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Il destino dell'anima nell'Aldilà, nei miti escatologici di Platone.

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA

Tesi di Laurea

Il destino dell’anima nell’Aldilà, nei miti escatologici di Platone

Relatrice Candidata

Prof.ssa Maria Michela Sassi Margherita Giorgi

Prof.ssa Alessandra Fussi

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INDICE

Introduzione p.4

1. Giustizia e mito nella Repubblica 9

1. Giustizia ed educazione 9

2. La critica al mito 17

2.1 La critica dei contenuti 17

2.2 La critica della mimesis 21

3. Verso una riforma del mito 28

4. Possibilità di una menzogna “buona” 31

4.1 La “nobile menzogna” 31

4.2 Il mito di Er: un esempio di mitologia positiva 33

2. L’anima e il suo destino nell’escatologia del Fedone. 45

1. Il Fedone: un dialogo sull’anima 45

1.1 Anima e corpo: una psicologia bipartita 47

1.2 Metempsicosi ed escatologia 50

2. L’immortalità dell’anima 52

2.1 Le dimostrazioni 52

2.2 Dalla dimostrazione al mito 62

2.2.1 La configurazione della terra 64

2.2.2 Espiabilità, inespiabilità e purgazione 66

2.2.3 Il destino del filosofo 70

3. Giustizia e felicità nell’escatologia del Gorgia 73

1. La retorica tra technai e pseudo technai 74

2. Come bisogna vivere? 79

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2.2 L’edonismo di Callicle: la vita del caradrio 83

2.3 Il mito dell’orcio forato 84

3.Il mito dell’ultimo giudizio 91

3.1 La giustizia punitiva come iatrike 91

3.2 Il problema della responsabilità 97

4. Timeo e Leggi: L’escatologia platonica nei dialoghi tardi 100

1. Il Timeo, un dialogo cosmologico 100

1.1 La cosmogonia come eikos mythos 102

1.2 Il progetto demiurgico 106

1.2.1 L’anima del mondo 109

1.2.2 L’anima individuale 112

1.3 La metempsicosi: un processo discendente 113

2. Le Leggi, un dialogo politico 118

2.1 L’immagine dell’uomo marionetta: il mito sulla virtù 121

2.2 L’ordine provvidenziale dell’universo 122

2.2.1 L’argomento cosmologico 122

2.2.2 L’argomento teologico-teleologico 125

2.3 Il mito escatologico: per ogni carattere un luogo appropriato 125

Bibliografia 130

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Introduzione

Con questa tesi ho voluto riflettere sul mito escatologico in Platone, considerando le escatologie presenti nella Repubblica, nel Fedone, nel

Gorgia, nel Timeo e nelle Leggi.

Per una tale indagine mi sono innanzitutto chiesta come ciascuna escatologia si inserisce all’interno della struttura dialogica, quale funzione vi assolve e in che genere di rapporto si pone con il discorso dialettico. Ora, in merito a tale questione ritengo che si possa dire che quella del mito escatologico (e sotto certi aspetti della forma mitica in generale) è una funzione persuasiva: il mito ha il potere di trascinare l’anima dell’ascoltatore verso la comprensione di verità che il discorso razionale non saprebbe esprimere in maniera altrettanto efficace, e a convincere la sua anima della bontà di quella verità. Sebbene il mito non possa essere posto 1 sullo stesso livello del logos per quanto concerne l’accesso alla verità (la verosimiglianza del racconto cosmologico del Timeo ne è un chiaro esempio) esso è chiaramente dotato di un fascino e di un potere incantatore di cui il discorso razionale appare sprovvisto.

Quando Socrate, o il personaggio che nel dialogo assolve alla sua stessa funzione guida (come è il caso dell’Ateniese delle Leggi) sceglie di raccontare un mito escatologico è perché non è riuscito a convincere i suoi interlocutori della bontà di una certa verità etica. Prendiamo ad esempio l’escatologia del Gorgia. Socrate non ha saputo persuadere l’edonista Callicle a convertirsi ad una vita all’insegna della moderazione né con

Ferrari, I miti di Platone, Rizzoli, Milano 2006 p. 26, concorda sul fatto che il

1

mito possegga una funzione essenzialmente “psicagogica”, che sappia quindi persuadere le componenti irrazionali dell’anima ad accettare il comando della ragione, in modo tale che l’individuo, guidato dal logos, possa orientarsi o (ri)orientarsi verso una vita eticamente e politicamente virtuosa.

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l’immagine dell’otre forato né attraverso l’argomentazione dialettica sulla non identità di bene e piacere: per questo sceglie di raccontare un mito sul destino dell’anima nell’Aldilà: per mostrare che l’intemperante (akolastos) è condannato ad un’esistenza infelice e inappagata anche dopo la morte. Lo stesso si può dire del mito di Er della Repubblica. Socrate non è ancora riuscito a convincere i suoi interlocutori dell’intrinseca bontà della virtù della dikaiosyne, e del fatto che, contrariamente a quanto ritiene il personaggio di Glaucone, la giustizia non va perseguita per i vantaggi che procura, ma per se stessa. Per mostrare che la giustizia fa parte dei beni da ricercare per se stessi, Socrate decide quindi di riportare il mito di Er, un guerriero originario della Pamfilia che compì un viaggio nell’Aldilà e poi resuscitò. Ciò che è importante sottolineare è che quello presentato nel mito non è un giudizio finale. Una volta trasmigrate nell’Aldilà e ricevuti là i premi e le punizioni che meritano, le anime (eccetto quelle degli incurabili che sono destinate a restare nel Tartaro per l’eternità) sono chiamate a scegliere un nuovo corpo in cui incarnarsi e una nuova vita (bios) da vivere sulla terra. Dato quindi che il giudizio ultraterreno non è un giudizio definitivo, e che i premi che attendono l’anima giusta sono solo temporanei, la giustizia non andrà perseguita per ciò che assicura dopo la morte (e quindi, come crede Glaucone, per i suoi vantaggi) ma per se stessa, e per la felicità che garantisce già in questa vita.

Tuttavia, vi sono casi in cui il ricorso alla forma mitica appare non del tutto necessario, come ad esempio nel Fedone. In questo dialogo (in cui, come avrò modo di mostrare nel secondo capitolo, l’immortalità dell’anima è strettamente connessa alla dottrina della reminiscenza e alla dottrina delle idee, che riceve qui una prima vera esposizione) il personaggio di Socrate tenta di dimostrare l’immortalità dell’anima ricorrendo a quattro diversi

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argomenti, e, grazie all’ultima argomentazione, riesce effettivamente a 2 3 persuadere i suoi interlocutori, Simmia e Cebete, del fatto che l’anima sia immortale (athanatos). In questo caso dunque, il mito escatologico non interviene per colmare le lacune dell’argomentazione dialettica: piuttosto esso viene scelto per la sua piacevolezza (“dire una favola è bello”, afferma Socrate) e perché costituisce in quella particolare circostanza (l’ultima conversazione che Socrate ha la possibilità di tenere con i suoi amici) il miglior modo in cui discutere dell’Aldilà. Inoltre, descrivendo il beato destino cui è destinato chi, come Socrate, ha saputo rinunciare ai piaceri corporei per dedicarsi esclusivamente alla ricerca filosofica, il mito è anche un modo per rassicurare gli amici di Socrate del fatto che quello che vedranno morire sarà il corpo del loro maestro, ma non la sua anima per la quale è invece previsto un destino di beata disincarnazione.

L’esaltazione del bios philosophikos che troviamo nell’escatologia del

Fedone costituisce in realtà un tratto essenziale anche dei miti della Repubblica e del Gorgia. Nel mito di Er lo stile di vita filosofico risulta

determinante nella scelta della nuova vita che l’anima è chiamata a fare dopo la morte: solo chi ha praticato una “sempre sana filosofia” può garantirsi maggiori possibilità di scegliere bene la nuova vita nell’Aldilà, assicurandosi così la felicità in questo mondo e compiendo “il viaggio da qui a lì e da lì a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e

L’argomento dei processi ciclici (69e-72e); l’argomento della reminiscenza

2

(72e-80d), quello dell’affinità (80d-84b) e infine quello dei “contrari ideali” (102a-107b).

Si tratta come vedremo dell’argomento che abbiamo detto dei contrari ideali.

3

Dato che due idee contrarie si escludono a vicenda, nel senso che un particolare che partecipa per essenza di una certa idea non può partecipare anche dell’idea ad essa contraria, allora, essendo l’anima ciò che partecipa della vita, ed essendo la vita idea contraria a quella di morte, l’anima parteciperà solo della vita, e sarà quindi immortale.

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celeste” (619d 3-e 2). E ancora, nell’escatologia del Gorgia l’anima del 4 filosofo, di chi ha vissuto “in modo pio e fedele alla verità” viene mandata da Radamante (uno dei tre giudici dell’Aldilà insieme a Minosse ed Eaco) nelle Isole dei Beati (526c 1-7).

Per quanto riguarda poi le escatologie del Timeo e delle Leggi, pur non trovando qui un esplicito elogio alla vita prettamente filosofica, anche in questo caso è comunque presente un’esortazione alla vita all’insegna della ricerca del sapere, un’esistenza “razionale” (kata logon, Tim., 98d 4), incentrata sul controllo delle passioni, sulla moderazione, e lontana dal vizio della pleonexia, quell’aspirazione ad avere di più che nelle Leggi coincide con l’ingiustizia (906a 7-c 6).

Ma oltre che un efficace “stimolatore morale”, il mito è anche un modo 5 per suggerire ciò che è probabile. L’anima e il suo destino ultraterreno 6 costituiscono infatti argomenti sui quali all’uomo non è dato pronunciarsi con certezza. Come afferma Socrate nel Fedro in merito alla natura 7 dell’anima:

definire quale essa sia sarebbe una trattazione che assolutamente solo un dio potrebbe fare (Phaedr., 246a 4-5).

G.R.F Ferrari, Glaucon’s reward, philosophy’s debt: the myth of Er. in C.

4

Partenie, Plato’s Myths, Cambridge University Press, Cambridge 2009., pp. 116-133, ritiene che quello del destino dell’anima nell’Aldilà sia solo l’argomento “dichiarato” del mito, e che ciò che in verità il Socrate personaggio cerca di trasmettere ai suoi interlocutori riguardi piuttosto i benefici del bios

philosophikos: ricercando la giustizia per quello che è e non per i vantaggi che

questa può procurare, il filosofo fa l’utile e il bene della propria anima, rendendola ordinata e felice in questa vita e premiata nell’Aldilà.

Cfr. G. Droz, Les mythes platoniciens (1972), trad. it. I miti platonici, Edizioni

5

Dedalo, Bari 1994, p.10.

V. Brochard, Les mythes dans la philosophie de Platon in “Études de la

6

philosophie ancienne et moderne”, 1912, pp. 86-87.

Massimo esempio di mito come racconto plausibile è senz’altro il racconto

7

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E similmente, nel Fedone, dopo aver riportato il mito escatologico, Socrate afferma che:

Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno (noun); ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato (phainetai) che l’anima è immortale, sostener questo mi pare si addica, e anche metta conto di avventurarsi a crederlo. E la ventura è bella (kalos gar ho kindynos). E giova fare a se stesso di tali incantesimi (kai chre ta toiauta hosper epadein

heautoi) (Phaed., 114d 1-7).

I miti escatologici dell’opera platonica costituiscono quindi un tentativo di rispondere alla fondamentale questione etica di come si debba vivere per poter essere felici. Come avrò modo di mostrare nel corso di questo lavoro, per Platone l’eudaimonia non si raggiunge perseguendo il piacere (come sostiene Callicle), né nella cura del corpo, o nell’accumulo delle ricchezze: il solo modo per raggiungere la felicità è diventare giusti (e non, come vorrebbe il personaggio di Glaucone, apparire giusti in pubblico per farsi una buona reputazione). L’anima felice coincide in breve con l’anima che 8 persegue la giustizia e che, nel caso poi in cui commetta un atto ingiusto, riconoscendo il potere terapeutico della pena, possiede la forza di sottoporsi al giusto castigo per risanare la nostra anima. Come afferma il Socrate del

Gorgia:

È evidente che chi vuole essere felice (…) deve fare di tutto per non aver bisogno di essere punito; se poi capita che ne abbia bisogno (…)

Cfr. Resp., 358a 4-6.

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gli deve venire inflitta la pena e deve essere punito, se vuole davvero essere felice (Gorg., 507c 9-d 6).

Quanto spero di mostrare è che il mito escatologico costituisce uno strumento integrativo (e non antitetico) al discorso dialettico, del quale Platone sfrutta saggiamente la forza persuasiva per esprimere una verità non tanto logica quanto etica, e convincere le anime degli ascoltatori della bontà e dell’utilità di quella verità. Inoltre, mostrando il beato destino cui è destinata ad andare incontro l’anima veramente filosofica, il mito escatologico è anche un modo per elogiare lo stile di vita del filosofo, e per convertire quanti più ascoltatori possibile a percorrere la strada dell’amore della conoscenza.

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Capitolo primo

Giustizia e mito nella Repubblica

1. Giustizia e educazione

Nella Repubblica (Politeia) (un dialogo della maturità, il cui periodo di

composizione viene fatto risalire, basandosi sulla datazione più larga, al ventennio compreso tra il 390 e il 370 a.C) troviamo il personaggio di Socrate intento a discutere con un gruppo di ateniesi (Cefalo, il figlio di questi, Polemarco, Glaucone, Trasimaco e Adimanto) attorno al tema della giustizia (dikaiosyne).

Appare fin da subito chiaro che quella sul significato della giustizia sarà una ricerca lunga e complessa: pur riuscendo a mostrare l’infondatezza delle definizioni di dikaiosyne avanzate dai suoi interlocutori (l’operazione di confutazione inizia e finisce nel libro I), individuare l’essenza della 9 giustizia, dimostrarne l’intrinseca e assoluta bontà, e soprattutto persuadere i suoi compagni della preferibilità della vita giusta rispetto a quella ingiusta richiederà al personaggio di Socrate un tempo e un impegno decisamente maggiori. Ma soprattutto, per completare la sua indagine Socrate avrà bisogno del soccorso del mito: dopo aver fondato razionalmente la giustizia, attraverso il celebre discorso sulla kallipolis, Socrate dovrà tuttavia convincere quanti più interlocutori possibile ad imboccare la strada della vita giusta, operazione di persuasione che può essere realizzata solo ricorrendo al mito.

L’atteggiamento tipicamente confutatorio del personaggio di Socrate e l’esito 9

aporetico della discussione sono, oltre ad una serie di considerazioni stilometriche, i principali elementi su cui gli studiosi hanno posto l’accento per sostenere l’autonomia e l’anteriorità del libro I. Si tratterebbe quindi di una sorta di proemio (come afferma inoltre lo stesso Socrate all’inizio del libro II, 357a 2) scritto in momento anteriore rispetto agli altri libri e attraverso cui Platone, recuperando lo stile dei dialoghi giovanili, si mostra pronto ad ammetterne le carenze teoriche e a prenderne congedo.

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Per questo Platone concluderà l’intero dialogo facendo riportare al personaggio di Socrate il mito escatologico di Er (614a- 612d): mostrando quanto bello sia il destino dell’anima giusta nell’Aldilà, Socrate ha come obiettivo quello di persuadere alla giustizia tutti coloro che possono non aver compreso il discorso razionale (logos) finora svolto. Consapevole di star parlando ad un pubblico di non soli filosofi, Socrate, dopo aver fondato dialetticamente le basi della giustizia, vuole adesso rafforzarle con il mito, per portare l’anima dei suoi interlocutori a credere ciò che la ragione non può comprendere.

La prima definizione di dikaiosyne, proposta dal personaggio di Polemarco, la vede coincidere con la virtù di colui che giova agli amici e arreca danno ai nemici (331e-332b). Per Trasimaco invece, analogamente al personaggio di Callicle del Gorgia (483d), e all’Ateniese delle Leggi (714c 6) la giustizia consisterebbe nell’utile del più forte (338a-339b). Confutate le definizioni dei suoi interlocutori, Socrate si rende conto che la vera ricerca sulla giustizia deve in verità ancora cominciare: lungi dall’essersi “liberato del discorso”, Socrate comprende che quanto è stato detto finora non è che un proemio (357a 2) e che, pur avendo dimostrato che, contrariamente quanto riteneva Trasimaco (343d 2-3), è la vita del giusto quella più giovevole e auspicabile, non è ancora riuscito a individuare cosa il giusto sia.

Il dialogo prosegue quindi con l’intervento del giovane aristocratico Glaucone, il quale, per far progredire la ricerca, propone a Socrate tre diversi tipi di beni e lo esorta a porre la giustizia in uno di questi gruppi. Ci sono i beni che si desiderano per se stessi (“come il gioire e tutti i piaceri che non sono nocivi”, 357b 7-8); quelli che si desiderano non solo per se stessi, ma anche per i vantaggi che procurano (“come il pensare e il vedere e l’essere sani”, 357c3); e infine quelli, come gli esercizi della ginnastica e

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le prescrizioni mediche, che, pur non costituendo di per sé un bene, si ricercano perché procurano determinati vantaggi. Ora, secondo Glaucone (che afferma qui di esprimere l’opinione non solo propria, ma anche quella comune) la giustizia dovrebbe essere posta nel terzo gruppo, giacché, se fosse sicuro di non incorrere in alcuna punizione, qualunque uomo sarebbe pronto a commettere ogni sorta di ingiustizia pur di ottenere qualche vantaggio. Quindi la vera ragione che spinge gli uomini a comportarsi giustamente è la paura di essere puniti, e non il pensiero per cui la giustizia sia di per sé un bene. 10

Contrariamente a quanto ritiene Glaucone, Socrate pensa che la giustizia rappresenti un bene da perseguire anche di per sé e che la si debba quindi collocare nel secondo gruppo di beni, quelli cioè che si ricercano sia per se stessi sia per i loro vantaggi. Per avvalorare la sua tesi, Socrate deve però prima chiarire ai suoi interlocutori che la giustizia è un bene, mentre l’ingiustizia un male, dimostrazione questa che necessita però di un quadro di riferimento più ampio di quello del singolo individuo: quello dello Stato. Si tratterà quindi di vedere quando una polis può dirsi governata giustamente per poi trasporre la giustizia dall’ambito politico a quello intrapsichico. A legittimare tale operazione è il fatto che, come emergerà nel corso del libro IV (434c-436a), queste due dimensioni sono strutturate analogamente: come giusta è la città in cui ciascuno assolve al proprio compito e in cui regna un totale accordo sul fatto di affidare il governo ai filosofi (gli unici veri conoscitori dell’idea del Bene e i soli in grado quindi di realizzare il benessere della polis), così vivrà giustamente colui la cui Per avvalorare la sua tesi Glaucone narra la favola (mythos) del pastore Gige,

10

secondo la quale, rinvenuto un anello che dava a chiunque lo indossasse il potere dell’invisibilità, Gige uccise il re, sposò la regina e salì così al potere. (Resp., 359b-360d). Con questo racconto Glaucone intende mostrare che se si avesse la certezza di non essere visti, vale a dire se si fosse sicuri di non venir perseguiti dalla legge, non esiteremmo un attimo a fare come Gige, compiendo ogni sorta di ingiustizia che ci garantisca quanti più vantaggi possibile.

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anima sarà organizzata in modo che ciascuna componente (quella razionale, quella animosa e quella concupiscibile) svolga la propria funzione e in cui le tre parti concordino sull’affidare il comando alla componente razionale affiancata da quella animosa (441c-443b).

Come spiega Socrate:

Forse allora la giustizia nell’ambito più grande sarà di maggiori dimensioni e più facile da apprendere. Se volete, dunque, indagheremo qual è la giustizia nelle città; poi la ricercheremo nello stesso modo anche nel singolo individuo, cercando la somiglianza (homoioteta) con il maggiore che è inerente nella forma del minore (Resp., 368e7- 369a4).

Per arrivare a individuare le condizioni che rendono uno Stato giusto, bisogna però prima indagare come questo sia nato, domandandosi quindi quali siano state le cause che ne hanno determinato la formazione. Ora, la prima organizzazione politica, spiega Socrate, nasce nel momento in cui ciascun individuo prende coscienza del fatto di essere ouk autarkes (“non autosufficiente”) e, resosi conto di aver bisogno (chreia) dell’aiuto degli altri per poter vivere, comprende che una forma di vita aggregata, in cui ciascuno fornendo il proprio contributo aiuta l’altro, sarebbe per lui estremamente più vantaggiosa.

La prima forma di Stato consiste quindi in una polis estremamente semplice e “sana” (hyghies, 372e 7) i cui abitanti lavorano svolgendo esclusivamente i compiti verso i quali mostrano di avere una naturale attitudine: c’è chi commercia, chi fa l’artigiano e chi è mercenario, e tutto 11

Affermando la divisione del lavoro che è basata sulla “primaria dotazione 11

naturale” (370b 1-2) di ciascun individuo, Socrate vuole sottolineare l’esistenza di differenze naturali e quindi necessarie all’interno del corpo di cittadini. Il tema della divisione del lavoro riemergerà, come vedremo, nel seguito del dialogo andando a configurarsi nel celebre principio dell’oikeiopraghia, quel “fare le proprie cose” in cui Socrate identificherà la giustizia politica.

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si svolge secondo uno stile di vita sobrio e moderato, lontano da lussi ed eccessi. Questa immagine della prima polis pare però non convincere il personaggio di Glaucone, il quale, con atteggiamento critico, la definisce una “città di maiali” (372d 5): bisogna che questi primi cittadini giacciano 12

su dei letti, stiano comodi e mangino a tavola, spiega Glaucone (372d 8-e). Ed è così che ha inizio la descrizione della città gonfia e “infiammata” (phlegmainousa, 372e 8), come la chiama Socrate: i cittadini cominciano ad avere bisogni e desideri sempre più complessi e questo rende necessaria l’introduzione di nuove figure professionali. Le diete alimentari da frugali che erano diventano sempre più varie e pesanti, e ciò rende indispensabile l’intervento di medici capaci di riportare alla salute un corpo appesantito da un’alimentazione poco sana. La città si riempie poi di “cacciatori (…) imitatori (…) poeti (…) fabbricanti di ogni genere di oggetti (…) pedagoghi, balie, governanti, cameriere, acconciatrici” (373b 3- c3), e non vive più soddisfacendo i bisogni indispensabili, ma assecondando ogni proprio desiderio: è una polis malata, infiammata dagli eccessi, la cui continua crescita la rende un bersaglio sempre più appetibile per i nemici esterni. Ed è proprio per proteggerla da questi che viene introdotta la figura professionale del guardiano (phylax).

È a questo punto del libro II (374e 1) che viene presentata al lettore la figura del guardiano della città, con le sue capacità fisiche, le sue virtù e le funzioni a cui gli è richiesto di attendere per il benessere della polis. Quale sarà dunque la natura del guardiano? Sicuramente egli dovrà possedere un corpo vigoroso che gli permetta di avere la meglio nello scontro col Quello che Glaucone intende dire è che la città descritta da Socrate è fin troppo 12

“vicina alla selvatichezza”, sana e frugale per poter permettere di rintracciare la giustizia e l’ingiustizia. Fino a che non verranno poste delle leggi e delle istituzioni sarà quindi impossibile individuare in che cosa la dikaiosyne politica consista. Come scrive Silvia Gastaldi, “la positività della città-archetipo, della

pròte pòlis è al tempo stesso penuria di valori e di virtù” (S. Gastaldi, Introduzione alla storia del pensiero politico antico, Laterza, Bari 2008, p. 77).

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nemico; è inoltre indispensabile che egli sia coraggioso (andreios), spiega Socrate, “se vuole battersi bene” (375a 8); ma soprattutto, per essere in grado di affrontare i pericoli senza paura, sarà essenziale che egli abbia nella propria anima una certa “collera” (thymos) che la renda 13

“impavida” (aphobos) e “invincibile” (aettetos) e, allo stesso tempo, che possegga la capacità intellettuale di distinguere, proprio come fa un cane da guardia, gli amici dai nemici, per riversare l’aggressività e la collera esclusivamente verso i secondi, riservando un atteggiamento mite per i 14 propri concittadini e amici. Sarà questa dote di discernimento intellettuale, spiega Socrate, che svilupperà in lui una “natura filosofica e desiderosa di apprendere” (376c1-2). 15

Si tratta adesso di vedere quale percorso educativo risulti essere il più adatto per far emergere e sviluppare a pieno queste doti psico-fisiche. Nel delineare le tappe in cui si articolerà l’educazione dei guardiani, Socrate attinge alla paideia “trovata da tanto tempo” (376e), poiché sa che sarebbe difficile trovarne una migliore: si tratta dell’educazione presente ormai in Per adesso Platone sceglie di riattivare il termine thymos, tanto caro ad Omero e 13

designante essenzialmente quell’animosità che conferisce maggiore efficacia e impeto nel combattimento. Ma nel libro IV, all’interno del quadro della teoria della tripartizione dell’anima (436a-441c) Platone fornirà una descrizione più dettagliata degli aspetti che questa componente intraspichica (il thymoeides) implica.

Il guardiano di Platone non rispecchia quindi il prototipo di cittadino militante 14

del V secolo, il membro della falange oplitica, giacché a questo ultimo si richiede non tanto un comportamento coraggioso e veemente, quanto l’esercizio dell’autocontrollo e della temperanza (sophrosyne), perché, come scrive Vegetti, ciò che più conta nella falange oplitica è che ognuno si comporti esattamente come tutti gli altri. (Cfr. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Bari 1989, p. 47).

Alla fine del libro III il gruppo dei phylakes subirà una significativa divisione 15

interna: la funzione strettamente militare verrà affidata agli epikouroi, mentre quella di governo spetterà agli archontes. Potremmo anche dire che dell’anima del guardiano, la virtù del coraggio verrà ereditata dagli epikouroi, mentre la seppur solo accennata “natura filosofica” verrà sviluppata a pieno dagli archontes, i futuri filosofi-re.

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tutto il mondo greco, e seguita soprattutto a Sparta, che prevede 16 l’apprendimento della mousike per la salute e l’armonia dell’anima, e successivamente, della ginnastica, i cui esercizi sono finalizzati a temprare un corpo sano e forte. Tuttavia, queste due pratiche non godono agli occhi 17

di Platone della medesima importanza: la musica, essendo preposta alla formazione dell’anima (che è appunto arche del corpo), è destinata ad 18

occupare nell’educazione del giovane guardiano una posizione di rilievo e, data questa sua importanza, sarà fondamentale selezionare con estrema cura quali testi poetici potranno essere musicati e quali no; nello specifico quali

Secondo la tradizione fu Licurgo a delineare, con il sistema dell’agoge, un 16

processo formativo che integrava mousike e ginnastica. (Cfr. S. Gastaldi, Paideia/

mythologia, in M. Vegetti, (a cura di), La Repubblica. Libri II e III, Bibliopolis,

Napoli 1998, p.337).

Anche nel Critone, nel Protagora e nelle Leggi sono presenti espliciti 17

riferimenti alla paideia del cittadino greco. Come nella Repubblica, così nel

Critone (50d) la musica e la ginnastica sono le arti preposte all’allevamento

(trophe) e all’educazione del fanciullo, e anche nel libro VII delle Leggi, in cui viene delineato il curriculum del buon cittadino, il programma educativo che descrive l’Ateniese è bipartito in una serie di esercizi di ginnastica (a sua volta suddivisa nella danza e nella lotta) e nella musica. Nel dialogo del Protagora invece, le discipline che il bambino è chiamato ad apprendere quando, lasciata la famiglia, si reca dai maestri per continuare la propria formazione sono la grammatica e la citaristica, finalizzate all’apprendimento delle lettere e della musica.

Sebbene la dottrina psicologica di Platone abbia subìto sviluppi nel corso della 18

sua filosofia (per citare l’esempio più evidente, nel Fedone la psyche è colta essenzialmente come antitetica al corpo, mentre nella Repubblica e nel Fedro Platone approfondisce l’organizzazione interna dell’anima e propone una psicologia tripartita), l’idea per cui l’uomo coincide essenzialmente con la propria anima, che è “quella parte di noi tanto più nobile (timioteroi) del corpo” (Gorg., 512a 6) e che il corpo altro non è che un semplice strumento della psyche (Alc. I 129-130) pare restare una costante.

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melodie e quali ritmi si potranno accogliere (enkrinein) e quali invece dovranno essere eliminati (apokrinein). 19

Ha così inizio la critica alla poesia, nella quale il personaggio di Socrate, accusando di contenuti empi i miti di Omero ed Esiodo e, come vedremo in seguito da un’analisi del libro X, muovendo contro la natura mimetica del componimento poetico in generale, descrive le operazioni di destrutturazione e di revisione cui è necessario sottoporre i miti per far sì che restino solamente i racconti socialmente utili, vale a dire funzionali alla formazione di un corpo di cittadini solidale e virtuoso.

Sarà quindi la città, per citare dal componimento di Simonide, ad educare gli uomini (polis andra didaskei), e lo farà revisionando i contenuti etici 20 dei racconti in circolazione e istituendo su questa nuova mitologia un sistema di giusti valori.

Come è noto, nel mondo greco le esecuzioni poetiche erano sempre unite ad un accompagnamento musicale, il che fra l’altro faceva sì che il testo poetico, inserito all’interno di una struttura ritmica e melodica, risultasse più facile da memorizzare. Di conseguenza, proprio come il contenuto poetico, così anche i moduli musicali e i vari ritmi devono essere accuratamente selezionati, in modo da conservare solamente le melodie capaci di infondere sentimenti positivi e di evocare uno stile di vita (bios) virtuoso. Ora, le uniche melodie che secondo il personaggio di Socrate possono essere ammesse nell’educazione musicale del guardiano sono quella dorica, il cui stile esalta la virtù del coraggio, e quella frigia la quale,

Anche nella città descritta nelle Leggi, Magnesia, l’attività poeta è 19

supervisionata da un gruppo di giudici addetti ad eliminare (anche in questo caso il verbo utilizzato è apokrinein, 936a 8 ) le “opere pericolose” dei poeti (810b 7-c 1).

Cfr. Gastaldi, Paideia/ mythologia, cit., p. 341. 20

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pur essendo di origine orientale, genera nell’anima dell’ascoltatore saggezza ed equilibrio (399a 5-c 4).

Passati poi alla trattazione dei ritmi, Socrate e Glaucone confessano di non sentirsi sufficientemente ferrati sull’argomento, e decidono quindi di rifarsi alle teorie musicali di Damone di Oa, secondo il quale un’esecuzione poetica può essere giudicata bella solo se l’esecutore assume un atteggiamento decoroso (euschemosyne) e se risulta piacevole dal punto di vista ritmico (eurythmia) (400d 10- e1). Riassumendo, i componimenti musicali che il guardiano sarà chiamato ad apprendere durante la sua formazione musicale saranno sia nella melodia che nel ritmo imitative delle movenze e dei comportamenti, in una parola dell’ethos, dell’uomo virtuoso. In questo modo, ascoltando e imparando a riprodurre queste 21 composizioni evocative di virtù, e disponendosi in maniera somigliante ad esse, l’anima del guardiano assumerà essa stessa un’organizzazione virtuosa e il guardiano sarà così un perfetto esempio di kalos kagathos.

2. La critica del mito

2.1 La critica dei contenuti

La critica che il personaggio di Socrate muove alla mitologia tradizionale si articola in due fondamentali sotto-critiche. Da una parte, nei libri II e III, Socrate si dedica ad un’analisi prettamente contenutistica del mito, puntando il dito contro l’immagine del divino (l’antropomorfismo degli dei), la raffigurazione dell’eroe e la visione dell’Aldilà che caratterizzano la mitologia di Omero e di Esiodo. Si tratta in questo caso di una critica etica, volta quindi ad evidenziare l’empietà di tali contenuti e a mostrare il nocivo effetto che l’ascolto di questi genera nell’anima degli ascoltatori. La critica al mito ricompare poi, in maniera alquanto inaspettata (Socrate ha appena Cfr. Leggi, 660a 4-8: “il valente legislatore (ho orthos nomothetes) persuaderà e 21

se necessario costringerà il compositore a riprodurre musicalmente le movenze degli uomini virtuosi”.

(19)

concluso il lungo discorso sulla degenerazione delle forme costituzionali e sulla figura del tiranno) nel libro X. Questa volta non si tratta però di una critica alla morale epica, ma allo statuto ontologico della poesia: l’oggetto del componimento poetico è imitativo della realtà, la quale è però già di per sé imitativa del mondo delle idee. Di conseguenza, essendo copia di una copia, l’oggetto poetico dista tre gradi dalla verità e perfezione eidetiche, ed è quindi per la sua intrinseca illusorietà che merita di essere rinnegato. Andiamo quindi ad esaminare la critica ai contenuti del mito.

Gli dei di Omero ed Esiodo possiedono “tutti i disordini nei quali cade l’uomo, persino l’uomo più spregevole”: Zeus, vedendo Era, si lascia 22 completamente trascinare dal desiderio sessuale per lei (Il., XIV, 294 sgg.); Crono divora i suoi propri figli; Poseidone tenta di incatenare il fratello Zeus (Il., I, 399); Era getta il figlio Efesto dalla vetta dell’Olimpo perché ne disprezza la bruttezza (Il., XVIII, 395). Gli dei sono quindi sempre pronti a farsi guerra l’un l’altro, capricciosi, competitivi e perfino corruttibili. 23 Citando dall’Iliade Socrate dice:

(…) si piegano anche gli dei,

dei quali è pure più grande il valore e il prestigio e la forza. Tuttavia li placano gli uomini coi sacrifici,

con offerte splendide, con libagione e con fumo, quando li pregano, quando qualcuno sbaglia o traligna. (Il., IX, 496-501)

R. Girard, Le bouc émissaire (1982), trad. it. Il capro espiatorio, Adelphi, 22

Milano 1987, p. 127.

Nel libro X delle Leggi l’incorruttibilità degli dei costituisce uno dei tre aspetti 23

in cui si articola il discorso persuasivo contro l’empietà. Per convincere l’empio, spiega l’Ateniese, bisogna prima di tutto dimostrare che gli dei esistono, poi che questi si prendono cura delle faccende umane, e infine che non possono essere corrotti con preghiere e sacrifici.

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Ora, questi discorsi risultano essere estremamente pericolosi per la salute dell’anima del cittadino: Omero ed Esiodo, antropomorfizzando le divinità, di fatto muovono i loro ascoltatori a vivere nell’ingiustizia, inducono in loro un comportamento vizioso, e soprattutto un atteggiamento “comprensivo verso la propria stessa malvagità” (391e 4-5). I poeti, cantando dei vizi e dei capricci degli dei, fanno sì che queste cose “sembrino ormai solo colpe insignificanti, semplici scappatelle, inezie prive di importanza”, e portano 24 inoltre a credere che non sia necessario sforzarsi di essere giusti, ma che (proprio come ha affermato Glaucone all’inizio del libro II), sia sufficiente apparire giusti agli occhi degli altri. In poche parole, i poeti forniscono 25 modelli etici che non hanno niente di esemplare e danno una visione del dio assolutamente falsa.

Falsa, prosegue Socrate, è anche la rappresentazione che i poeti danno degli eroi: pronti a offendersi l’un l’altro (a 389e 13 Socrate ricorda l’episodio omerico in cui Achille si rivolge ad Agamennone appellandolo “ubriacone, occhi di cane, cuore di cervo”, Il., I 225); dediti ai piaceri della tavola (come testimonierebbe l’episodio in cui Odisseo, ospite alla corte di Alcinoo, afferma che è cosa bellissima sedersi a “tavole piene di pane e di carni” col coppiere che attinge il vino dal cratere, Od., IX 8-10) e incapaci di controllare il pianto (come Odisseo nell’episodio appena citato, o Achille quando si ritrova privato di Briseide (Il., I 348-361). Nociva è poi anche la descrizione dell’Ade, un luogo spaventoso, umido, e “di cui pure gli dei hanno orrore” (Il., XX 65). Esso è dimora di anime “provate di molto dolore” (Od., XI 38) che “come ombre vane svolazzano” (Od., X 495) e, piangendo il loro destino, sono costrette a pagare il fio delle ingiustizie

Girard, op.cit., p.132. 24

Come abbiamo visto, la giustizia fa parte secondo Glaucone dei beni da 25

perseguire esclusivamente per le loro vantaggiose conseguenze; essa sarebbe quindi “del tipo dei beni faticosi, che va perseguito per trarne guadagni e una buona reputazione pubblica” (358a 4-6).

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commesse in vita (si pensi ad esempio alle “pene gravose e atroci” di Tizio, Tantalo e Sisifo, Od., XI 575-600). Quindi, cantando del terribile destino che attende l’anima nell’Aldilà, il poeta non fa altro che suscitare nei bambini (giacché le favole hanno come principale destinatario il fanciullo, dall’anima particolarmente impressionabile) e nei futuri guardiani il 26 timore della morte; e come potrà mai difendere con coraggio i propri concittadini un uomo che ha paura della morte?

Un pensatore che ha sicuramente esercitato una grande influenza su Platone rispetto alla critica all’epica tradizionale è Senofane. Come emerge da alcuni frammenti pervenutici, il rapsodo di Colofone aveva nei confronti della tradizione epica un atteggiamento fortemente critico, e ciò che maggiormente rimproverava all’epica era proprio la scelta di rappresentare gli dei in tutto simili ai mortali, sia nella forma che nel carattere.

Ma i mortali hanno l’opinione che gli dei siano generati e che abbiamo il loro modo di vestire, la loro voce e il loro aspetto (DK 21 B 14). 27 E ancora

Tutte le colpe attribuirono agli dei Omero ed Esiodo quante a giudizio degli uomini valgono come ignominia e biasimo: rubare commettere adulterio e ingannarsi reciprocamente (DK 21 B 11).

Per Senofane invece si può parlare di un “unico” (heis) dio (DK 21 B 23), “più grande di qualsiasi uomo o dio” (en te theoisi kai anthropoisi

meghistos), “capace di spostare le cose senza l’ausilio di strumenti, con la

Il bambino “ha la fonte del pensiero non ancora domata” (Leg., 808d 5-6). 26

Le traduzioni sono da Senofane, Testimonianze e frammenti, a cura di M. 27

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sola forza della mente”, e “perfettamente immobile” (aiei d’en taytoi

mimnei) (DK 21 B 26). Un dio superiore ad ogni altro ente per la sua

unicità e perfezione, una sorta di primo motore aristotelico (in entrambi i casi si tratta di un ente che muove senza essere mosso e la cui capacità di muovere dipende da una forza intellettiva), che niente ha a che fare con l’essere umano.

Come possiamo dedurre dalle parole del Socrate della Repubblica, Platone ammirava Omero e non ha mai negato che i suoi versi fossero bellissimi e piacevoli. Ciononostante, Platone è sicuramente d’accordo con la critica 28 senofanea all’antropomorfismo del divino, e come Senofane attribuisce al dio i caratteri dell’unicità e della perfezione (si parla di monoteismo senofaneo), così Platone scrive che il dio fa parte degli esseri semplici (haploi).

(…) ognuno degli dei, essendo dotato della massima bellezza (kallistos) e perfezione (aristos) possibili, permane nella semplicità della sua forma” (menei aei haplos en te auto morphe) (Resp., 381c 7-8).

2.2 La critica della mimesis

Nella libro X il poeta è chiamato “imitatore”, e la poesia definita una

tecnica mimetica in rapporto all’udito (603b 5-8). Ma che cosa rende la poesia una pratica imitativa? E perché un Omero o un Esiodo dovrebbero essere considerati degli imitatori? E soprattutto imitatori di cosa?

Socrate spiega ad Adimanto che quando un poeta o il mitologo “fa un discorso come se fosse qualcun altro (…) identifica per quanto possibile il Riguardo all’ammirazione per la poesia epica e per Omero ed Esiodo vorrei 28

ricordare le parole che Platone fa pronunciare a Socrate nella sua Apologia: “E poi, cosa non darebbe chiunque di voi, per incontrare Orfeo, o Museo, o Esiodo, od Omero? A me va bene morire anche più di una volta, se tutto ciò è vero!” (Apol., 41a 6-8).

(23)

proprio modo di esprimersi (lexis) a quello che venga presentato come interlocutore di turno” (393b9- c2). E questo “identificarsi a un altro nella voce (kata phonen) o nell’aspetto (kata schema) non significa forse, si domanda Socrate, imitare (mimeisthai) quello con cui ci si identifica?” (393c 4-5). A fare dunque del poeta un imitatore sarebbe questo suo “occultarsi” (apokryptoito) dietro ad un personaggio della sua narrazione, prendendone la voce o l’aspetto (393b 9-10).

Ora, l’imitazione di qualcuno è considerata da Socrate alla stregua di un essere due persone allo stesso tempo (se stessi e un altro), e dunque riconducibile al desiderio di fare molte cose (in questo caso essere più persone) in cui consiste il più grande pericolo in cui una polis possa mai incorrere. Come ho in parte già accennato menzionando il tema della divisione del lavoro, la costituzione che Socrate e i suoi interlocutori 29 stanno delineando si basa sul principio dell’oikeiopraghia, secondo cui, per poter essere massimamente efficienti e produttivi nel proprio lavoro, è indispensabile che i cittadini si dedichino ad un’unica occupazione: il 30 calzolaio deve fare il calzolaio e il contadino il contadino, ogni cittadino deve essere quello che è, e non imitare l’altro. È per questa ragione che la poesia, arte mimetica, non risulta adatta alla kallipolis: perché in quanto esortazione all’essere doppio o molteplice, remerebbe contro la virtù politica dell’oikeiopraghia e seminerebbe disordine e “contesa” (stasis). Riassumendo, la poesia, in quanto imitativa, è essenzialmente illusoria. Essa, come il Socrate dello Ione cerca di far comprendere all’omonimo rapsodo, non costituisce affatto una scienza (techne), ma rappresenta

Vedi n. 11, supra. 29

“ (…) non c’è da noi un uomo doppio o molteplice, dato che ognuno svolge una 30

sola funzione” (Resp., 397d9- e2). Analogamente nelle Leggi leggiamo che “nessuna natura umana (…) è capace di dedicarsi diligentemente a due occupazioni o a due arti” (846d 6). Quindi, le norme che andranno a regolare il lavoro devono fare in modo che ciascun cittadino sia “un solo uomo e non molti” (847b 2).

(24)

piuttosto una “divina capacità” (533d 3) che fa perdere al poeta l’intelletto, rendendolo “fuori di senno” (Apol., 719c 4) e incapace di render conto delle proprie parole. La poesia non è un’arte, ma una mania: la sua origine 31 dunque non è da ricercare in una capacità artistico-artigianale fondata su di un sapere acquisito scientificamente o empiricamente, ma nasce da uno stato di possessione che invade la psiche del poeta, il quale, in preda ad una violenta forma di invasamento (enthousiasmos), perde ogni contatto con la realtà sino a immedesimarsi completamente e a credere che le situazioni verso cui la mania lo trascina siano reali. Lo stato di possessione in cui il poeta cade viene poi trasmesso anche al pubblico, il quale finisce vittima della “violenza psicagogica” della mania poetica. Il poeta è quindi un 32 interprete del dio, un ministro divino, “a speaking-tube in the mouth of the Muse” che, non appena “si siede sul tripode della Musa, perde il senno e 33 come una sorgente” (Leg., 719c 3-4) lascia che i versi ispirati sgorghino dalla sua bocca.

Come la mantica e l’eros, così la poesia costituisce una forma di delirio divino, 31

di mania (Phaedr., 244a 5 sgg.), e per essere veri poeti, è assolutamente indispensabile essere presi dal delirio, lasciarsi ispirare dalle Muse: il poeta “convinto che la sola abilità lo renda poeta” è destinato a rimanere “incompiuto” (Phaedr., 245a 5-8).

La poesia è quindi affine alla pratica retorica, giacché anche questa è 32

considerata da Platone “un’arte del dirigere le anime” (Phaedr., 261a 7-8). Inoltre, come emerge dalle parole del Socrate del Fedro, il retore (similmente al poeta) trascura il vero (Phaedr., 260d 8-9). Ma, se l’oratore trascura la verità per la

convenienza, giacché gli preme non conoscere ciò che è bello o buono in sé, ma

solamente l’opinione che la gente ha in proposito, la trascuratezza della verità che caratterizza la poesia si basa su una più profonda incapacità epistemica di esprimere e di render conto, incapacità in cui il poeta cade paradossalmente proprio a causa dello stato di mania che lo travolge.

Cfr. W. J. Verdenius, Plato’s Doctrine of Artistic Imitation, in G. Vlastos (ed.) 33

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Esistono tuttavia due casi che fanno eccezione e sembrano sfuggire o quanto meno “aggirare” l’accusa di, per così dire, “esortazione allo sdoppiamento dell’io” che Socrate ha rivolto alla poesia. Nel primo caso si tratta di una forma di poesia che per sua natura evita che chi parla si identifichi con i personaggi raffigurati: una forma narrativa che, diversamente dal “dialogo diretto” o da quella che viene chiamata “forma mista”, non prevede alcuno sdoppiamento del narratore, e che quindi, non costituendo un invito a fare molte cose, non avrebbe motivo di essere proibita.

Come afferma Socrate:

C’è una parte della narrazione poetica interamente costruita mediante l’imitazione- come tu dici, la tragedia e la commedia-, un’altra invece attraverso l’allocuzione del poeta stesso (la si può trovare soprattutto nei ditirambi); c’è infine una che si vale di entrambi i mezzi, nella poesia epica e spesso anche altrove (…) (Resp., c1-5).

Il secondo caso è invece costituito dai componimenti che, pur essendo costruiti sull’imitazione, hanno per oggetto le azioni di “uomini coraggiosi (andreious), saggi (sophronas), pii (hosious), liberi (eleutherous) e così via” (395c 4-5), sono insomma componimenti imitativi delle “forme espressive dell’uomo valente (epieikes)” (398b 1-2) e di conseguenza, anche se imitativi, estremamente buoni e utili dal punto di vista paideutico.

Nel caso quindi in cui il poeta si limiti a narrare gli eventi restando se stesso o, come scrive Brisson, senza alienare il proprio io, o nel caso in cui il 34 componimento mimetico abbia per oggetto il modo di vivere dell’uomo valente, allora la kallipolis non solo non si opporrà a questo tipo di poesia,

Cfr. L. Brisson, Platon les mots et les mythes. Comment et pourquoi Platon 34

nomma le mythe? Éditions La Découverte, Paris 1994, pp.85-6: “(…) quand

l’auteur aliène son je au profit d’une autre instance d’énonciation à laquelle il donne un statut de réalité et derrière laquelle il disparaît il y a imitation”.

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ma, consapevole della sua utilità etico-politica, sarà ben felice di consentirne la circolazione.

Come anticipato, sulla natura imitativa dell’arte poetica il personaggio di Socrate torna a parlare nel libro X, muovendo questa volta una critica più severa di quella che abbiamo appena analizzato e soffermandosi sullo statuto più propriamente ontologico della mimesis: non si tratta più di 35 distinguere una mimesis buona da una cattiva, ma di rifiutarla in toto come nociva per la salute psichica del cittadino, soprattutto di colui che, ignorandone l’effettivo statuto, è pronto a scambiarla per la verità.

Per spiegare al suo interlocutore Glaucone che cosa si debba intendere per “imitazione” Socrate procede facendo l’esempio di due oggetti comuni: i letti e i tavoli (596a 1-2). All’insieme di tutti i letti sensibili fabbricati dall’artigiano, spiega Socrate, corrisponde un’unica idea di letto sotto la quale possono essere sussunti (per usare un termine kantiano) tutti i letti sensibili e grazie alla quale ciascun letto può chiamarsi “letto”. Ma, oltre all’idea di letto e ai letti come enti fenomenici, si hanno anche le imitazioni dei letti, vale a dire una serie di letti riprodotti per mano di un artista, un pittore per esempio. La tripartizione sarà quindi la seguente: avremo l’idea di letto (“il letto stesso” o “ciò che è letto”, 597a 5, che è perfetta, unica, immutabile e verso la quale l’artigiano volge lo sguardo come ad un modello mentre è intento a fabbricare un letto); si avrà poi un particolare

Per indicare che l’indagine verterà sullo statuto ontologico dell’imitazione, 35

Socrate afferma di intendere procedere ricorrendo al “metodo consueto”(596a 5-6). Con questa espressione, scrive S. Gastaldi (La mimesis e l’anima, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica,Vol.VII, Bibliopolis, Napoli 2007, p. 98). Platone si sta qui riferendo alla dottrina delle idee, delineata nei libri precedenti (attraverso la definizione della figura del filosofo come unico conoscitore della verità ideale, 494a-485a nonché mediante la teoria del segmento della conoscenza, 509b-511e e l’immagine della caverna, 514a-518b) e grazie alla quale può adesso conferire alla discussione sulla mimesis quella “base fondazionale” che prima mancava.

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letto, copia imperfetta dell’idea di letto; e infine una serie di imitazioni del letto.

Ora, mentre l’idea di letto e il letto particolare presuppongono un atto di produzione (poiesis), l’imitazione del letto propria del pittore non ne prevede alcuna: il pittore imita “ciò di cui gli altri due (il dio e il 36 costruttore di letti) sono artefici” (597e 1-2), ma di per sé non crea niente. Più precisamente, il pittore, raffigurando un oggetto particolare, che come abbiamo detto è già di per sé copia imperfetta dell’idea, copia una copia: la sua imitazione dista dunque “tre gradi dalla realtà” (599a 2), ed è tra tutti gli enti quello più lontano dalla verità e dall’essere in sé. I pittori, e come l o r o t u t t i g l i i m i t a t o r i , s o n o q u i n d i u n a s o r t a d i “prestigiatori” (thaumatopoioi, 235a-b) che attraverso le immagini propongono “cose di scarso valore in rapporto alla verità” (605a 9), simulacri (eidola) e parvenze (phantasmata) della realtà ingannevoli e illusorie. La loro non è una produzione, ma una ri-produzione, e non 37 costituisce una vera techne, giacché non presuppone una compiuta conoscenza dell’oggetto imitato.

Soffermandosi ulteriormente sull’ignoranza dell’imitatore, Socrate propone poi una nuova prospettiva gnoseologica, ancora tripartita, ma secondo un Interessante il fatto che Socrate riconduca l’esistenza delle idee all’opera di un 36

dio. Del letto “che esiste in natura” (dove per “natura” Platone potrebbe intendere, suggerisce Vegetti, “il mondo poetico-ideale”) potremmo affermare che “è stato prodotto da un dio”, leggiamo a 597b 5. Ora, essendo questa l’unica sede in cui si dice che le idee sono “prodotte” (il verbo utilizzato è ergazo) dal dio, è molto probabile che tale tesi sia stata introdotta “a scopi argomentativi, per perfezionare l’analogia con la produzione dei manufatti da parte dell’artigiano e delle loro imitazioni da parte del pittore” (M. Vegetti in Platone, Repubblica, BUR, Milano 2018, p. 1100 n.16).

Efficace mi pare essere il commento di Deleuze tra eikon ed eidolon. 37

Analizzando la presenza del concetto di simulacro nella filosofia antica, Deleuze, riferendosi al platonismo scrive che “se le copie sono garantite dalla somiglianza, i simulacri al contrario sono costruiti sulla dissimilitudine, la quale implica perversione e sviamento”. (G. Deleuze, Logique du sens (1969), trad. it. Logica

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diverso criterio, in cui va ad attribuire al poeta e al produttore un preciso livello di conoscenza, per poi rapportare entrambi alla figura dell’utente il quale, disponendo del vero sapere, quello del modello, risulta superiore a entrambi (601d1 sgg). L’artigiano, spiega Socrate, ha dell’oggetto una “corretta opinione” o “corretta credenza” (pistin orthen o orthe doxa, 601e 7; 602 4-5); chi utilizza l’oggetto fabbricato ne possiede la vera “scienza” (episteme); mentre l’imitatore non ha ne l’una ne l’altra, non sa né come un letto vada costruito, ed è quindi per questo inferiore all’artigiano, né tanto meno “avrà scienza delle cose che ritrae (…) grazie all’uso che ne fa (6023-4).

Pur pronunciandosi su tutto (i poeti scrivono “sulle guerre, il comando in battaglia, il governo della città e ancora sull’educazione dell’uomo”, 599c 7- d 11), i poeti non sanno quindi in verità render conto di queste cose, 38 poiché la loro non è altro che una “pseudo arte (…) con ambizioni di universalità”: lo dimostra il fatto che nessuno di loro abbia mai fornito 39 utili consigli di governo, o abbia mai avuto un gruppo di allievi cui insegnare se non un sapere quanto meno un percorso di vita, come fece ad esempio Pitagora (600b 1).

Questa espressione ricorre molto spesso nell’opera platonica ed è legata alla 38

competenza di colui che possiede scienza (episteme) di qualcosa, il detentore quindi di un certo sapere tecnico. “Un uomo che sa (aner epistamenos), di quello che sa, è in grado di rendere conto (dounai logon)” leggiamo nel Fedone (Phaed., 76b 5). E ancora, nel Gorgia, riferendosi al sapere proprio del medico e contrapponendo questo alla pseudotecnica della culinaria, Socrate afferma che il medico (e in generale ogni detentore di un’autentica techne) “ha studiato la natura di ciò a cui rivolge le sue cure, conosce la causa delle cose che fa ed è quindi capace di rendere ragione di ciascuna di esse (logon… dounai) (Gorg., 501a 1-3).

Così B. Centrone nella sua Introduzione allo Ione (Ippia maggiore, Ippia 39

minore, Ione, Menesseno, trad. a cura di B. Centrone e F. M. Petrucci, Piccola

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3. Verso una riforma del mito

Quali sarebbero allora i miti ammessi nella kallipolis? Su quali criteri (typoi) dovrà basarsi il legislatore per stabilire l’adeguatezza del racconto mitico? Sicuramente potranno essere ammessi tutti i miti che descrivono il dio “quale egli in effetti è” (379a 7-8), vale a dire “buono” (agathos), 40 “utile” (ophelimos) e responsabile dei soli beni: egli infatti, ente 41 supremamente buono, non può causare mali, ma produce solo ciò che, come lui, è buono. Oppure, nel caso in cui arrechi male a qualcuno, questo male non sarà altro che una punizione da cui l’uomo punito potrà imparare come divenire migliore (380a 8- b 12). Il dio dovrebbe inoltre essere descritto e 42 cantato come permanente “nella semplicità della sua forma” (381c 8), e non come un essere composto e capace di mutare aspetto. Come abbiamo già visto infatti, le divinità costituiscono per Platone degli enti semplici e massimamente belli e perfetti, e di conseguenza non potrebbero mai mutare Le caratteristiche che Platone attribuisce al theos, e cioè “la causalità positiva, 40

la permanenza, l’immutabilità e la primarietà ontica” sono le stesse che il personaggio di Socrate ascriverà all’idea del Bene nella celebre allegoria della caverna. Così facendo, vale a dire trasferendo i caratteri ontologici del Bene al divino, Platone si serve di quest’ultimo come di un “vicario” dell’idea del Bene “all’interno delle dinamiche educative e sociali della polis”: ne fa uno strumento paideutico. (F. Ferrari, Theologia, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica, II,

op.cit., pp. 424-25).

F.Ferrari, (a cura di), I miti di Platone, Rizzoli, Milano 2006, p. 39. 41

Come nota giustamente Ferrari, i typoi peri theologias sembrano venir 42

perfettamente rispettati dalla figura del demiurgo che compare nel dialogo del

Timeo: esso è buono, “privo di invidia” (29e 1-2) e responsabile di tutto ciò che

c’è di ordinato e razionale nel mondo. Ma è forse nel libro X delle Leggi che i modelli cui il poeta è chiamato a conformarsi nella sua mitopoiesi sul dio trovano la loro massima applicazione. Qui infatti il personaggio dell’Ateniese narra un mito sulla provvidenza divina con lo scopo di persuadere l’ascoltatore della totale bontà del dio: questi opera sempre e soltanto in vista del bene del tutto. Quindi, se il destino di un singolo uomo si mostra pieno di disgrazie, questo non deve indurci a credere che il dio si stia accanendo contro di lui e desideri la sua infelicità, ma, al contrario, che quel triste destino fa parte del progetto del dio e contribuirà a realizzare la felicità della totalità (Leg., 903d sgg). (F.Ferrari, I miti di Platone,

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in qualcos’altro: come dimostra Socrate ad Adimanto, perché una cosa subisca un mutamento è necessario che essa cambi in peggio (ma nessuno si augurerebbe mai un peggioramento di sé) oppure in meglio (ma, essendo già in una condizione di perfezione, il dio non potrebbe mai divenire meglio di come è). Quindi al dio non è dato mutare. Per quanto riguarda invece la rappresentazione dell’uomo (potremmo anche dire dell’eroe) sulla quale i poeti si dovrebbero basare, Socrate afferma che questi dovrebbero cantare e raccontare l’esatto contrario di quanto fanno adesso (392b): felice dovrebbe essere l’uomo che si comporta secondo giustizia, e non l’ingiusto.

Quindi il mito non andrà rinnegato in toto, ma corretto, purificato da tutte le menzogne sulla natura del divino e dell’eroe. Solo i miti che descriveranno il divino “del tutto semplice e veritiero sia nelle opere sia nelle parole” e incapace di mutare se stesso e di ingannare gli altri “con immagini fantasmatiche o con discorsi o con l’invio di segni, nella veglia o nel sonno” (382e 8-11), e inoltre i miti che eleveranno gli eroi al di sopra dei semplici umani cantando le loro gesta e le loro virtù, solo questi miti, pii e “concordanti con se stessi” (symphona auta hautois) (380c 4), potranno circolare nella kallipolis.

Non è quindi la falsità in sé del mito omerico ed esiodeo la ragione principale per cui il poeta merita l’espulsione dal programma educativo della kallipolis. Oltre che appartenenti al genere dei discorsi falsi, questi miti sono moralmente nocivi per la stabilità intrapsichica del singolo polites nonché della società tutta, ed è dunque su di un piano etico più che epistemico che si fonda la loro proibizione. A testimonianza di ciò, vale a dire del fatto che non è tanto il racconto falso quanto un’implicita esortazione all’irrazionalità e al male che fa problema nell’epica secondo

(31)

Platone, ritroviamo alcune menzogne non criticabili, ma anzi belle e utili, 43 capaci di esercitare sull’anima di chi le ascolta un potere persuasivo buono. Il più famoso esempio in tal senso è senza dubbio la nobile menzogna (ghennaion pseudos) sull’origine degli uomini dalla terra (414b-415d). Pur trattandosi di una menzogna, essa ha un potere estremamente benefico sulla

kallipolis: è una “menzogna politicamente utile”, giacché imprime nella 44 mente dell’ascoltatore schemi mentali e modelli di comportamento in linea con i valori della kallipolis, e che, una volta assimilati, risultano indelebili. 45 Quasi come un incantesimo, senza che il soggetto se ne renda veramente conto, la nobile menzogna persuade chi la ascolta a considerare la sua posizione sociale come qualcosa di naturale, e di conseguenza ad accettare il proprio posto nella società, svolgendo le proprie mansioni spontaneamente, senza aspirare a fare qualcosa di diverso né volendo aggiungere al proprio lavoro altre occupazioni.

Omero, Esiodo e tutti gli altri poeti “autori di racconti falsi” (377d 4-5), 43

narrando di dei che “fanno guerra agli dei e complottando e combattono” (378b 8- c1) esortano i loro ascoltatori a lasciarsi andare agli odii reciproci, e raffigurando eroi inclini a cedere alla violenza delle loro passioni fanno loro credere che sia giusto assegnare il comando della propria anima alle emozioni (quando invece sana e felice è solo l’anima di chi ascolta la ragione).

M. Vegetti in Platone, Repubblica, op. cit., pp. 426-27 n. 66. 44

Confronta a tal proposito due testi di G.Cerri: Platone sociologo della 45

comunicazione, il Saggiatore, Milano, 1991, capp. I e III, e Dalla dialettica all’epos in G.Casertano, La struttura del dialogo platonico, Goffredo Editore,

Napoli, 2000, pp. 7-34. Qui Cerri, proponendo un’analisi “quasi psicoanalitica” del mito platonico, avanza la tesi secondo cui tutti i miti che costellano l’opera platonica possono essere interpretati come una messa in pratica della revisione del mito tracciata nei libri II e III della Repubblica. Speranzoso di realizzare una nuova poesia e una nuova mitologia, sarebbe quindi Platone stesso a fornire degli esempi di mito riformato cui attenersi.

(32)

4. Possibilità di una menzogna “buona” 4.1 La “nobile menzogna”

La nobile menzogna è quel racconto (mythos) sull’origine degli abitanti della kallipolis che il personaggio di Socrate immagina di raccontare ai cittadini della città ideale come espediente (mechane) per rafforzare la virtù politica dell’oikeiopraghia e i valori della solidarietà e amicizia reciproche. Tale menzogna può essere articolata in due racconti: il primo mythos, che richiama il mito fenicio dell’arrivo di Cadmo alla città di Tebe, narra 46 dell’origine degli uomini dalla terra: qui gli uomini “venivano plasmati (demiourgoumene) e allevati, loro e le loro armi”, e quando poi furono “perfettamente approntati, la terra come una madre li mandò fuori” (414 d8-e2). Nel secondo racconto invece non è la terra la madre dei cittadini, ma il dio, che proprio come un artigiano fa con la creta, plasmò ciascun cittadino aggiungendo nella un preciso metallo forgiandone in questo modo la natura.“Quando il dio vi ha plasmato”, racconta il personaggio di Socrate, “nella generazione di quelli tra voi che sono capaci di esercitare il potere ha mescolato dell’oro, perciò sono i più pregevoli; in quella delle guardie, argento; ferro e bronzo nei contadini e negli altri artigiani” (415a 4-7). Di conseguenza, pur avendo la stessa madre, i cittadini della kallipolis possiedono nature diverse, e devono vivere e lavorare nella società senza mai dimenticare quale sia la loro natura, cosa che, in termini pratici, si traduce nel divieto di cambiare classe sociale. Tale divieto non deve però esser seguito in ogni circostanza: nel caso infatti in cui da una coppia di cittadini discenda una progenie di diversa natura (per esempio, nel caso in cui due guardiani abbiano figli di bronzo e non d’argento), allora questi figli dovrebbero immediatamente essere ricondotti tra i cittadini che occupano il Un più esplicito riferimento alla vicenda di Cadmo si può ritrovare nelle Leggi, 46

in cui la favola “dell’uomo venuto da Sidone” costituisce, analogamente alla

Repubblica, un esempio di menzogna politica utile e buona, escogitata “per il

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livello sociale che è loro più conforme per natura, e dove potrebbero quindi assolvere al meglio al proprio dovere. 47

La nobile menzogna costituisce quindi l’espediente che Socrate escogita per convincere i cittadini della kallipolis del fatto di essere tutti fratelli, rafforzando in questo modo i legami fra loro e inducendoli “a prendersi maggior cura della città e gli uni degli altri” (415d 2). Tale menzogna è quindi “nobile” perché nobili sono i risultati ai quali conduce il suo ascolto: essa rafforza i legami di amicizia tra concittadini e persuade ciascun polites della naturalità, della correttezza e potremmo anche dire della necessità di “fare le proprie cose” (ta hautou prattein, 433a 8) senza aspirare a niente di diverso, ma accettando il proprio posto sociale come qualcosa di voluto dal dio. Inoltre, rafforzando la virtù della temperanza (sophrosyne), “una sorta di accordo (symphonia) e di armonia (harmonia) (…) una forma di ordine (kosmos) (…) e la padronanza (enkrateia) su certi piaceri e desideri” (430e 1-5), questa bugia buona mantiene la città ordinata e sana, facendo sì che la moltitudine di bronzo accetti di obbedire ad una minoranza d’oro, e che quest’ultima acconsenta a comandare quella. In breve, la nobile menzogna permette che “governanti e governati condividano la stessa opinione (doxa) su chi debba comandare” (431d 9- e1).

Siamo quindi di fronte ad un mito “designed to promote such devotion to what Socrates will describe as the good city”, un discorso che potrebbe 48 essere annoverato tra i logoi falsi ma utili (chresimoi), vale a dire, come Il mito della nobile menzogna contiene richiami di chiara matrice esiodoea: più 47

precisamente, esso rievoca il celebre “mito delle età” contenuto nelle Opere e i

Giorni (106-201). È opportuno tuttavia sottolineare questa significativa

differenza: se nel caso di Esiodo l’età dell’oro rappresenta un passato idilliaco e nostalgico, per Platone l’oro “represents something humans could be now, in our world” (M. Schofield, Fraternité, inégalité, la parole de Dieu: Plato’s

authoritarian myth of political legitimation, in. C. Partenie (ed.), Plato’s Myths,

Cambridge University Press, Cambridge 2009, p.107): l’età dell’oro è realizzabile, e coincide col governo dei filosofi.

Schofield, op.cit., p. 104. 48

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