retto da Ezzelino da Romano, la Lombardia centrale da Re Enzo; la Lombardia occidentale, prima di essere affidata ai Marchesi Lancia e Del Carretto, fu amministrata da Tommaso di Savoia; Spoleto, la Romagna e le Marche furono controllate da Riccardo di Theate (Chieti), figlio naturale dell’Imperatore. Intanto la carica di Capitano generale della Sicilia venne conferita a Gualtiero di Manupello, il quale, allo scopo di non concentrare troppo potere nelle mani di una sola persona, fu affiancato, in qualità di consiglieri, dai due giovanissimi generi di Federico II, Tommaso d’Aquino e il Conte Riccardo di Caserta. L’Italia meridionale rappresentò il modello a cui fare riferimento, dal

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momento in cui, come afferma Davidsohn422, nel Regnum lo stato burocratico si era radicato sin dall’epoca bizantina, consolidandosi mediante l’ulteriore attività accentratrice dei Normanni e dello stesso Puer Apuliae. Proprio sul suolo toscano, l’esportazione del suddetto modello avvenne con maggior successo rispetto alle altre province del Regno d’Italia. Mentre la zona nord-occidentale della regione fu assegnata al fido Oberto Pelavicino, il cuore della Toscana fu retto da un funzionario abile, seppur poi dimostratosi poco fedele, come Pandolfo di Fasanella e, successivamente, da Federico d’Antiochia, figlio dello Stupor mundi, che si dedicò con grande energia alla custodia degli ampi diritti posseduti dall’Impero in loco, cercando di tenere in piedi, pure in seguito alla morte del padre, l’organizzazione politico-istituzionale che si era dimostrata efficiente negli anni precedenti.

Nel suo ultimo decennio di vita, Federico II affidò la gestione degli interessi imperiali in Toscana al personale burocratico formatosi in Italia meridionale, a elementi signorili locali devoti alla casata sveva e, soprattutto a partire dal 1245, a ufficiali legati allo Staufen da vincoli familiari o comunque da stretti rapporti di amicizia. D’altra parte, l’Imperatore, per la realizzazione dei suoi piani, poté disporre di un’organizzazione amministrativa che aveva come sedi principali San Miniato e Fucecchio e che era stata costituita ai tempi di Federico I Barbarossa, durante l’attività legatizia di Rainaldo di Dassel423

. Tra il 1240 e il 1250, l’autorità imperiale impose la sua volontà in Tuscia, oltre che dai castelli sopra citati, dalla fortezza di Prato, restaurata su iniziativa di Enzo nel 1241424 (già all’epoca di Enrico VI, l’Impero aveva acquisito tale castrum dai Conti Alberti), da Firenze, che durante il mandato di Federico d’Antiochia divenne il vero e proprio centro nevralgico dell’apparato amministrativo, da Poggibonsi, da San Quirico d’Orcia, da Grosseto, in seguito alla cacciata di Guglielmo Aldobrandeschi dai suoi domini. Naturalmente, l’intenzione dello Staufen di trapiantare sul suolo toscano lo stato burocratico meridionale, nel lungo periodo, dovette fare i conti con l’opposizione rappresentata dai poteri locali (i Comuni in primis, ma pure i

422 Davidsohn, op. cit., II, p. 375. 423 Davidsohn, op. cit., I, pp. 718-721. 424 Davidsohn, op. cit., II, p. 375.

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Principati laici ed episcopali, le grandi abbazie, che possedevano ampie estensioni di territorio), la maggior parte dei quali si ribellò all’Impero, prestando orecchio alla propaganda papale contro l’Imperatore, a causa dei gravami, diventati insopportabili, imposti dal potere centrale.

Nel documento Enrico VII e la Toscana (pagine 153-156)