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Il mito di Er: un esempio di mitologia positiva

4. Possibilità di una menzogna “buona” 1 La “nobile menzogna”

4.2 Il mito di Er: un esempio di mitologia positiva

Come è noto, la Repubblica, e così l’intera discussione sul tema della

giustizia, si conclude con un racconto escatologico, un “mito” (mythos), o “discorso” (logos), come viene inizialmente definito dal personaggio di Socrate (614a 8) sull’incredibile storia di Er, un valoroso guerriero

F. Calabi, La nobile menzogna, in M. Vegetti (a cura di), La Repubblica. Vol.II, 49

originario della Pamfilia, il quale, morto in battaglia, compì un viaggio nell’Aldilà, e poi resuscitò. È quindi grazie ad Er, e alla scelta socratica di riportare la sua storia, che possiamo conoscere quale sia il vero destino che attende l’anima nel mondo oltremondano.

Ora, tale mito narra che ciascuna anima verrà giudicata per la condotta 50 tenuta nella vita passata, ricevendo premi o punizioni a seconda che abbia vissuto nella giustizia o nell’ingiustizia: all’uomo giusto spetteranno “le gioie e le visioni di indicibile bellezza” (615a 3-4) e per ogni bene compiuto riceverà ricompense moltiplicate per dieci. Colui che invece avrà vissuto nell’ingiustizia dovrà pagare per ogni male commesso “sofferenze decuple” (615b 4), e coloro che si riveleranno “criminali incurabili”, vale a dire tutti gli uomini che avranno reso la loro anima irrecuperabile a forza di atti empi e ingiusti, dopo aver subìto terribili punizioni, verranno gettati nel Tartaro. È interessante interrogarsi sul significato e sulla funzione che tale mito va ad assolvere all’interno del dialogo. Innanzitutto, viene spontaneo domandarsi come sia possibile che, dopo l’effetto dei racconti sull’Aldilà narrati dalle vecchiette in quanto atti a suscitare il timore della morte, Platone inserisca alla fine della sua opera proprio un mito sul destino oltremondano dell’anima. Questi miti sull’Aldilà, aveva affermato il personaggio di Cefalo nel libro I, raccontando “che chi ha commesso qui ingiustizia debba laggiù pagarne il fio”, se da giovani li si può facilmente deridere, quando si è ormai vecchi e prossimi alla morte, suscitano nella nostra anima una tremenda paura, portandoci ad interrogarci sul modo in cui abbiamo vissuto, a dubitare della bontà delle nostre azioni e a

preoccuparci per la sorte che ci attende dopo la morte (Resp., 330d 7- e3). 51

Ma oltre a questa incongruenza (che nel corso del presente paragrafo intendo mostrare essere solo apparente), il mito di Er sembrerebbe fuori luogo anche sotto un altro e ancor più significativo aspetto: perché Socrate, pur avendo già vinto la sfida lanciatagli da Trasimaco e dimostrato ai suoi interlocutori che la vita del giusto è preferibile a quella dell’ingiusto e che, contrariamente a quanto sostiene Glaucone, la giustizia fa parte del genere di beni da perseguire non solo per i vantaggi che procurano ma anche per se stessi (Resp., 358a 1-3), conclude l’intera ricerca sulla giustizia con un mito che esorta l’individuo ad essere giusto promettendogli una serie di premi? Se è vero quanto Socrate afferma, che cioè la giustizia è il bene più alto ed è ricercare per se stessa, allora la presenza di questo racconto appare a dir poco problematica. Come si domanda giustamente la Annas: “What then can be the point of claiming that justice will bring rewards (…) when such a claim would put it in the wrong class, of things wanted for their consequences?”. 52

Prima di cercare di sciogliere queste incongruenze e di soffermarmi su alcuni punti salienti del racconto escatologico, vorrei analizzare il ragionamento, precedente alla narrazione del mito, che Socrate espone a Glaucone per dimostrargli che l’anima è immortale (athanatos).

Come nota Vegetti, l’intera ricerca sul significato di “giustizia” muove 51

essenzialmente da queste parole di Cefalo, preoccupato per la sorte che attende l’anima nell’Aldilà, e desideroso di conoscere come ci si debba comportare per evitare le terribili pene dell’Ade. Il fatto poi che l’intero dialogo si concluda proprio con un mito sul destino dell’anima nel mondo oltremondano è estremamente significativo, giacché indica la scelta platonica di conferire alla propria opera una composizione ad anello (M.Vegetti (a cura di), La Repubblica. Vol. I, op.cit., p. 36). A tal proposito si veda anche G. Cerri, cit., pp. 28-29.

J. Annas, Plato’s Myth of Judgement, in “Phronesis”, 27, 1982, p.130. 52

Partendo dal presupposto per cui vi sono cose cattive e cose buone, Socrate afferma che tra le prime debbono essere annoverate quelle che corrompono, mentre tra le seconde quelle che conservano (608d 11-e 5). Ora, per ciascuna cosa è possibile individuare un male e un bene suoi propri: ad esempio, il male connaturato al corpo, cioè che è in grado di peggiorarlo e in alcuni casi di dissolverlo, è chiaramente la malattia, mentre il suo bene coincide con la salute. Un corpo quindi perirà per malattia e si conserverà se in salute. Nel caso però in cui si riesca a trovare un male che, pur causando il peggioramento della cosa di cui è male, non riesce comunque a distruggerla, saremo allora costretti ad affermare che quella data cosa, che non perisce per il male che le è connaturato, è immortale. E la sola cosa, conclude Socrate, che riesce a sopravvivere al proprio male, vale a dire il solo ente per il quale il male che le è connaturato non ha una “natura assassina” (610d) è l’anima: diversamente dal corpo e da qualsiasi altro ente, un’anima ingiusta (essendo l’ingiustizia il male proprio dell’anima) non muore di ingiustizia, e se non può perire per il difetto e il male suoi propri, di sicuro non saranno in grado di distruggerla mali destinati a distruggere altre cose. Quindi, l’anima è immortale.

Se l’anima quindi è “eterna” (aidion), prosegue Socrate rivolgendosi a Glaucone “capisci che vi saranno sempre le stesse anime, poiché se nessuna di esse perisce, queste non potranno né diminuire né aumentare di numero” (611a 4-5). E ciò rende necessario presupporre un eterno ciclo di reincarnazione.

A questo punto, dopo aver dimostrato che l’anima è athanatos, e che la reincarnazione è una conseguenza dell’immortalità, Socrate può cominciare a riportare il racconto di Er. Ma prima è necessaria una piccola premessa: quello su Er non è un racconto come “quelli narrati da Alcinoo” (614b 2), ma un “discorso” (logos) che riporta la vicenda di un uomo realmente esistito, e che poggia quindi su un piano di verità superiore a quello di tutti i

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miti della tradizione. Non stiamo insomma per ascoltare una semplice storiella sull’Aldilà, ma un racconto vero e meritevole di essere ascoltato con la massima attenzione perché, come Socrate concluderà alla fine del dialogo, se gli presteremo fede, ci garantiremo la salvezza (621c 1).

Dando qui per note la ricchezza e la complessità di contenuti che il mito di Er contiene, ed evitando di soffermarmi sulla descrizione topografica dell’Aldilà, vorrei focalizzarmi sul tema della scelta (airesis) che l’anima è chiamata a compiere rispetto ad una serie di modelli di vita (bion

paradeigmata) che le vengono presentati. Una volta che le anime buone

hanno goduto i loro premi e quelle cattive hanno scontato le pene loro assegnate, ciascuna di esse è chiamata a scegliere una nuova vita, e con “vita” non si deve semplicemente intendere un nuovo corpo in cui incarnarsi: ciò che l’anima sceglie è piuttosto un’intera esistenza, con tutti i suoi eventi e, significativamente, con tutte le scelte che l’anima incarnata compirà di fronte a tali eventi. La scelta suprema ha quindi per oggetto un destino, ed è una scelta che l’anima fa del tutto liberamente e rispetto a cui è chiamata a considerarsi completamente responsabile.

Come si legge nel mito:

Non sarà un demone (daimon) a scegliere (lexetai) voi, ma voi a scegliere (hairesesthe) il demone (Resp., 617e 1-2).

E ancora

La responsabilità (aitia) è di chi sceglie (helomenou): un dio non è responsabile (Resp., 617e 4-5).

Diversamente da quella suprema, le scelte che l’anima prenderà una volta incarnatasi, essendo già state prese nell’Aldilà, non saranno vere scelte, ma solo realizzazioni di un destino scelto. Prendendo come esempio il caso dell’uomo che sceglie “la maggiore tirannide” (619b 8), diremo che questi

non sceglierà veramente di salire al potere, diventare un tiranno e divorare i propri figli, ma, più semplicemente, realizzerà attraverso queste azioni il suo destino. Certo, anche la scelta suprema prevede alcune limitazioni: l’anima può scegliere tra un numero finito di vite, non ha la possibilità di non scegliere e inoltre, una volta effettuata, la scelta viene sancita dalle Moire divenendo così irreversibile. Ma si tratta comunque una scelta libera, fatta cioè da un’anima informata e in grado di riflettere sui pro e i contro che una data scelta di vita comporterebbe. 53

Ma arriviamo all’aspetto più importante del tema della scelta: come può un’anima scegliere bene? E cosa significa scegliere bene?

Il mito narra che prima che ciascuna anima scelga la propria vita, un araldo divino prende dalle ginocchia della dea Lachesi le “sorti” (klerous) e le lancia vicino alle anime, ciascuna delle quali prende la sorte che le è più vicina, stabilendo così l’ordine da seguire nella scelta.

Ci verrebbe da pensare che la prima anima avrà più probabilità di scegliere bene rispetto all’ultima, ma in realtà questo è vero solo da un punto di vista matematico. La possibilità di scegliere per prima non garantisce all’anima una scelta saggia: essa potrebbe non saper distinguere una vita buona da una cattiva, oppure, reduce dai premi appena ricevuti, potrebbe scegliere con troppa leggerezza e finire, come è proprio il caso dell’anima che sceglie la vita del tiranno, per pentirsi amaramente della propria imprudenza. Per “discernere la vita degna da quella malvagia” e “scegliere, in ogni occasione e ovunque, la migliore fra quelle possibili” (618c 4-5) serve una scienza (episteme). Detto altrimenti, ciò che veramente distingue una scelta buona da una cattiva è la conoscenza del fatto che la vita migliore coincide con quella giusta (618e 1-2), e che la felicità sta nella “vita mediana”, lontana dagli eccessi. Quindi, solo chi avrà praticato una “sempre sana

Cfr. G. Droz, Les mythes platoniciens (1972), trad.it. I miti platonici, Edizioni 53

filosofia” e avrà un po’ di fortuna nel sorteggio delle sorti, potrà garantirsi maggiori possibilità di scegliere bene, assicurandosi così la felicità in questo mondo e compiendo “il viaggio da qui a lì e da lì a qui non per una strada sotterranea e aspra, ma liscia e celeste” (619d 3-e 2). È quindi il bios

philosophikos l’unico da cui deriva la felicità sia in questa vita che 54 nell’Aldilà. Sembra aver ragione quindi Ferrari nel sottolineare che quello del destino dell’anima nell’Aldilà è solo l’argomento “dichiarato” del mito, ma è ben lontano dal costituirne il cuore pulsante: ciò che in verità il personaggio di Socrate vuole davvero trasmettere ai suoi interlocutori con questo racconto riguarda piuttosto i benefici che il bios philosophikos è in grado di garantire a chi lo sceglie: accettando la sfida di perseguire la giustizia per quello che è e non per i beni che la società potrebbe riconoscergli, il filosofo fa l’utile e il bene della propria anima, rendendola ordinata e felice in questa vita e premiata nell’Aldilà. Gonzalez va 55 addirittura più in là. Infatti rileva alcuni tratti peculiari del mito, come il fatto che le anime descritte nel mito, dotate della capacità di movimento nonché in grado di parlare, “seem indistinguishable from their embodiment counterparts in this world”. Inoltre Er narra che tutte le anime, sia quelle che sono state premiate che quelle che hanno subìto terribili punizioni, si avviano allegramente (hasmenas, 614e 2) verso il prato, ben contente di reincarnarsi. Per queste ragioni, descrivendo le anime del tutto simili a

persone, e raffigurando la reincarnazione come una possibilità rispetto alla

quale persino un’anima beatamente disincarnata si mostra felice, Gonzalez suggerisce che il mito più che parlare dell’Aldilà, sia un elogio di questo

Cfr. G.R.F Ferrari, Glaucon’s reward, philosophy’s debt: the myth of Er. in C. 54

Partenie, op.cit., pp. 116-33.

Cfr. Gonzalez, Combating oblivion: the myth of Er as both philosophy’s 55

challenge ad inspiration, in C. Collobert, P. Destrée, F. J. Gonzalez (eds), Plato and myth: studies on the use and status of Platonic myths, Brill, Boston

mondo: il mito di Er “celebrates generation and embodiment”. Gonzalez 56 conclude dunque che “philosophy in therefore not according to the myth a

necessary condition for choosing a good life (…) not a sufficient condition

for choosing a good life”. Il mito mostrerebbe insomma che per scegliere

bene all’anima serve una certa qual dose di fortuna, senza considerare il

fatto che molti malvagi riescono, memori delle pene patite, a scegliere meglio delle anime che hanno appena ricevuto bellissimi premi, garantendosi così una reincarnazione più felice. Perciò, conclude Gonzalez, è legittimo ipotizzare che il mito di Er non rappresenti né un’esortazione al

bios philosophikos, né un’elogio della virtù della phronesis, ma sia piuttosto

un’allegoria della vita della nostra anima in questo mondo, con i suoi lati comici e tragici.

In ogni caso, da entrambe le interpretazioni risulta che, diversamente dagli altri miti escatologici di Platone, quello della Repubblica punta su un problema di responsabilità dentro questa vita.

Quindi, se dopo esser state premiate o punite a seconda della loro condotta nella vita passata, le anime possono scegliere una nuova vita (bios), e se la condotta che hanno tenuto nella vita precedente risulta del tutto irrilevante, se non in alcuni casi svantaggiosa (scegliendo “secondo le abitudini della vita precedente”, le anime di coloro che sono stati giusti e che hanno quindi ricevuto bellissimi premi possono rischiare di prendere una decisione avventata e poco saggia, mentre gli ingiusti, che hanno conosciuto le pene che l’Aldilà sa infliggere, finiscono spesso con lo scegliere il modello di vita di un uomo virtuoso), allora dobbiamo concludere che, diversamente da quanto emerge nel racconto escatologico del Gorgia (523a 1- 527e 7), in questo caso il giudizio a cui vengono sottoposte le anime non risulta essere davvero determinante. In breve, quello che si verifica è un paradossale

Ivi , p. 261.

“exchange of positions”: le anime buone tendono a scegliere male, mentre quelle cattive bene. Quello presentato nel mito di Er non è quindi lo 57 scenario di un giudizio finale, ma solamente “one episode in a continuing cycle of endless reincarnations”: con la morte e la separazione dal corpo, 58 l’anima si libera dai propri passati vizi e virtù e diviene (o forse dovremmo dire “torna ad essere”, dato che quello della reincarnazione è un ciclo eterno) un “pure chooser”, libera di compiere una scelta buona o cattiva. 59 Di conseguenza, proprio perché il giudizio che attende le anime nell’Aldilà non è definitivo, né lo sono i premi che spettano all’anima giusta, allora dovremmo concludere che con questo racconto Socrate, perfettamente in linea con l’argomento morale del dialogo, non vuole far altro che tornare alla tesi del valore intrinseco della giustizia e dire che, dato che i premi oltremondani che la giustizia garantisce sono solo temporanei e hanno ben poco significato, allora la giustizia va preferita all’ingiustizia per quello che è di per sé, e perché ci permette di essere felici già in questo mondo.

Il mito di Er non ha quindi un carattere fondativo, giacché Socrate ha già trovato, razionalmente, attraverso il discorso sulla città ideale, quale sia il fondamento della giustizia. Esso serve piuttosto a rafforzare la tesi del bene intrinseco della giustizia, persuadendo alla vita giusta tutti coloro che, diversamente dal filosofo, seguono il valore di questa virtù perché così prescrive la città, ma non perché la riconoscono in quanto massimo bene. Con questo racconto escatologico Socrate, rivolgendosi a tutti coloro cui è precluso un “accesso autonomo al valore trascendentale della giustizia”, ai

Cfr. G.R.F Ferrari, op.cit., p. 127. 57

J. Annas, op.cit., p. 131. 58

Cfr. H.S Thayer, The Myth of Er, “History of philosophy Quarterly”, 5, 1988, p. 59

soggetti morali “eterodiretti”, intende compiere “un ulteriore sforzo di 60 convincimento ad imboccar la via della riforma politica e morale della vita di ognuno e di quella collettiva”. Consapevole che la dialettica possa 61 risultare fallimentare di fronte ad un’anima incapace di comprendere la complessità del discorso filosofico, Socrate chiede il soccorso del mito, e fa appello alla sua natura persuasiva e psicagogica. Perché sebbene il racconto mitico non possa esser posto sullo stesso piano del discorso razionale per quanto concerne la capacità di attingere al vero, esso possiede comunque 62 un grande potere che lo rende superiore al logos: sa persuadere coloro che 63 gli prestano ascolto, modellandone e modificandone in maniera irreversibile il comportamento, ed è per questo il più efficace di tutti gli strumenti di cui potersi servire per una riforma etico-politica come quella che Platone scrive nella Repubblica. Per citare Brisson, il mito possiede “une utilité certaine dans les domaines de l’éthique et de la politique, où il constitue, pour le philosophe et le législateur, un remarquable instrument de persuasion”. 64 Ciò significa che “l’intérêt que présente le mythe ne réside pas ni dans sa valeur de vérité ni dans la force de son argumentation, mais dans son utilité sur le plan de l’éthique e de la politique”. 65

Cfr. F. De Luise, Il mito di Er: significati morali, in M. Vegetti (a cura di), La 60

Repubblica, Vol.VII, Edizioni Bibliopolis, Napoli 2007, p. 337.

M. Vegetti, Introduzione a Platone, Repubblica, Laterza, Bari 1994, p. 10. 61

Cfr. Droz, op. cit, pp. 9-10: “il mito non pretende di attingere alla verità certa”, 62

ma è solamente “un metodo per cercare il vero, e un modo per esporre il verosimile”.

Ferrari (I miti di Platone, op.cit., p. 26). concorda sul fatto che il mito possegga 63

una funzione essenzialmente psicagogica, che sappia quindi persuadere le componenti irrazionali dell’anima ad accettare il comando della ragione, in modo tale che l’individuo, guidato dal logos, possa orientarsi o (ri)orientarsi verso una vita eticamente e politicamente virtuosa

Cfr. Brisson, op. cit., p. 171. 64

Ivi, p. 143. 65

Riassumendo, la critica alla poesia e alla figura del poeta imitatore che troviamo nella Repubblica non dovrebbe, credo, autorizzarci a vedere in Platone un nemico tout court dei poeti, né indurci ad ascrivere al filosofo una critica radicale alla mitologia tradizionale. Il bersaglio della critica platonica è in verità un altro: Platone non può accettare che Omero, in quanto poeta e quindi, per via della relazione privilegiata che intrattiene con le Muse, uomo “sacro”, sia considerato un maestro dei Greci, e che il modello etico che i suoi versi propongono (potremmo anche parlare di bios

homerikos) abbia assunto un’importanza sociale tale da finire per 66 coincidere con il bios hellenikos. Omero, e come lui tutti i poeti, non può 67 costituire un esempio educativo semplicemente perché la poesia non è una scienza, ma una forma di mania. Alla fine quindi Platone si mostra in grado di accettare un compromesso: non si tratterà di rifiutare in toto la poesia, ma di riformarla, purificandola dai contenuti inadatti alla città in quanto empi, e accettando “solo quel tanto della poesia che consiste negli inni agli dei e negli encomi degli uomini buoni” (Resp., 607a 3-5).

Per quanto concerne poi la mimesis poetica, anche in questo caso la critica platonica non risulta radicale: anche se la sua ontologia gli impedisce di valutare positivamente i concetti di copia e di imitazione, Platone è comunque consapevole della possibilità di sfruttare la natura mimetica della poesia per scopi paideutici, infondendo negli animi dei giovani guardiani le virtù dell’uomo dabbene, e di far leva sulla forza psicagogica e incantatrice

Cfr. Gastaldi, La mimesis e l’anima, op. cit., p. 114. 66

Così G. Naddaf, Poetic Myths of the Afterlife: Plato’s Last Song, in. R. Benitez 67

e K. Wang, Reflections on Plato’s Poetics: Essays from Beijing. Academic Printing & Publishing, 2016, pp. 111-12.

del mito per esprimere una verità non logica, ma etica che il discorso 68 dialettico non saprebbe trasmettere con la stessa efficacia.

F. Ferrari, I miti di Platone, op. cit., p. 20. 68

Capitolo secondo

L’anima e il suo destino nell’escatologia del Fedone

1. Il Fedone: un dialogo sull’anima