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La morte in scena: studi su "Sette contro Tebe", "Agamennone", "Coefore".

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Introduzione

La maggior parte delle tragedie greche pervenuteci prevede la morte di uno o più personaggi. Nonostante il momento della morte sia solitamente assente dalla scena e rimanga nascosto agli occhi degli spettatori, non di rado la tensione accumulata nel corso del dramma trova il suo culmine nella visione dei cadaveri da parte degli altri personaggi, del coro e del pubblico stesso. Questo lavoro si propone dunque di fornire un quadro generale del modo in cui Eschilo ha sfruttato questa potente risorsa, costruendo attorno ai corpi presenti in scena situazioni estremamente diverse tra loro.

Dopo qualche riflessione preliminare sui motivi che portavano i Greci ad evitare di rappresentare la morte sulla scena esamineremo, all’interno dei Sette contro Tebe e dell’Orestea, le varie strutture sceniche legate alla visibilità dei cadaveri. In primo luogo prenderemo in esame le diverse modalità con cui in Eschilo la presenza dei cadaveri viene gradualmente preparata nel corso del dramma e infine svelata, per poi giungere alle situazioni sceniche e ai nuclei di significato creati dai cadaveri stessi, che conservano talvolta l’impatto di veri e propri personaggi anche dopo la loro morte.

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Capitolo primo

La rappresentazione della morte nella tragedia greca

1. Un problema preliminare: la riluttanza dei Greci a

mettere in scena il momento della morte

La morte, come è noto, rappresenta l’elemento centrale attorno a cui ruota la maggior parte delle tragedie: la trattazione delle dolorose vicende dei personaggi spesso comprende eventi luttuosi, e anzi non di rado la morte rappresenta il culmine della vicenda narrata. Il lettore moderno tuttavia può rimanere spiazzato nel constatare che, nei drammi conservati, uccisioni e suicidi solitamente non avvengono sotto gli occhi degli spettatori1; l’abitudine a vedere rappresentato lo spargimento di sangue al cinema o a teatro può portare il lettore a sorprendersi non trovando in tragedia niente di tutto ciò. Il momento della morte di solito non viene mostrato direttamente: esso ha luogo nello spazio extrascenico o in quello retroscenico, lontano dagli occhi del pubblico, e viene semplicemente narrato o lasciato intuire. Sulla scena compare piuttosto in un secondo momento il cadavere, come segno dell’irreversibilità di ciò che è accaduto, mentre l’orrore dello spargimento di sangue viene esplorato ed esaltato nei racconti dei messaggeri o di altri personaggi.

Questo lavoro si propone di trattare il ruolo del cadavere nel teatro di Eschilo come elemento attorno al quale si creano e si articolano nuclei di significato e strutture drammatiche. Ma, prima di passare all’oggetto specifico della nostra analisi, è necessario considerare una questione preliminare: quali sono i motivi che spingevano i Greci a mostrare sulla scena tragica non il momento della morte di per sé bensì il suo risultato, cioè il cadavere? Numerose teorie sono state proposte dagli studiosi nel corso dei decenni2. Di seguito offriremo una panoramica delle principali ipotesi, che non si escludono necessariamente a vicenda; è possibile, anzi, che motivazioni molto diverse tra loro abbiano contribuito a generare la ben nota ‘riluttanza’ dei Greci a mettere in scena uccisioni e spargimenti di sangue.

1 Parleremo più avanti di alcune possibili eccezioni. 2

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3

2. Criteri ‘estetici’

2.1. TESTIMONIANZE ANTICHE

La nostra indagine sulle cause dell’assenza della morte in scena prenderà le mosse dalle opinioni di Aristotele e degli scoliasti. Si tratta ovviamente di opinioni cronologicamente successive alla rappresentazione dei drammi e che perciò non necessariamente riflettono la sensibilità dei tragediografi e del pubblico; è comunque interessante notare in che modo queste testimonianze affrontano la questione prima di passare in esame le opinioni degli studiosi moderni.

2.1.1. La Poetica di Aristotele

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Dunque in tragedia la morte e molti altri eventi di fondamentale importanza (basti pensare al racconto della battaglia nei Persiani) non vengono mostrati apertamente al pubblico ma narrati. A questo proposito colpisce, prima di tutto, il fatto che Aristotele, nella sua celebre definizione di tragedia, sembri affermare l’esatto contrario: la peculiarità della tragedia (che la distingue dall’epica) dovrebbe risiedere proprio nel fatto che gli eventi vengono ‘agiti’ in scena dagli attori, mentre in realtà molti eventi cruciali per lo svolgimento dell’azione sono oggetto di narrazione.

Arist., Po., 1449b 24-28: ἔστιν οὖν τραγῳδία μίμησις πράξεως σπουδαίας καὶ τελείας μέγεθος ἔχούσης, ἡδυσμένῳ λόγῳ χωρὶς ἑκάστῳ τῶν εἰδῶν ἐν τοῖς μορίοις, δρώντων καὶ οὐ δι’ἀπαγγελίας, δι’ἐλέου καὶ φόβου περαίνουσα τὴν τῶν τοιούτων παθημάτων κάθαρσιν.

Tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta, avente una propria grandezza, con parola ornata, distintamente per ciascun elemento nelle sue parti, di persone che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni.4

Il passo seguente, se interpretiamo οἵ ἐν τῷ φανερῷ θάνατοι come ‘le morti che avvengono in scena’, è ancora più esplicito5

: non solo Aristotele non sembra

3 Il testo riportato è quello di T

ARÀN 2012.

4 Traduzione di Diego Lanza.

5 A questa interpretazione, solitamente accettata, si oppone tuttavia R. Janko (Poetics I,

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4 prendere in considerazione nessuna proibizione contro la morte di personaggi davanti agli occhi del pubblico, ma anzi simili espedienti vengono da lui indicati come costituenti essenziali del πάθος.

1452b 11-13: πάθος δέ ἐστι πρᾶξις φθαρτικὴ ἢ ὀδυνηρά, οἷον οἵ τε ἐν τῷ φανερῷ θάνατοι καὶ αἱ περιωδυνίαι καὶ τρώσεις καὶ ὅσα τοιαῦτα.

L’evento traumatico è un’azione che reca danno o dolore, come per esempio la manifestazione di morti, di gravi sofferenze, di ferimenti ecc.6

Altrove, tuttavia, Aristotele ammette che il potere evocativo della parola permette, tramite il racconto di eventi terribili, di suscitare nel pubblico emozioni perfino più intense di quelle ispirate dalla visione diretta dei fatti:

1453b 1-8: ἔστιν μὲν οὖν τὸ φοβερὸν καὶ ἐλεεινὸν ἐκ τῆς ὄψεως γίγνεσθαι, ἔστιν δὲ καὶ ἐξ αὐτῆς τῆς συστάσεως τῶν πραγμάτων, ὅπερ ἐστὶ πρότερον καὶ ποιητοῦ ἀμείνονος. δεῖ γὰρ καὶ ἄνευ τοῦ ὁρᾶν οὕτω συνεστάναι τὸν μῦθον ὥστε τὸν ἀκούοντα τὰ πράγματα γινόμενα καὶ φρίττειν καὶ ἐλεεῖν ἐκ τῶν συμβαινόντων· ἅπερ ἂν πάθοι τις ἀκούων τὸν τοῦ Οἰδίπου μῦθον. τὸ δὲ διὰ τῆς ὄψεως τοῦτο παρασκευάζειν ἀτεχνότερον καὶ χορηγίας δεόμενόν ἐστιν.

È possibile che quel che muove paura e pietà si produca per effetto della vista, ed è anche possibile che si produca per effetto della stessa composizione dei fatti, ciò che è preferibile e del poeta migliore. Anche senza il vedere, il racconto deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svolgono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga, ciò che si può provare udendo il racconto di Edipo. Procurare questo effetto per mezzo della vista è invece piuttosto estrinseco all’arte e legato alla messinscena.

Anche Orazio, ai vv. 179-188 dell’Ars poetica7, sviluppa una riflessione sull’azione effettivamente mostrata in scena e su quella semplicemente descritta. Il poeta sembra motivare l’assenza di uccisioni sulla scena tragica greca con argomenti puramente estetici, simili a quelli che abbiamo appena incontrato in Aristotele:

told that epic too should have such events. Since these cannot be on stage in epic, violent deed narrated in a messenger-speechmust also count. Elsewhere Aristotle speaks of using language to “put something before one’s eyes”, e.g. by vivid metaphors (Rhetoric III 10.1411a25-1412a 10); this is what his expression here refers to. It applies to the agonies, woundings etc. also.

6 Traduzione di Diego Lanza. 7 Il testo riportato è quello di B

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5

aut agitur res in scaenis aut acta refertur.

segnius irritant animos demissa per aurem, 180 quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae

ipse sibi tradit spectator. non tamen intus digna geri promes in scaenam, multaque tolles ex oculis quae mox narret facundia praesens:

ne pueros coram populo Medea trucidet, 185 aut humana palam coquat exta nefarius Atreus,

aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem. quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi.

Un’azione viene compiuta sulla scena o, una volta compiuta, viene riferita. Le cose udite accendono gli animi più fiaccamente di quelle che sono sottoposte agli occhi fedeli e di quelle che lo spettatore in persona consegna a se stesso. Tuttavia non devi mostrare in scena ciò che è degno di essere rappresentato all’interno e devi sottrarre alla vista molte cose, che poco dopo una narrazione esporrebbe in presenza (sc. del pubblico): Medea non uccida i figli di fronte al popolo o lo scellerato Atreo cucini apertamente carne umana o Procne sia trasformata in un uccello e Cadmo in un serpente. Qualunque cosa tu mi mostri in questo modo io, incredulo, la detesto.

Il forte impatto della narrazione della morte o delle grida fuori scena della vittima,8 accompagnate dalla reazione dei personaggi, era dunque ben noto agli antichi ed è probabile che non fosse sfuggito neppure ai tragediografi; tuttavia, esaminando i drammi pervenutici, sembra difficile che l’assenza di uccisioni sulla scena sia dovuta a semplici ragioni estetiche e non sia piuttosto una vera e propria convenzione con radici più profonde.

2.1.2. Σ S. El. 1404

Σ S. El. 14049: αἲ αἴ, ἰὼ στέγαι: ἔθος ἔχουσι τὰ γεγονότα ἔνδον ἀπαγγέλλειν τοῖς ἔξω οἱ ἄγγελοι, νῦν δὲ διὰ τὸ μὴ διατρίβειν ἐν τῷ δράματι οὐκ ἐποίησεν. τούτῳ γὰρ προκείμενον τὸ κατὰ τὴν Ἠλέκτραν ἐστὶ πάθος. νῦν τοίνυν βοώσης ἐν τῇ ἀναιρέσει τῆς Κλυταιμήστρας ἀκούει ὁ θεατὴς καὶ ἐνεργέστερον τὸ πρᾶγμα γίνεται ἢ δι’ ἀγγέλου σημαινόμενον. καὶ τὸ μὲν φορτικὸν τῆς ὄψεως ἀπέστη, τὸ δὲ ἐναργὲς οὐδὲν ἧσσον καὶ διὰ τῆς βοῆς ἐπραγματεύσατο. L r(G)

8 Cfr. A. Ag. 1343-45 (Agamennone), A. Ch. 869 (Egisto), S. El. 1404-16 (Clitemestra), E.

Med. 1273-8 (i figli di Medea), E. Hipp. 776-781 (la nutrice, dall’interno, grida che la regina si è

uccisa), E. HF 751-4 (Lico), E. El. 1165-67 (Clitemestra).

9 Ed. X

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6

I messaggeri sono soliti riportare a chi si trova fuori (sc. ai personaggi che si trovano in scena e al coro) ciò che è accaduto dentro, ma ora (sc. Sofocle) non fa ciò10 per non perdere tempo nel dramma. Infatti con questo espediente è in primo piano il πάθος di Elettra. Ora quindi lo spettatore ode Clitemestra gridare durante l’uccisione e l’azione è più efficace che se fosse rivelata da un messaggero; e (Sofocle) evitò la rozzezza della vista (dell’uccisione), mentre nondimeno si adoperò per la chiarezza tramite le grida (di Clitemestra).

Lo scoliaste, dunque, approva l’espediente usato da Sofocle per informare il pubblico della morte di Clitemestra e commenta che sarebbe stato φορτικὸν (‘rozzo, volgare’) mostrare il delitto al pubblico. Osserva inoltre che in questo modo viene evidenziato il πάθος di Elettra, ovvero l’effetto su di lei dell’intera serie di eventi che conducono al matricidio11.

Ancora una volta, dunque, ci troviamo di fronte ad argomenti che riguardano la volontà dell’autore di impressionare il pubblico.

2.1.3. Σ Hom. Il. 6, 58-9b

Menelao sta per cedere alle suppliche di Adrasto e risparmiargli la vita; Agamennone allora lo esorta a non esitare, e ad uccidere anzi tutti i Troiani, compresi i bambini non ancora nati. Lo scoliaste, di fronte a parole così forti, commenta: Σ Il. Z 58-9b12 μισητὰ καὶ οὐχ ἁρμόζοντα βασιλικῷ ἤθει τὰ ῥήματα· τρόπου γὰρ ἐνδείκνυσι θηριότητα, ὁ δὲ ἀκροατὴς ἄνθρωπος ὢν μισεῖ τὸ ἄγαν πικρὸν καὶ ἀπάνθρωπον. ὅθεν κἀν ταῖς τραγῳδίαις κρύπτουσι τοὺς δρῶντας τὰ τοιαῦτα ἐν ταῖς σκηναῖς καὶ ἢ φωναῖς τισιν ἐξακουομέναις ἢ δι’ ἀγγέλων ὕστερον σημαίνουσι τὰ πραχθέντα, οὐδὲν ἄλλο ἢ φοβούμενοι, μὴ αὐτοὶ συμμισηθῶσι τοῖς δρωμένοις. […]

Queste parole sono odiose e non adatte a un carattere regale; infatti mostrano la bestialità dei suoi costumi, mentre l’ascoltatore detesta ciò che è troppo crudele e inumano. E per questo motivo anche nelle tragedie (sc. gli autori) nascondono chi compie atti simili all’interno della skené e indicano con voci che vengono udite o, in seguito, con messaggeri ciò che viene fatto, poiché temono di essere odiati loro stessi insieme a chi li compie. […]

10 Fa riferimento alla morte di Clitemestra.

11 B

REMER 1976.

12 Il testo riportato è quello di E

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7 Evidentemente lo scoliaste presuppone che il pubblico non avrebbe apprezzato la visione di simili atti di sfrenata violenza, e giustifica così la pratica di non mostrarli in scena: in caso contrario, sostiene, il pubblico avrebbe ‘odiato’ sia il dramma sia il suo autore.

2.2. I GRECI E LA VIOLENZA SULLA SCENA

Gli scoli che abbiamo esaminato potrebbero portarci a pensare che i Greci, a differenza dei Romani, non apprezzassero la visione di atti violenti. Tuttavia le considerazioni degli scoliasti non riflettono necessariamente la sensibilità del pubblico originario. Gli scoli, infatti, sembrano semplicemente cercare di giustificare a posteriori il fenomeno e non tengono conto che, in realtà, la violenza di per sé è tutt’altro che assente dai drammi:

- la narrazione stessa della morte dei personaggi indugia volentieri su particolari volti a suscitare orrore nel pubblico, che evidentemente ne trae piacere;

- nonostante la morte non compaia in scena, non mancano altre manifestazioni esplicite di violenza (basti pensare a personaggi strappati da luoghi sacri contro la loro volontà) e di sofferenza fisica, declinata in tutte le sue manifestazioni più crudeli e raccapriccianti (un esempio lampante è quello di Edipo con gli occhi cavati);

- l’azione che provoca la morte (il colpo mortale, l’atto dell’impiccagione o altro) viene solitamente tenuta nascosta, ma la morte di per sé non è totalmente bandita13. Ippolito e Alcesti, come vedremo meglio in seguito, muoiono effettivamente in scena; inoltre nella maggior parte dei drammi i cadaveri compaiono in scena in tutta la loro drammaticità, e non mancano scene cruente come quella di Agave con la testa del figlio conficcata sul tirso.

Dunque l’unica forma di violenza realmente assenta dalla scena tragica sembrerebbe non la morte di per sé, ma piuttosto l’atto stesso dell’omicidio/suicidio14

, cioé il colpire/ferire15 qualcuno; i Greci, evidentemente,

13 Cfr. S

OMMERSTEIN 2004.

14 È significativo notare che neanche gli animali possono essere uccisi o sacrificati in scena. In

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8 erano tutt’altro che ‘schizzinosi’. Pathmanathan16

, anzi, nota che la suspence costruita in drammi come l’Andromaca e lo Ione intorno alla possibilità che un supplice, appena allontanatosi dall’altare, possa effettivamente essere ucciso di fronte agli occhi del pubblico mostra come non esistesse un divieto assoluto riguardo alla morte ἐν τῷ φανερῷ; l’ansia e l’aspettativa suscitate nel pubblico da simili scene, altrimenti, verrebbero meno.

I motivi di quella che sembra, data l’incidenza pressoché totale, una forte convenzione non sono quindi (o almeno non sono completamente) di tipo estetico: i Greci non si scandalizzavano di fronte all’orrore e alla sofferenza. Passiamo quindi ad esaminare quelli che sono sembrati agli studiosi i due campi più fertili da cui attingere nel cercare spiegazioni plausibili: la praticabilità scenica e le credenze religiose.

momento, così che la vittima venga uccisa lontano dagli occhi degli spettatori. Mentre nel secondo caso Pisetero, stanco delle continue interruzioni, decide di concludere il rito altrove, nel primo (torneremo più avanti su questo particolare) è la presenza della dea Pace ad impedire il sacrificio.

15 Fa eccezione l’inizio del Prometeo, dove il protagonista viene trafitto (vv. 64-65); in quel

caso, però, la scena può trovare giustificazione nell’eccezionalità della situazione: la vittima è immortale e lo scopo della scena è proprio mostrare che la punizione di Prometeo, costretto a sopportare per lungo tempo una ferita che sarebbe mortale per un uomo, supera tutti i limiti umani. Il fatto che Prometeo sia bloccato in scena, inoltre, giustifica ulteriormente l’utilizzo di questo espediente. Per una trattazione del brano cfr. SOMMERSTEIN 2004;secondo lo studioso la convenzione (assente in commedia) secondo cui un personaggio non poteva colpirne un altro nacque per la tragedia come un dato naturale ed implicito nel genere stesso e se ne acquisì coscienza solo in seguito, per contrasto con la commedia.

16 P

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9

3. Motivi di praticabilità scenica

3.1. ATTORI E FANTOCCI

Molti, nel tentativo di giustificare il fenomeno, si appellano ai problemi di messa in scena che la rappresentazione della morte di un personaggio poteva sollevare per il tragediografo. A creare difficoltà non era probabilmente la necessità di rendere credibile la causa del decesso, almeno per i tipi di morte più comuni: sicuramente non sarebbe stato impossibile avvalersi di spade retraibili e, come nota giustamente Sommerstein17, il veleno sarebbe stato facile da simulare e, per di più, particolarmente adatto ai suicidi femminili che tanto spesso ricorrono nei drammi.

È invece probabile, data la regola dei tre attori e considerando l’assenza di un sipario da far calare all’occorrenza, che uno dei motivi che spingevano i tragediografi a evitare di mostrare il momento della morte fosse la necessità di evitare che un attore rimanesse immobilizzato in scena per il resto del dramma e non fosse, di conseguenza, riutilizzabile per altri ruoli. La regola dei tre attori era evidentemente molto rigida18 (altrimenti, data la sua evidente ‘scomodità’, sarebbe stata infranta molto più spesso), perciò il dramma avrebbe dovuto, fatalmente, proseguire con due soli attori a disposizione.

Probabilmente in molti casi non era possibile portare fuori in qualche modo il cadavere e ‘liberare’ l’attore senza sacrificare la naturale scorrevolezza della trama. Spesso, anzi, il cadavere doveva rimanere in scena come oggetto di dispute e riflessioni da parte degli altri personaggi. La soluzione più semplice era non mostrare il momento della morte ma portare in scena, in un secondo momento, un fantoccio che rappresentasse il cadavere. In Eschilo, ad esempio, una spiegazione di questo tipo potrebbe essere calzante per i casi dell’Agamennone e delle Coefore19

:

- nell’Agamennone20 udiamo Agamennone gridare dall’interno a 1343-5, e anche Cassandra viene uccisa all’interno della reggia. Il primo attore recitava sicuramente solo la parte di Clitemestra, dato che essa è presente

17

SOMMERSTEIN 2004.

18 Ciò varrebbe soprattutto per i drammi di Sofocle e Euripide, in cui l’uso dei tre attori si era

ormai stabilizzato.

19 Ricordiamo che, nell’Orestea, l’uso del terzo attore è già ben sviluppato.

20 Cfr. D

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10 sulla scena, di volta in volta, contemporaneamente all’araldo, ad Agamennone, a Cassandra e a Egisto. Anche Agamennone e Cassandra, entrambi presenti sul carro, saranno stati impersonati da due attori diversi. Dopo 1345-5 compaiono in scena soltanto Clitemestra ed Egisto, e sicuramente il ruolo di Egisto doveva essere ricoperto dal secondo o dal terzo attore; ma se Agamennone e Cassandra fossero stati uccisi in scena non sarebbe rimasto nessun attore disponibile;

- nelle Coefore21 sentiamo gridare Egisto al v. 869 e, in seguito, compaiono in scena il servo, Clitemestra, Oreste e Pilade. Anche in questo caso il primo attore impersonava sicuramente Oreste (nel corso del dramma lo troviamo in scena insieme a Elettra, a Clitemestra e al servo); ai vv. 875-886 Clitemestra e il servo dialogano tra loro, quindi tutti e tre gli attori sono necessariamente impegnati dopo la morte di Egisto22. Anche in questo caso, dunque, la morte in scena sarebbe stata di impedimento al regolare svolgimento del dramma; - questo criterio non vale, tuttavia, per la morte di Clitemestra nelle Coefore:

Oreste la trascina nel palazzo per ucciderla dopo il v. 930, e dopo lo stasimo ricompare solamente Oreste con i due cadaveri. In questo caso, dunque, non c’era necessità di riutilizzare l’attore.

3.2. TIPI DI MORTE DIFFICILMENTE RAPPRESENTABILI

Pathmanathan23 nota che un altro impedimento di tipo ‘pratico’ poteva derivare da quei tipi di morte che risultavano, effettivamente, difficilmente rappresentabili per svariati motivi. Egli individua dunque una serie di ragioni ‘interne’ che, di volta in volta, possono giustificare il fenomeno:

- la morte avviene in un luogo lontano24;

21 Cfr. D

I BENEDETTO-MEDDA 1997, PP.218-219.

22 Sicuramente si sarà reso necessario un repentino cambio d’abito: Egisto entra nel palazzo

dopo il v. 854, il servo appare a 875 e Clitemestra a 885. È probabile che il terzo attore svolgesse il ruolo di Egisto e del servo.

23 P

ATHMANATHAN 1965.

24 Come è noto il cambio di scena, data anche la presenza costante del coro, è un procedimento

raro in tragedia. Ciò che avviene altrove, perciò, deve essere necessariamente narrato da un messaggero.

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11 - il tipo di morte prescelto comporterebbe mutilazioni o un eccessivo

spargimento di sangue;

- la morte è di tipo ‘miracoloso’ o è ‘falsa’25;

- portando la vittima all’interno dell’edificio si ritarda momentaneamente la morte, creando suspence;

- la morte deve rimanere segreta al coro e agli altri personaggi o deve avvenire per mezzo di un agguato e si teme che il coro possa avvisare la vittima.

I singoli casi, chiaramente, possono ricadere sotto più categorie contemporaneamente.

Nel caso di Eschilo, notiamo come spiegazioni di questo tipo si adattino perfettamente ai Sette, dato che la battaglia presso le porte avviene lontano dall’acropoli dove è ambientato il dramma.

Non in tutti i casi, tuttavia, motivazioni di questo tipo sono valide. Infatti l’intenzione di Oreste di uccidere la madre nelle Coefore è chiara, e l’effetto di suspence risulterebbe abbastanza debole; inoltre non sarebbe stato difficile rappresentare a livello pratico, in qualche modo, il delitto. Sicuramente questioni puramente materiali hanno profondamente influito sulla scelta di non mostrare il momento della morte dei personaggi tragici, ma l’altissima incidenza di questo fenomeno porta a pensare che esistano anche motivazioni più profonde, tali da renderlo, fatta eccezione per casi particolari che esamineremo in seguito, una vera e propria ‘convenzione’.

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12

4. Motivi religiosi

Sembra che tale ‘convenzione’ coinvolgesse non solo la morte dei personaggi a anche la pratica dei sacrifici. Nonostante la riluttanza a mettere in scena uccisioni e sacrifici, tuttavia, è innegabile che nella vita dell’uomo greco i sacrifici fossero una pratica del tutto naturale26. La loro diffusione non solo in Grecia ma in tutto il mondo antico ha origini assai remote. Essa nasce infatti dalla pratica della caccia: spesso presso i cacciatori primitivi la caccia si collegava a riti religiosi, e il sacrificio stesso richiama molti elementi della caccia. Uccidere è necessario per nutrirsi, ma il ‘senso di colpa’ che ne deriva può venire alleviato ritualizzando l’atto violento, offrendo parte della preda al dio e banchettando con il resto. Il sacrificio, nella società primitiva, aveva anche il compito di incanalare e razionalizzare l’aggressività collettiva e di creare nette distinzioni gerarchiche tramite la divisione dei compiti all’interno del rito. In seguito, con il passaggio all’agricoltura, l’animale sacrificato non fu più selvatico ma domestico e accompagnato da offerte di primizie; al tema della dialettica tra morte e vita venne così ad aggiungersi quello del piacere legato alla consapevole e serena rinuncia al cibo offerto al dio. Il rito sacrificale, a sua volta, si lega strettamente al rito funebre.

Perché, allora, bandire dalla scena non solo la morte ma anche il sacrificio, così diffuso nella vita comune dell’uomo greco e, come abbiamo visto, dotato di profondissime radici? Secondo molti studiosi27 alla base del fenomeno possiamo rintracciare un tabù religioso, legato da un lato al rispetto nei confronti di Dioniso, che presiedeva alla rappresentazione dei drammi, e dall’altro alla consapevolezza da parte dei Greci che la morte in generale era fonte di contaminazione. Esaminiamo, dunque, queste due chiavi di lettura.

4.1. LA MORTE E GLI DEI

In diversi casi notiamo che gli dei, esseri immortali, si preoccupano di evitare il contatto con la morte e di mantenere, di conseguenza, la propria purezza28. Gli

26 Cfr. B

URKERT 1981 e GUÉPIN 1968.

27 Cfr. e.g. S

OMMERSTEIN 2004.

28 Ciò costituiva, naturalmente, una differenza rispetto alle divinità legate all’aldilà, come

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13 Ateniesi prestavano particolare attenzione alla purezza di Apollo e Artemide e dell’isola di Delo; è interessante notare che, in risposta alla peste, gli Ateniesi purificarono l’isola.

Alcuni passi tragici29 sono a questo proposito particolarmente significativi. Ne emerge che gli dei evitano il contatto con la morte, nonostante godano dei sacrifici30, e i personaggi euripidei sembrano ben consapevoli di questa verità31. Gli uomini sono necessariamente sottoposti alla morte, gli dei no; questa è la differenza fondamentale tra uomini e dei, e gli dei tendono di conseguenza ad evitare il contatto con la morte.

E. Alc. 19-2332 (parla Apollo): ἣ νῦν κατ’οἴκους ἐν χεροῖν βαστάζεται ψυχορραγοῦσα· τῆιδε γάρ σφ’ἐν ἡμέραι 20 θανεῖν πέπρωται καὶ μεταστῆναι βίου. ἐγὼ δέ, μὴ μίασμά μ’ἐν δόμοις κίχηι, λείπω μελάθρων τῶνδε φιλτάτην στέγην. 29 Cfr. PARKER 1983.

30 Ovviamente il passo della Pace, vv. 1017 segg. (ed. Olson 1998), non costituisce

un’eccezione: è naturale che la dea Pace non ami i sacrifici di sangue. λαβὲ τὴν μάχαιραν. εἶθ’ὅπως μαγειρικῶς σφάξεις τὸν οἶν. Οἰ. β’ ἀλλ’οὐ θέμις. Τρ. τιὴ τί δή; Οἰ. β’ οὐχ ἥδεται δήπουθεν Εἰρήνη σφαγαῖς, οὐδ’αἱματοῦται βωμός. Τρ. ἀλλ’εἴσω φέρων θύσας τὰ μηρί’ἐξελὼν δεῦρ’ἔκφερε, χοὔτω τὸ πρόβατον τῷ χορηγῴ σῴζεται.

Traduzione di G. Paduano: (TRIGEO) Tutto ciò, veneranda, concedi alle nostre preghiere. Prendi il coltello e sgozza da buon cuoco la pecora. SERVO: Non è lecito. TRIGEO: E perché mai? SERVO: Perché la Pace non ama le uccisioni, il suo altare non si arrossa di sangue. TRIGEO: Riportala dentro, e dopo averla immolata togli le cosce e portale qui: così resta buona per il corego.

31

Cfr. anche E. IT 380-391 (traduzione di F. Ferrari): ‘No, per me sono sottigliezze assurde: lei, se qualcuno tocca del sangue o puerpera donna o un morto, gli vieta di accostarsi ai suoi altari perché lo considera contaminato, ma poi lei stessa gode di umani sacrifici. Non è possibile che tanta stolidità sia discesa da Leto, la compagna di Zeus. […] Nessun nume, a giudizio mio, può essere immorale’.

32 Ed. S

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14

Ed ora nel palazzo è sollevata sulle braccia, agonizzante; infatti in questo giorno è destino che muoia e abbandoni la vita. Ed io, per non contaminarmi nella casa, abbandono il caro tetto di questa dimora.

E. Hipp. 1437-933 (parla Artemide): καῖ χαῖρ’· ἐμοὶ γὰρ οὐ θέμις φθιτοὺς ὁρᾶν οὐδ’ὄμμα χραίνειν θανασίμοισιν ἐκπνοαῖς· ὁρῶ δέ σ’ἤδη τοῦδε πλησίον κακοῦ.

Addio: poiché a me non è lecito guardare i morti né contaminare il mio occhio con respiri di morte. E vedo che ormai tu sei vicino a questo male.

4.2. MORTE E CONTAMINAZIONE NELLA RELIGIONE GRECA

Sommerstein34 osserva che:

Tragedy talks incessantly about killing but never shows us (a simulation of) the act itself, though it can come very close to doing so. In precisely the same way, comedy, especially Old Comedy, talks incessantly about sex – but never shows us (a simulation of) the act itself, though, again, it can come very close to doing so. Sex and killing (including suicide) could both cause ritual pollution […], and both were prohibited in sanctuaries (as was childbirth); when we find that (simulations of) both are also avoided in drama – which was performed in a sacred place, during a festival, and in the presence of the god’s image, altar, and priest – the likeliest explanation is that we are dealing with an extension of this taboo. How deeply entrenched it was is well exemplified by a passage in Aristophanes’ Frogs (1079-82) where, in a catalogue of the shocking immoralities of Euripidean drama, ‘giving birth in temples’ is given precedence over brother-sister incest.

Dunque alla base del fenomeno c’è anche la paura della contaminazione: la nascita e la morte, nonostante siano gli eventi più naturali dell’intera vita umana, erano considerati dai Greci come fonte di contaminazione35 (a tal punto che era considerato sacrilegio nascere e morire nei templi). Probabilmente questo timore

33 È da notare, d’altro canto, che proprio Ippolito e Alcesti sono probabilmente gli unici

personaggi che effettivamente muoiono sulla scena. Il testo è citato da HELLERAN 1995.

34 S

OMMERSTEIN 2004, p. 47.

35 P

ARKER 1983 attribuisce ciò al fatto che la nascita e la morte, propria o altrui, sono enormi cambiamenti che, piombando addosso all’uomo indipendentemente dalla sua volontà, ne sconvolgono irrimediabilmente l’esistenza.

(15)

15 giocò un ruolo importante nella scelta di non mostrare la morte in scena: in tragedia il pubblico non deve assistere al colpo fatale.

Per i Greci la morte contaminava non solo il cadavere36, che necessitava di lavacri e purificazioni rituali, ma anche la casa37, coloro che erano entrati in contatto con il corpo, i familiari in generale e, in caso di morte in luogo pubblico, la comunità stessa. L’entità della contaminazione poteva variare a seconda del tipo di morte: essa era di poco conto, ad esempio, nel caso di un soldato morto in battaglia. Inoltre le tombe di eroi fondatori o benemeriti nei confronti della città non erano poste fuori dalle mura in virtù dei loro meriti in vita. Anche un corpo insepolto provoca contaminazione, ed è possibile che alla base di simili credenze siano rintracciabili anche semplici norme igieniche.

Tuttavia agli occhi dei Greci il pericolo più grande, come abbiamo visto, era quello che derivava dall’eventuale esposizione degli dei alla contaminazione. Parker38 afferma:

In Greek belief these pollutions had a further special application, their role in separating gods and men. […] While in most tribal societies it is the protection of fellow humans against these natural pollutions that is the main concern, in Greece real danger seems only to occur if the gods are exposed to them. […] The exclusion from the sacred is no doubt in origin, as we have seen, simply an exclusion from social life in its festive forms; […] it certainly comes to seem, however, as if the real barrier that pollution sets up is not between man and man but between man and gods. By banning birth, death, and also sexuality from sacred places, the Greeks emphasize the gulf that separates the nature of god and man.

36 Cfr. P

ARKER 1983.

37 Fuori dalla porta veniva posto un contenitore pieno d’acqua per permettere a chi usciva di

purificarsi.

38 P

(16)

16

5. Eccezioni alla regola?

5.1. IL CASO DELL’AIACE DI SOFOCLE

L’Aiace di Sofocle sembra rappresentare un’eccezione all’interno del panorama che abbiamo finora descritto: i momenti che precedono immediatamente il suicidio dell’eroe non vengono narrati da un messaggero o da un altro personaggio, bensì sono mostrati sulla scena. La questione ha suscitato infiniti dibattiti: gli spettatori assistevano anche al momento del suicidio o Aiace scompariva dalla vista, in qualche modo, subito prima dell’atto fatale? Il problema, ancora aperto, è particolarmente complesso poiché implica anche prese di posizione da parte degli studiosi su eventuali cambi di scena all’interno del dramma e sul modo in cui veniva realizzata la successiva apparizione del cadavere.

L’argomento richiederebbe una trattazione a sé ed esula dal nostro argomento39; è interessante tuttavia notare che la forte carica innovativa della scena era percepita con chiarezza già dall’autore dello scolio al v.815:

Schol. S. Aj. 815a 4-1040: ἔστι δὲ τὰ τοιαῦτα παρὰ τοῖς παλαιοῖς σπάνια· εἰώθασι γὰρ τὰ πεπραγμένα δι’ἀγγέλων ἀπαγγέλλειν. τί οὖν τὸ αἴτιον; φθάνει Αἰσχύλος ἐν Θ ρ ῄ σ σ α ι ς τὴν ἀναίρεσιν Αἴαντος δι’ ἀγγέλου ἀπαγγείλας. ἴσως οὖν καινοτομεῖν βουλόμενος καὶ μὴ κατακολουθεῖν τοῖς ἑτέρου <ἴχνεσιν>, ὑπ’ ὄψιν ἔθηκε τὸ δρώμενον ἢ μᾶλλον ἐκπλῆξαι βουλόμενος. εἰκῇ γὰρ κατηγορεῖν ἀνδρὸς παλαιοῦ οὐχ ὅσιον οὐδὲ δίκαιον.

Tali cose sono rare presso gli antichi: infatti sono soliti annunciare tramite messaggeri ciò che è stato fatto. Dunque qual è il motivo? In precedenza Eschilo nelle Donne di Tracia aveva annunciato la morte di Aiace per mezzo di un messaggero. Perciò forse, poiché voleva innovare e non seguire da vicino le orme dell’altro, pose sotto lo sguardo (sc. del pubblico) Aiace che agiva, o forse piuttosto poiché voleva sbalordire. Infatti accusare a casaccio un uomo antico non è cosa santa né giusta.

Lo scoliaste, dopo aver commentato il cambio di scena (sul quale non sembra nutrire dubbi), parla del modo in cui Sofocle tratta la morte dell’eroe avanzando due spiegazioni (che, tra l’altro, sembra considerare entrambe valide senza che si escludano necessariamente a vicenda):

39 Per una panoramica sui problemi scenici sollevati dall’Aiace cfr. M

EDDA 2013, pp. 25-51, e la relativa bibliografia.

40 Il testo riportato è quello di C

(17)

17 - Eschilo nelle Donne di Tracia aveva trattato il suicidio di Aiace in modo tradizionale, affidandone il racconto a un messo41, e Sofocle sentiva l’esigenza di innovare rispetto al predecessore;

- al tempo stesso l’autore ricerca l’ἔκπληξις; questa seconda spiegazione si colloca quindi ad un livello puramente estetico ed implica una visione simile a quella di Orazio (vv. 180-181).

Chiaramente le spiegazioni fornite dallo scoliaste, in quanto di epoca più tarda, non riflettono necessariamente la sensibilità del pubblico originario: egli si trova a cercare una spiegazione per un procedimento insolito e non si pone troppe domande su come, a livello scenico, la scena del suicidio potesse essere effettivamente realizzata. L’importanza di questo scolio, dunque, risiede non nelle motivazioni da lui fornite ma nel fatto che anche lo scoliaste, nonostante conoscesse probabilmente molte più tragedie di noi, percepisse ugualmente la scena del suicidio come innovativa. Tale novità rimarrebbe forte anche nel caso in cui il momento stesso del suicidio non fosse visibile; nell’Aiace si accumulano comunque procedimenti scenici inusuali (l’eventuale cambio di scena, il monologo del personaggio subito prima della morte e, forse, il suicidio in scena), tanto che già lo scoliaste sentiva il bisogno di giustificarli.

L’Aiace, insomma, potrebbe effettivamente rappresentare un’eccezione notevole rispetto alla consuetudine: se Aiace si trafiggesse con la spada sulla scena si tratterebbe, all’interno del panorama offerto dai drammi conservati, dell’unico caso in cui il colpo mortale viene inflitto davanti agli occhi degli spettatori e un eventuale taboo ne risulterebbe irrimediabilmente infranto, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa.

Tuttavia non possiamo essere certi che le cose stessero in questi termini. Molti studiosi, anzi, hanno proposto ricostruzioni che non prevedono la morte in

41 Alcuni scoli all’Aiace di Sofocle ci informano che anche nel dramma eschileo veniva trattato

il suicidio di Aiace, narrato da un messaggero. Aiace, invulnerabile in quanto da bambino era stato coperto da Eracle con una pelle di leone, riesce ad uccidersi solo grazie a una dea che gli indica l’unico punto vulnerabile del suo corpo. Cfr. l’edizione di SOMMERSTEIN 2008.

(18)

18 scena di Aiace42 (egli potrebbe gettarsi sulla spada cadendo dietro la skené o un qualche elemento scenico come un cespuglio, così che l’atto in sé del suicidio rimarrebbe nascosto all’ultimo momento). In assenza di prove sicure nell’una o nell’altra direzione, non possiamo fare altro che sospendere il giudizio e tener conto che esiste la possibilità che in questo dramma la consuetudine venisse infranta; in tal caso l’idea stessa dell’esistenza di un tabù dovrebbe essere abbandonata o quantomeno rivista, ma allo stadio attuale non disponiamo di prove sicure che ci costringano a ciò. L’Aiace rimane in ogni caso un dramma eccezionale dal punto di vista degli espedienti scenici, come notava già lo scoliaste; non è dato sapere, tuttavia, se l’inventiva di Sofocle si spinse addirittura a mostrare in scena la morte in scena di Aiace.

5.2. IL CASO DELLE SUPPLICI DI EURIPIDE

Non sappiamo se il suicidio di Evadne (che si getta sulla pira del marito al v. 1071) fosse visibile, né, in caso affermativo, in che modo la scena fosse rappresentata. Molti43 sostengono che l’attore si gettasse da un punto sopraelevato ed atterrasse dietro la skené; in questo modo il momento esatto della morte rimarrebbe nascosto, come nel caso dell’Aiace.

5.3. I CASI DELL’ALCESTI E DELL’IPPOLITO DI EURIPIDE

Gli unici casi in cui possiamo affermare con una certa sicurezza che la morte di un personaggio era visibile sono l’Alcesti e l’Ippolito, entrambi euripidei. Esaminiamo brevemente questi casi particolari, per poi trarre alcune conclusioni sul fenomeno generale del trattamento della morte in tragedia.

42 Per una trattazione recente del problema cfr. gli atti (di prossima pubblicazione) del

convegno Staging Ajax’s suicide, 7-9 novembre 2013, Scuola Normale Superiore, Pisa.

43 Cfr. e.g. A

RNOTT 1962 e SOMMERSTEIN 2004; l’ipotesi è ripresa anche da Morwood nel suo recente commento del 2007 alle Supplici.

(19)

19

5.3.1. Alcesti

Alcesti muore in scena (v. 391), ma il cadavere viene probabilmente portato all’interno dell’edificio44

(v. 434) per compiere il rito e ricompare al v. 606 per la processione funebre. Sicuramente l’attore che interpretava Alcesti, una volta giunto al riparo dagli occhi degli spettatori, veniva sostituito con un fantoccio ed era in grado di rientrare in scena al v. 475 nei panni di Eracle; non ci sono, dunque, impedimenti dal punto di vista scenico.

5.3.2. Ippolito

Anche in questo caso la morte in scena del personaggio non creava problemi dal punto di vista pratico: Ippolito muore a soli 8 versi dalla fine del dramma e non c’è la necessità di reimpiegare l’attore per altri ruoli. Il desiderio di Artemide di allontanarsi (cfr. il passo citato sopra), in ogni caso, mostra che la scena era comunque avvertita come eccezionale.

La morte di Ippolito e Alcesti, dunque, non comportava problemi dal punto di vista pratico; inoltre è da notare che in entrambi i casi gli spettatori non vedevano il personaggio nel momento in cui riceveva un colpo mortale; sembra dunque che il tabù, più che la morte in scena di per sé, riguardasse l’atto violento che provoca la morte.

5.4. I FRAMMENTI DELLA NIOBE DI SOFOCLE

Particolarmente problematico è anche il caso della Niobe di Sofocle45, un dramma che ci è pervenuto solo in scarsi frammenti. È probabile che i figli maschi di Niobe venissero uccisi durante una battuta di caccia sul Citerone, della quale parla anche l’hypothesis (anch’essa, purtroppo, giuntaci con una notevole lacuna), e la loro morte venisse narrata da un messaggero, mentre le figlie venivano uccise nel palazzo.

44 Cfr. il commento di Dale del 1954: probabilmente i vv. 476-550 (la scena con Eracle e

Admeto) non vengono recitati in presenza del cadavere.

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20 Il fr. 448 (ed. Lloyd-Jones), tuttavia, complica la situazione: Plutarco afferma che nella Niobe sofoclea uno dei figli chiama il suo amante in soccorso. L’appello del giovane, riportato da Plutarco, potrebbe far pensare che in realtà i figli maschi fossero uccisi sulla scena; non è tuttavia da escludere che uno dei giovani venisse portato in scena morente, in modo simile a quanto accade con Ippolito, così che il pubblico non assistesse al colpo mortale.

Anche la morte delle figlie avveniva sicuramente fuori dalla portata degli spettatori: nel fr. 441a (edizione Lloyd-Jones) Apollo nell’incitare Artemide a colpire fa riferimento a una ragazza che si trova ‘dentro’ (ἔσω v. 4), perciò è possibile che Artemide sparasse le frecce dall’esterno così da colpire le ragazze rifugiatesi all’interno dell’edificio e visibili a lei ma non agli spettatori. Ciò sarebbe confermato dalla hypothesis, secondo cui la dea ‘colpisce le fanciulle nella casa’ (τὰς κατ’οἶκον κόρας ἐτόξευσεν).

Lo stato estremamente frammentario del testo non rende possibili ricostruzioni sicure, ma è interessante notare che anche in questo caso possiamo ipotizzare che il colpo mortale non fosse direttamente visibile.

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21

5. Conclusioni

In conclusione, le motivazioni del fenomeno possono essere molteplici e non necessariamente si escludono a vicenda. Sicuramente in molti casi entravano in gioco questioni pratiche legate sia alla rappresentazione della morte sia al trattamento del cadavere, e a ciò si aggiungevano motivazioni di tipo religioso. I tragediografi, in ogni caso, seppero sfruttare al meglio le possibilità aperte da questa pratica, inserendo la narrazione della morte dei personaggi nella più ampia categoria dei ‘discorsi dei messaggeri’ e declinandola in mille sfumature per creare effetti di orrore e partecipazione emotiva nel pubblico.

Probabilmente a partire da un certo momento si cominciò ad avvertire questa convenzione come tradizionale e come parte delle ‘regole’ del genere; ciò contribuì senz’altro al suo mantenimento nel tempo.

Come considerare, dunque, i casi dell’Alcesti e dell’Ippolito? Una prima spiegazione potrebbe risiedere nel fatto che la morte di Alcesti non è definitiva (la donna verrà strappata alla morte da Eracle), mentre quella di Ippolito non è provocata dagli uomini ma dagli dei stessi, per mezzo del mostro inviato da Posidone. Inoltre in nessuno dei due casi assistiamo ad un atto violento che provochi direttamente la morte del personaggio: in entrambi i casi, come nota Sommerstein46, ‘the title character is brought on stage dying from the effect of an act of god that we have not seen actually take place’: ciò che realmente viene evitato, sia nell’Alcesti sia nell’Ippolito, è la visione dell’evento che provoca la morte, di cui l’apparire in scena del personaggio morente è solo una conseguenza. Spiegazioni analoghe, come abbiamo visto, potrebbero valere anche per la Niobe di Sofocle.

46 S

(22)

22

Capitolo secondo

Sette contro Tebe

1. La parte finale del dramma (vv. 719-1078)

1.1. RIASSUNTO DELLA TRAMA SECONDO IL TESTO

TRADITO

Dopo il v. 719 Eteocle è uscito di scena per recarsi al luogo dello scontro e il coro esprime la sua preoccupazione per la maledizione che grava sulla stirpe di Edipo: ripercorrendo le tappe della maledizione ‘fino alla terza generazione’ (vv. 744-745), il coro teme che l’Erinni compia la sua opera e presagisce che i fratelli si uccideranno a vicenda, secondo la terribile sorte che il padre, accecatosi, aveva assegnato loro (vv. 788-790: ‘un giorno vi spartirete le ricchezze con mano che impugna il ferro’).

Al v. 792 entra il messaggero. Egli ai vv. 792-802 tranquillizza il coro sulla sorte della città: Tebe è salva, ma alla settima porta la maledizione si è avverata. Ai vv. 803-820, in uno scambio tra il messaggero e il coro, emerge la verità: Eteocle e Polinice sono morti. Il demone è stato equo con entrambi nello spartire l’eredità ai fratelli: ciascuno avrà la terra per il sepolcro.

Intorno al v. 820 il messaggero esce di scena; il coro non sa se esultare per la salvezza della città o piangere per la morte dei due fratelli. Ai vv. 847 segg. il coro vede entrare in scena i due cadaveri e si appresta a dare inizio al lamento.

Al v. 861, secondo il testo tradito, viene annunciato l’arrivo di Antigone e Ismene, sorelle di Eteocle e Polinice, che giungono per compiere l’ufficio funebre. Il coro desidera, prima che il lamento delle sorelle abbia inizio, innalzare un inno rivolgendosi direttamente ai morti. Ai vv. 961-974, secondo i manoscritti, le sorelle si alternano nel rivolgere il loro lamento ai fratelli, per poi proseguire fino al v. 1004 accompagnate dal coro.

Dopo il v. 1004 arriva l’araldo; egli annuncia la decisione dei magistrati di seppellire Eteocle (che è morto per difendere la città) ma non Polinice (che ha assalito in armi la sua città e pertanto deve essere lasciato in balia dei cani). Ai vv. 1026-1041 Antigone, ribellandosi alla volontà dei magistrati, dice che seppellirà

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23 Polinice da sola, in nome della comunanza di sangue. Ai vv.1042- 1053 Antigone e l’araldo si scontrano verbalmente, rimanendo entrambi fermi sulle proprie posizioni. L’araldo esce di scena e il dramma si chiude con il coro che, ai vv. 1054-1078, dopo un’esitazione iniziale si divide in due semicori che accompagnano, rispettivamente, i due fratelli alla sepoltura.

1.2. IL PROBLEMA DELL’AUTENTICITÀ DEL FINALE

47

Per lungo tempo l’opinione comune fu che i Sette costituissero il secondo dramma della trilogia; la pubblicazione nel 1848 della didascalia del codice Mediceo, tuttavia, smentì questa convinzione indicando il nostro dramma come terzo dopo il Laio e l’Edipo. Questa nuova informazione suscitò forti perplessità negli studiosi: il finale della trilogia, così come ce lo presentano i mss., non giunge ad un nuovo (seppur doloroso) equilibrio, bensì solleva all’ultimo momento il problema della sepoltura e lo lascia in sospeso, senza mostrarne al pubblico gli sviluppi successivi. Il finale tradito rende dunque il dramma fortemente sbilanciato: la vicenda rimane ‘mutila’ e il senso di frustrazione che ne deriva non è compensato, come invece si riteneva prima della scoperta della didascalia, da un dramma successivo.

Gran parte degli editori48, a partire da Wilamowitz49, ritiene quindi che il finale abbia subito pesanti interventi da parte di un interpolatore che conosceva l’Antigone di Sofocle e desiderava inserire nei Sette, probabilmente in occasione di una nuova rappresentazione, dei riferimenti che collegassero la vicenda a quella del famosissimo dramma sofocleo. Ovviamente non è possibile dimostrare con certezza né l’autenticità né, al contrario, l’inautenticità di questi versi; la seconda scelta sembra tuttavia la più plausibile, e anche noi seguiremo questa linea di pensiero ai fini della nostra analisi. Ripercorriamo quindi brevemente i problemi principali posti dal finale (oltre a quello, già menzionato, della questione della sepoltura lasciata irrisolta):

47 La bibliografia sull’argomento è assai vasta; cfr. e.g. S

OMMERSTEIN 2008 (pp. 147-148), THALMANN 1978 (pp. 137-141), TAPLIN 1977(pp. 169-191), BROWN 1976, DAWSON 1970 (pp. 22-25), DAWE 1967, LLOYD-JONES 1959.

48 Tuttavia alcuni difendono il testo tradito; è memorabile, in tal senso, il lungo articolo di

LLOYD-JONES 1959.

(24)

24 - Il diverso destino che i magistrati stabiliscono per Eteocle e Polinice stride con il tema, precedentemente enfatizzato, dell’uguaglianza che la morte aveva riportato tra i due fratelli (cfr. vv. 810 segg.).

- Il modo in cui le due sorelle vengono introdotte in scena non appare del tutto soddisfacente50: il coro dice che le sorelle sono evidentemente giunte per compiere il lamento funebre sui fratelli, ma poi aggiunge, apparentemente senza motivo, che è giusto che sia il coro stesso a cantare per primo. A quel punto il coro inizia effettivamente il lamento e le sorelle rimangono in silenzio per lungo tempo. I mss. assegnano alle sorelle la stichomythia dei vv. 961-1004, che probabilmente nella stesura originaria era assegnata a parti diverse del coro; è possibile che l’interpolatore anticipi l’ingresso delle sorelle a 861 per non interrompere la sequenza del lamento, ma il loro silenzio rimane in tal modo immotivato e ben diverso dai silenzi ricchi di significato che Eschilo ama sfruttare nei suoi drammi51.

Considerare interpolati i vv. 861-87452 ci permette di ripristinare una migliore consequenzialità logica all’interno delle parole del coro: i cadaveri appaiono in scena53 e all’invito ad abbandonarsi al ‘vento dei gemiti’ (v. 854) segue immediatamente il canto di dolore che culmina nella stichomythia (cfr. A. Pers., che si chiudono con una struttura simile). La suggestiva immagine dei vv. 854-860 diventa quindi l’introduzione al lamento, senza l’intermezzo che introduce le sorelle.

- Inoltre fino al v. 861 non c’è nel dramma nessun indizio del fatto che Eteocle e Polinice abbiano delle sorelle (né i loro nomi compariranno di nuovo dopo la loro presentazione); fino a quel momento sembrava, anzi, che la stirpe di Laio dovesse estinguersi completamente con la morte di Eteocle e Polinice (cfr. vv. 690-1, 813, 877, 881-2, 951-5) e che la maledizione cessasse con la fine della famiglia. Tebe, finalmente, dovrebbe essere salva.

- Il finale pone dei problemi anche per quanto riguarda il numero degli attori: fino a quel momento ne erano previsti solo due (Eteocle e il messaggero),

50

Cfr. BROWN 1976 e THALMANN 1978.

51 Cfr. T

APLIN 1977, p. 179.

52 Per i problemi linguistici sollevati dai vv. 861-74 cfr. B

ROWN 1976.

53 T

APLIN 1977,p. 177 nota tra l’altro che l’anomalia creata dalla sequenza, presente nel testo tradito, di due annunci di ingresso (quello dei cadaveri e quello delle sorelle).

(25)

25 come accade nei primi drammi eschilei, ma nella scena finale gli attori (senza contare i due cadaveri, per i quali potevano venire usati dei fantocci) dovevano essere tre. Se il finale fosse autentico, dunque, ci troveremmo di fronte ad un uso assai precoce del terzo attore54.

- Anche le parole dell’araldo creano perplessità: la sua opposizione ad Antigone non è decisa e violenta come ci aspetteremmo. Inoltre l’inatteso riferimento a ‘magistrati’ (il cui ordine, peraltro, rimarrà inadempiuto) di cui nulla era stato detto in precedenza ha creato non poche perplessità tra gli studiosi.

Riassumiamo dunque la situazione del testo tradito, evidenziando quali versi vengono solitamente ritenuti non autentici:

- 822-831 sono stati sospettati (ad esempio da Dawe e Thalmann) sulla base di motivi metrici, linguistici e di contenuto. Tuttavia il tema dell’incertezza tra gioia e pianto può ben introdurre il lamento;

- 861-874, in cui il coro annuncia l’ingresso di Antigone e Ismene, sono molto probabilmente interpolati;

- 961-1004 sono verosimilmente autentici, ma devono essere assegnati a sezioni del coro invece che alle sorelle. Fanno forse eccezione 973-4 (fortemente interpolati, e forse contenenti un riferimento alle sorelle) e 996-997, che meglio si adattano ad essere stati ideati per Antigone e Ismene piuttosto che per il coro. Il confine tra ciò che è originario e ciò che non lo è appare dunque assai labile e incerto;

- 1005-53, in cui troviamo lo scontro tra Antigone e l’araldo, sono probabilmente non autentici;

- 1054-1078 creano invece qualche incertezza. Per alcuni (come Dawson e Brown) questi versi potrebbero contenere, sebbene oscurate dagli interventi dell’interpolatore, tracce di un’originaria divisione del coro in due semicori

54 Le sorelle entrano al v. 861 e, a partire dal v. 961, pronunciano la sticomitia. Ismene

pronuncia la sua ultima battuta al v. 1003 e l’araldo inizia a parlare al v. 1005; il testo non fornisce nessun valido motivo per cui Ismene sarebbe dovuta uscire di scena, e inoltre non avrebbe avuto il tempo per cambiarsi e rientrare nei panni dell’araldo.

(26)

26 (senza, tuttavia, la disputa sulla sepoltura di Polinice55) per accompagnare alla sepoltura i due cadaveri: con l’esaurirsi della stirpe la contesa tra i fratelli è venuta meno, ed entrambi hanno diritto alla loro lugubre eredità. Altri ritengono invece che anche questi versi siano interpolati, e che quindi il testo originario a noi pervenuto termini con il v. 1004.

È probabile che alcuni versi conclusivi originari siano andati perduti a causa della pesante opera di rielaborazione subita dal finale del dramma. Secondo Sommerstein56, tuttavia, probabilmente i versi perduti sono in realtà ben pochi. Ai vv. 1002-1004 si discute su dove seppellire i cadaveri; è possibile che il dramma si chiudesse con una proposta alternativa alla sepoltura vicino al padre e che il coro (insieme o diviso in due metà, a seconda di come consideriamo i vv. 1066 segg.) scortasse i corpi.

55 B

ROWN 1978 ritiene invece che il discorso dell’araldo e gli anapesti finali siano autentici: a suo parere occorre solo eliminare il riferimento ad Antigone, ma il problema della sepoltura era presente fin dall’inizio. Per una processione a chiusura del dramma cfr. Persiani (che terminano con la decisione del coro di scortare Serse) ed Eumenidi.

56

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2. La preparazione dell’apparizione del cadavere

La comparsa in scena di un cadavere può essere preparata in vari modi; nei Sette tale percorso, come vedremo, è particolarmente significativo per la comprensione dei nuclei di significato che ruotano intorno al personaggio e che ne segnano l’identità e le caratteristiche all’interno del dramma da vivo e da morto.

Nei Sette la morte di Eteocle e Polinice costituisce infatti il fulcro dell’intera vicenda; attorno a questo evento fondamentale ruotano una serie di momenti che scandiscono l’andamento dell’ultimo terzo del dramma e trovano il loro estremo compimento proprio nella presenza in scena dei cadaveri nel finale. Nonostante il momento della morte non sia di per sé visibile sulla scena, esso è preparato fin dall’uscita di Eteocle (che segna il proprio destino di morte nel momento stesso in cui decide di recarsi al luogo dello scontro) e dalla paura del coro che già teme un esito doloroso della battaglia. Intanto la morte dei fratelli si è compiuta: essa è testimoniata prima da un messaggero e poi, in modo ancora più inequivocabile, dall’arrivo dei cadaveri. La presenza dei corpi suscita infine il lamento irrefrenabile del coro, con il quale si chiude il dramma.

Questi momenti, che esamineremo singolarmente, possono essere schematizzati nel modo seguente:

A) v. 719: uscita del personaggio verso il destino di morte;

B) vv. 720-91: il coro esprime la propria paura a causa della partenza del personaggio: si presagisce già che un evento funesto incombe;

C) vv. 792-821: discorso del messaggero;

D) v. 847: apparizione dei cadaveri, a testimonianza di ciò che il messaggero ha narrato;

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2.1. L’USCITA DI SCENA DI ETEOCLE (v. 719)

Eteocle pronuncia la sua ultima battuta al v. 719. Egli aveva chiaramente annunciato già ai vv. 672 segg. la sua intenzione di andare a fronteggiare il fratello; possiamo quindi presumere che dopo il v. 719 egli esca effettivamente di scena, nonostante il testo non annunci esplicitamente la sua partenza.

La sua uscita segna una svolta decisa nel dramma: nel momento in cui Eteocle si dirige alla settima porta la maledizione ha la meglio e si innesca un meccanismo fatale al quale non è più possibile sottrarsi, come il coro è dolorosamente costretto a constatare. Tale procedimento non è estraneo a Eschilo: anche nel caso di Cassandra (Ag. v. 1330) l’uscita di scena del personaggio, preceduta da un ultimo dialogo con il coro, è il segno concreto del compimento del suo destino di morte.

Esaminiamo adesso alcuni elementi dell’uscita di scena di Eteocle che possono gettare ulteriore luce sul ruolo che i due fratelli assumeranno quando, finalmente riuniti nella morte, verranno portati in scena.

2.1.1. Eteocle esce di scena già armato?

Ai vv. 675-76, subito dopo aver espresso la sua intenzione di affrontare Polinice in prima persona, Eteocle chiede che gli vengano portati gli schinieri. Schadewaldt57 sostiene che questi versi diano inizio ad una vera e propria scena di vestizione: nonostante i tentativi del coro di dissuadere Eteocle dal suo intento egli continuerebbe ad armarsi nel corso dei vv. 677-719, rendendo sempre più vane e disperate le parole del coro.

La questione, come vedremo, non è irrilevante ai fini del nostro lavoro: con ogni probabilità i cadaveri appariranno in scena entrambi armati e visivamente simili, perciò stabilire il momento in cui avviene la vestizione di Eteocle consente di comprendere al meglio le tappe sia dell’evoluzione del personaggio, che passa gradualmente dall’opposizione all’assimilazione al fratello, sia della preparazione dell’apparizione dei corpi. Ripercorriamo dunque brevemente gli snodi fondamentali del problema.

57 Die Wappnung des Eteokles. Zu Aischylos’ Sieben gegen Theben, in Festschrift Hommel,

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29 La vestizione del guerriero avrebbe, secondo Schadewaldt, un potente valore drammatico e diventerebbe il simbolo visivo del tragico destino di Eteocle. Infatti egli diventa potenzialmente indistinguibile (ad eccezione dello scudo) dal fratello: la maledizione lo porta inesorabilmente a divenire preda dello stesso cieco furore guerriero che anima Polinice e l’immagine di Eteocle, sempre meno umano man mano che indossa l’armatura, anticipa a livello visivo l’uguaglianza che i fratelli troveranno nella morte.

Wilamowitz riteneva che Eteocle fosse già completamente armato, con la sola eccezione degli schinieri, al momento del suo ingresso in scena; Schadewaldt nota, tuttavia, che nella tipica sequenza omerica proprio gli schinieri sono il primo elemento della vestizione.

L’ipotesi di Schadewaldt ha ricevuto il consenso di numerosi studiosi (tra cui Von der Mühll, Lesky e Dawson), ma si pone in forte contrasto con la nota tesi di Taplin secondo cui ogni elemento visivo ‘significativo’ dovrebbe trovare un riscontro, seppur minimo, nel testo del dramma. L’interpretazione della vestizione offerta da Schadewaldt è sicuramente suggestiva e la rende indubbiamente un elemento scenico rilevante, in quanto simbolo tangibile del destino della stirpe di Edipo. Perciò Taplin58 ritiene che i versi 675-76 non siano sufficienti per autorizzarci ad immaginare una vestizione completa: ci aspetteremmo piuttosto, nel corso del dialogo tra Eteocle e il coro, ulteriori inviti a portare le altre componenti dell’armatura59. A suo parere l’azione non esalterebbe il dialogo, anzi costituirebbe

un elemento di distrazione per il pubblico, ed è quindi probabile che Eteocle esca di scena disarmato e seguito da un inserviente che porti le armi.

Solo immaginando un guasto nel testo tradito, dunque, possiamo ipotizzare che Eteocle esca di scena al v. 719 completamente armato. In questo senso possiamo agire in due direzioni diametralmente opposte:

- Schadewaldt non esclude che dopo il v. 676 sia caduta una porzione di testo contenente ulteriori indicazioni sulla vestizione. Anche in questo modo, tuttavia, le tappe della vestizione non verrebbero scandite man mano dalle

58 T

APLIN 1977, pp. 158-161.

59 Taplin propone, a tal proposito, il caso di Prometeo 52 segg., dove effettivamente il testo

(30)

30 parole di Eteocle: egli chiederebbe semplicemente le armi e le indosserebbe, senza più menzionarle, durante il dialogo.

- Taplin, al contrario, nota che se non avessimo i vv. 675-76 nulla ci impedirebbe di pensare che Eteocle appaia completamente armato fin dall’inizio del dramma. Ciò, tuttavia, eliminerebbe l’efficacia dell’iniziale distinzione visiva tra i due fratelli: l’immagine di Eteocle, già nelle vesti di guerriero, non sarebbe molto diversa nella mente degli spettatori da quella del bellicoso Polinice evocata dal messaggero.

In entrambi i casi, quindi, l’idea della vestizione ‘progressiva’ nel corso del dialogo con il coro è da rigettare. Lo spunto offerto da Schadewaldt, tuttavia, può forse essere sfruttato in altro modo:

- Eteocle è disarmato nella prima parte del dramma.

- La richiesta degli schinieri (da interpretare come rappresentativi dell’intera panoplia) segna il momento della decisione fatale di affrontare il fratello: il compimento della maledizione si avvicina, ma il coro spera ancora di poterlo evitare60. La polarizzazione tra i due fratelli sta per annullarsi, come è preannunciato dalla inquietante presenza in scena delle armi, ma ciò non è ancora avvenuto. Solo quando si troveranno l’uno di fronte all’altro i due diventeranno visivamente identici, entrambi accecati dalla maledizione e rinchiusi nelle loro spersonalizzanti armature. Eteocle esce quindi di scena disarmato, ma seguito da un personaggio muto che porta le armi.

- I cadaveri, con ogni probabilità, verranno portati in scena ancora armati e terribilmente simili tra loro, rendendo ancora più pregnanti i riferimenti del coro all’equa ‘eredità’ toccata ai fratelli.

2.1.2. Il dialogo tra Eteocle e il coro (vv. 677-719): ‘uscita ritardata’

L’uscita di scena di Eteocle, come abbiamo visto, era stata già annunciata dal personaggio stesso ai vv. 672 segg. ma di fatto si realizza solo dopo il v. 719: il coro, probabilmente, lo trattiene mentre egli ha già iniziato a dirigersi verso l’uscita. Tale procedimento61 è frequente in tragedia62, ma nel caso dei Sette risulta particolarmente

60 Ai vv. 676-78, appena Eteocle chiede gli schinieri, la prima reazione del coro consiste nel

pregarlo di ‘non farsi uguale’ al fratello.

61 Definito da Taplin ‘delayed exit’: cfr. T

(31)

31 significativo. Infatti, nel momento in cui la decisione63 di Eteocle è presa e la maledizione si avvia rapidamente verso il suo compimento, i ruoli si invertono e proprio il coro, che nella prima parte del dramma era stato schernito da Eteocle per il suo sciocco e femmineo timore, tenta adesso un disperato ma lucido64 tentativo di opporsi all’accecamento (cfr. ἄτα al v. 687) che pervade il suo signore. Tale consapevolezza troverà il culmine nel lamento finale di fronte ai cadaveri, quando ormai la maledizione sarà compiuta.

Con l’uscita di scena di Eteocle, dunque, gli eventi iniziano a precipitare e si innesca definitivamente il processo che porterà alla morte dei fratelli e alla loro comparsa in scena come cadaveri. γένηι ὁμοῖος dei vv. 677-78, in effetti, anticipa già la situazione finale di equivalenza dei fratelli, non più solo emotiva ma anche visiva, e il tema della maledizione emerge in modo esplicito65.

Nel dialogo tra Eteocle e il coro troviamo inoltre già prefigurata la prossima tappa del finale dei Sette, il canto del coro (vv. 720-791) che, prevedendo ciò che accadrà, si abbandona alla paura (πέφρικα v. 720). Nell’ultimo dialogo con Eteocle il coro anticipa, anzi, alcuni dei temi che verranno sviluppati nella prima parte66 (prima coppia strofica e strofe β) del canto successivo:

- γένηι ὁμοῖος dei vv. 677-78 troverà un ulteriore sviluppo nel tema dell’eredità livellante, che ritroviamo sia nell’antistrofe α (vv. 727-733) sia nel lamento finale del dramma;

62

Cfr. e.g. Ag. 855 e 1330, Suppl. 733.

63 Non ci occuperemo, in questa sede, del problema del processo decisionale di Eteocle. Quasi

ogni studioso dei Sette ha portato il suo contributo al dibattito sull’argomento. Eteocle può essere considerato un vero e proprio ‘personaggio’ coerente ed unitario o subisce una trasformazione nel corso del dialogo con il messaggero? È possibile riconoscere nel dramma una distinzione tra volontà del singolo e necessità dovuta alla maledizione? Come interpretare la decisione di Eteocle, e in quale momento esatto collocarla? La trattazione di questi problemi, chiaramente, richiederebbe uno studio a sé ed esula dai fini di questo lavoro, che si propone piuttosto di individuare ed esaminare le strutture drammatiche generate dalla morte dei personaggi tragici.

64

A v. 681 il coro parla già di ἀνδροῖν ὁμαίμοιν θάνατος.

65 Cfr. le parole di Eteocle ai vv. 695-97.

66 Il coro passerà poi a ripercorrere, a partire dal v. 742, le dolorose vicende della famiglia; il

ricordo del passato sembra quasi evocato dal breve accenno di Eteocle, al v. 691, alla ‘stirpe di Laio odiata da Febo’.

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