• Non ci sono risultati.

L’immortalità dell’anima 1 Le dimostrazion

Come ho già avuto modo di accennare, prima di essere narrata attraverso il

mito escatologico, l’immortalità dell’anima viene dimostrata dal personaggio di Socrate attraverso quattro argomentazioni.

Tuttavia, è importante precisare che nessuno di questi argomenti potrebbe risultare persuasivo se gli interlocutori di Socrate non credessero nell’esistenza delle idee: per credere che l’anima sopravviva alla morte corporea e torni, una volta separatasi dal corpo, a contemplare la bellezza delle realtà intelligibili, è necessario credere che le idee esistano. È quindi “sfruttando” la dottrina delle idee e il rapporto che questa ha con il processo di anamnesi che Socrate arriva a dimostrare l’immortalità dell’anima. Come scrive Guthrie: “(…) his hypothesis is the indipendent existence of ‘a good’ (beautiful, large and so on ‘by itself’ and from this familiar and agreed doctrine he hopes to show cause that the soul is immortal”. 83

Il Fedone contiene quella che può essere considerata la prima esposizione della dottrina delle idee. Pur non approfondendo la questione del rapporto

Ibidem, p. 35.

82

CosìGuthrie, Plato: the man and his dialogues, cit., p.334.

tra sensibile e intelligibile (destinata ad aprire una serie di complesse questioni, come testimonia il dialogo tardo Parmenide) è tuttavia proprio 84 in questo dialogo che il personaggio di Socrate fornisce una prima presentazione delle idee “nella loro modalità effettuale” all’interno di 85 un’ontologia bipartita.

Il primo argomento che il personaggio di Socrate avanza a sostegno

dell’immortalità dell’anima è quello ciclico o dei contrari. Si tratta di dimostrare che esistono nell’Ade le anime dei morti (70c 4), e che queste tornano in vita: che, come ciò che è vivo un giorno sarà morto, così da ciò che è morto potrà rigenerarsi la vita.

Ora, tale argomento si basa sull’idea per cui “tutti gli esseri che hanno nascimento” si generano “non da altro che dai contrari i loro contrari” (ek

ton enantion ta enantia, 70e 1-2). Data una qualsiasi cosa (Socrate fa

l’esempio di un ente piccolo), questa si genera sempre dal suo contrario (in questo caso un ente grande) il quale poi, seguendo un processo generativo opposto al primo (quindi decrescendo) tornerà allo stato iniziale (da grande, piccolo). In virtù di ciò, e dato che vita e morte sono tra loro contrarie, allora potremmo dedurre che la vita si genera dalla morte, e la morte dalla vita: vita e morte costituiscono due poli di un unico ed eterno anello, e ciò che noi uomini chiamiamo “nascita” è invece sempre una rinascita. 86

L’argomento ciclico risulta convincente per Cebète, il quale commenta dicendo che quanto Socrate ha esposto “è esattamente a verità” (pantapasin

alethe, 72d 5) e che “è una realtà il rivivere” (72d 8). Ciò nonostante,

Cfr. Parm., 130a sgg. 84

CosìDi Giuseppe, cit., p. 184.

85

Per un’analisi dettagliata delle prove dell’immortalità, e di questo specifico

86

“argument from alternation, si veda Guthrie (Plato: the man and his dialogues,

Cebète esorta Socrate ad andare oltre, parlando di quella dottrina della quale è solito parlare: la dottrina della reminiscenza.

Socrate inizia descrivendo il rapporto tra gli enti sensibili, e afferma che un sensibile rimanda sempre ad un altro sensibile. Ipotizziamo di percepire visivamente la lira che il mio amato era solito suonare: tale percezione mi farà notare l’assenza dell'amato (mi mostrerà la lira come manchevole dell’amato) richiamandomelo alla mente. Oppure, la percezione visiva del ritratto di Simmia richiamerà la persona di Simmia, legata al dipinto da un rapporto di somiglianza. Ora, anche se il modo in cui la lira è associata all’amato differisce da quello attraverso cui Simmia è legato al proprio ritratto, in entrambi i casi ci troviamo di fronte ad un particolare sensibile che rinvia ad un altro particolare. Quindi, come nota Sedley, vale l’idea 87 per cui a prescindere da quale sia il tipo di connessione che lega tra loro due enti sensibili (se uno richiami all’altro per somiglianza o per qualcos’altro), la presa di coscienza di questa connessione attiverà sempre un processo di reminiscenza.

Avendo mostrato le interconnessioni tra i particolari sensibili, Socrate tratta del sensibile come simbolo del sovrasensibile e stimolo in grado di attivare un processo di anamnesi. Esistono, spiega il filosofo, gli uguali empirici e l’Uguale in sé. Tuttavia, per quanto due enti empirici possano apparire tra loro uguali, non è possibile, trattandosi appunto di enti particolari, che essi siano perfettamente identici; ma, al massimo, possono condividere certi aspetti e risultare più o meno simili.

Si domanda Socrate:

Pietre uguali e legni uguali non accade talvolta che appariscano, anche se gli stessi, a uno eguali, a un altro no? (Phaed., 74b 7-9).

D. Sedley, Form-particular resemblance in Plato’s Phaedo, “Proceedings of the

87

E continua dicendo che

gli uguali in sé (auta ta isa) e insomma l’uguaglianza non è mai disuguaglianza (Phaed., 74c 1-2).

Nel momento in cui, osservando due oggetti apparentemente uguali, ci si rende conto degli aspetti sotto i quali questi differiscono, e si prende così coscienza del fatto che la loro uguaglianza è in verità solo apparente, verremo indotti a riflettere circa la possibilità che esista qualcosa che sia

perfettamente uguale, e così facendo, ipotizzando quindi l’esistenza

dell’Uguale in sé, recupereremo l’idea di Uguaglianza già posseduta nella nostra anima sotto forma di ricordo, e attiveremo così il processo di reminiscenza. Il procedimento anamnestico muove da uno stimolo sensibile, il quale costituisce l’input a partire dal quale il soggetto arriva a ricordare il contenuto della contemplazione intelligibile, e, una volta rievocatolo, a ridiscendere al livello del sensibile per poterlo meglio comprendere.

Potremmo quindi articolare il processo di reminiscenza nei seguenti tre “movimenti” :

1. L’ “acquisizione positiva di una distanza”: comprendendo il gap tra la 88 somiglianza sensibile e l’uguaglianza intelligibile, il soggetto deduce la distanza ontologica che separa queste due sfere.

2. Rievocazione dell’intelligibile

3. Ridiscesa al divenire, al quale l’intelligibile può dare un senso. 89

CosìDi Giuseppe, cit., p.195.

88

Il divenire manca di un “potere auto-giustificatorio”. (Così V. Meattini,

89

La dottrina della reminiscenza non è specifica del Fedone, ma ricorre in molti altri dialoghi, e, presentandosi ora come argomento principe ora come presupposto epistemologico, costituisce un caposaldo della teoria della conoscenza platonica.

Nel Menone per esempio, per dimostrare che ciò che gli uomini chiamano 90 apprendimento è in realtà reminiscenza, Socrate guida un giovane schiavo (privo di qualsivoglia nozione di geometria) nell’operazione di raddoppiamento dell’area di un quadrato (82 sgg). Senza fornire alcuna risposta, ma limitandosi a porre le giuste domande, Socrate riesce a risvegliare nello schiavo concetti geometrici che l’anima di questi già possedeva in forma latente, e arriva così a dimostrare la fondatezza della dottrina della reminiscenza.

Come nel Fedone, così anche nel Menone l’anamnesi e l’immortalità dell’anima sono legate da un rapporto di coimplicazione. L’anima, leggiamo nel Menone, “muore e rinasce” (palin ghignesthai) e, “avendo visto” (heorakuia) tutte le cose (sia quelle di questo mondo che quelle dell’Ade) non c’è niente che essa non abbia “appreso” (mematheken) e che non possa quindi far “risvegliare” (anakekinentai).In questo “cercare” (zetein) e “apprendere” (manthanein) consiste la reminiscenza (81d 4-5): basta che al soggetto che ricerca vengano poste le giuste domande (come fa Socrate con lo schiavo) e questi, passando prima dalla formulazione di opinioni corrette, e fissandole poi con un ragionamento causale, si formerà una conoscenza (98a 4-8). 91

Per un confronto tra il Menone e il Fedone rispetto al tema dell’anamnesi si

90

veda Allen R.E., Anamnesis in Plato’s “Meno and Phaedo”, “The Review of Metaphysics”, 13 (1) (1959), pp. 165-174.

Come nota giustamente Meattini, necessaria alla realizzazione del processo di

91

anamnesi è dunque la maieutica, la guida dialettica di un Socrate che sappia far partorire al verità. (Cfr. Meattini, cit., p.33)

La visione che Platone propone del processo di anamnesi è quindi nel

Menone chiaramente ottimistica: chiunque (persino uno schiavo!) può

rievocare conoscenze latenti raggiungendo la verità, e quindi vale la pena sopportare le fatiche che la ricerca conoscitiva implica.

Diversa è invece la visione presentata nel Fedro. Qui l’anamnesi sembra essere definita come una possibilità che non tutti hanno, e la ricerca della verità è dunque concepita in un senso che potremmo definire “elitario”. In questo dialogo, in cui Platone unisce la critica alla retorica sofistica al tema dell’amore, domina l’idea per cui, durante la loro fase prenatale, le anime sono state nutrite della verità in modo ineguale, e ciò fa sì che non tutti siano in realtà in grado di attivare il processo della reminiscenza. Come nota Droz, nel Fedro la reminiscenza è funzionale alla spiegazione della “diversità dei comportamenti emozionali”, ed è per questo che l’anamnesi 92 viene descritta come una cosa non per tutti: per giustificare l’eterogeneità dei comportamenti dei soggetti morali di fronte alla mania amorosa.

Arrivati a questo punto dell’argomentazione, Simmia e Cebète fanno notare a

Socrate che con la dottrina della reminiscenza è stata dimostrata la preesistenza dell’anima alla nascita corporea, ma non la sua immortalità: ciò che serve ora dimostrare è che una volta separatasi dal corpo l’anima seguiti a esistere e non si disperda (77b 1-9). Come afferma Cebète:

Ed è chiaro che s’è dimostrata, dirò così, la metà soltanto di quello che bisognava, e cioè che la nostra anima esisteva innanzi che noi fossimo nati; ma, oltre questo, c’è da mostrare che anche quando si è morti, l’anime séguita a esistere non meno di quando non si era ancora nati , se la nostra dimostrazione vuole essere compiuta (Phaed., 77c 1-5).

G. Droz, op.cit., p.75.

Per dimostrare che l’anima sopravvive alla morte del corpo Socrate domanda ai suoi interlocutori a quale genere di cosa conviene (prosekei) di essere soggetta al rischio di disperdersi: se a ciò che è “composto” (synthete) o a ciò che non è composto (asyntheton). Ed aggiunge:

Se c’è cosa che appunto sia non composta, non a questa sola, se mai ad alcuna, si conviene non esser soggetta a questa decomposizione? (Phaed., 78c 3-4).

Ora, non composte sono le cose che “permangono sempre costanti e invariabili”: perciò le idee, che non patiscono alcuna alterazione, saranno da considerare tra gli enti non-composti, mentre le realtà sensibili dovranno essere necessariamente ricondotte ciò che è composto.

A questo punto Socrate domanda a Simmia e Cebète se è possibile distinguere tra tutte le cose una specie di cose invisibili ed una di cose visibili, e se si possa poi dire che mentre le prime sono sempre costanti, le seconde non lo sono mai. Ottenuto il consenso dei due amici, Socrate afferma che l’anima è “più simile” (homoioteron, 79b 6) all’invisibile, così come il corpo somiglia di più a ciò che è visibile: di conseguenza, si dovrà concludere che l’anima è “congenere” (synghenes, 79d 3) alle idee, e “simile al divino” (homoion toi theioi, 80a 3). Come afferma Socrate:

(…) al divino all’immortale all’intelligibile all’uniforme all’indissolubile e insomma a ciò che rimane sempre con se medesimo invariabilmente costante, è simigliantissima l’anima (…) viceversa, all’umano al mortale al multiforme al sensibile al dissolubile, e insomma a ciò che non è mai con se medesimo costante, è simigliantissimo il corpo (Phaed., 80b 1-5).

Tuttavia, neanche questo argomento trova il totale consenso di Simmia e Cebete. Il primo dei due propone di comparare il corpo allo strumento della lira e, facendo riferimento a quanto Socrate aveva precedentemente detto in merito all’invisibilità dell’anima (79b 9 sgg), paragona quest’ultima agli accordi musicali che è possibile suonare con la lira.

Ora, per produrre un accordo musicale, è indispensabile avere lo strumento fisico della lira; ma “(…) se uno, rotta la lira o tagliate e strappate le corde, si facesse forte del tuo ragionamento” (86a 3-5), dice Simmia a Socrate, dovrebbe dire che l’accordo musicale è possibile anche senza il supporto fisico dello strumento, e ciò è chiaramente impossibile.

D’altra natura sono invece le incertezze di Cebete. Basare l’immortalità dell’anima sulla sua indistruttibilità o, detto altrimenti, sulla maggior resistenza di questa rispetto al corpo, sarebbe come dire che il mantello che ho comprato e che tutt’ora porto deve necessariamente esser stato realizzato da un tessitore ancora in vita, essendo la persona del tessitore meno fragile e più duratura dell’oggetto del mantello (87b 4sgg).

Senza soffermarmi sui chiarimenti che Socrate fornisce in risposta alle obiezioni dei suoi giovani amici, vorrei passare direttamente all’analisi della parte conclusiva del discorso di Socrate, giacché è in questa sede che il filosofo, tornando a parlare del rapporto tra cose e idee, avanza la prova più importante dell’immortalità dell’anima.

Esponendo il secondo argomento a favore dell’immortalità dell’anima (l’argomento della reminiscenza) Socrate aveva già avuto modo di far riferimento al rapporto tra ente particolare ed ente intelligibile. Come ricorderemo, Socrate aveva preso ad esempio due enti particolari (apparentemente) uguali e, rapportandoli all’Uguale in sé aveva affermato

che l’uguale sensibile difetta (endei, 74d 6; 74e 1) dall’idea di Uguaglianza, ed è destinato a restargli inferiore (phauloteron, 74e 2). 93

A questo punto del dialogo Socrate torna a parare della dottrina delle idee, e ascrive all’idea un potere causale sulla cosa particolare. Come afferma il filosofo:

A me pare infatti che, se c’è cosa bella all’infuori del bello in sé per nessun’altra cagione sia bella se non perché partecipa (metechei) di codesto bello in sé (Phaed., 100c 4-6).

Quindi “tutte le cose sono belle per il bello” (toi kaloi panta ta kala

<ghignetai> kala, 100d 7-8), e prendono il nome di “belle” partecipando

dell’idea di Bellezza (102b 1-3): lo stesso dicasi poi di qualsiasi altra cosa. La neve, ad esempio, è fredda perché partecipa del freddo, così come il fuoco è caldo perché partecipa dell’idea di caldo (103c 10-d 12). E ancora, il numero due è pari perché partecipa dell’idea della Parità, proprio come il numero tre rispetto all’idea di Dispari: ma soprattutto il due sarà sempre pari, e il tre sempre dispari (così come il fuoco sempre caldo e la neve sempre fredda) perché l’idea di parità e quella di disparità sono tra loro contrarie, e si escludono a vicenda.

Dato quindi che una cosa che partecipa di una certa idea non può partecipare anche dell’idea a questa contraria seguitando ad essere ciò che è, allora, essendo la vita e la morte tra loro contrarie, e dato che l’anima partecipa per essenza dell’idea di vita, se ne dovrà dedurre che l’anima partecipa solo della vita, e tale partecipazione le conferirà il carattere dell’immortalità.

Prima di concludere l’analisi della questione dell’immortalità e passare ad esaminare il mito escatologico, vorrei soffermarmi brevemente sul seguente

Cfr. 74a-75a.

aspetto. L’idea che l’anima, partecipando della vita, sia principio vitale non viene dimostrata da Socrate, ma posta come premessa necessaria e unanimemente accettata. Socrate si limita ad affermare che l’anima 94 “qualunque cosa ella investa di sé, sempre dove entra arreca vita (pherousa

zoen) (105d 3-4)”, e unendo ciò, il fatto quindi che la vita caratterizzi essenzialmente (e non accidentalmente) l’anima, all’idea per cui due idee

contrarie si escludono a vicenda, arriva a dedurre l’immortalità dell’anima. Ora, come sappiamo la nozione dell’anima come principio vitale caratterizza la cultura greca fin dai poemi omerici. In Omero essa è chiamata “soffio vitale” e quando lascia il corpo (di solito attraverso la bocca) e vola via nell’Ade, per l’individuo sopraggiunge la morte. Non dando dimostrazione dell’anima come cagione di vita, Platone sta quindi in realtà presupponendo un patrimonio culturale, che sa essere noto e unanimemente condiviso dai suoi interlocutori. Non a caso, Socrate si era precedentemente rivolto a Cebète con queste parole:

A ogni modo mi pare che tu e Simmia anche su questo punto avreste piacere di investigare un poco più a fondo; e che siate come i ragazzi, con la paura addosso che veramente, quando la vostra anima sarà lì per uscire dal corpo, il vento la soffi via e la disperda del tutto; massime poi chi si trovi a morire non già in un momento di calma, ma in mezzo a una grande bufera (Phaed., 77d 5-e 2).

La nozione di anima come principio vitale e fonte di energia era senza dubbio un dato familiare sia per Platone che per il suo pubblico. A tal proposito Guthrie, riferendosi all’immagine di anima come “principio di movimento” (arche kineseos) (si tratta, come sappiamo, della definizione di

Come scrive Valgimigli, che l’anima sia cagione di vita si accetta senza

94

dimostrazione come si accetta che il fuoco arreca calore, la febbre malattia e la monade disparità. ( M. Valgimigli in Platone, Fedone, Laterza, Bari 2000, p.192 n. 187).

anima che Platone fornisce nel Fedro) scrive che questa “represented an ancient view of soul which must always have been familiar to him”. 95