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Espiabililità, inespiabilità e purgazione

3. Dalla dimostrazione al mito

3.2 Espiabililità, inespiabilità e purgazione

Le anime che vengono presentate nel mito escatologico possono essere

suddivise in due macro-gruppi: quelle dei buoni, che hanno vissuto “bene” (kalos, 113d 3) e si sono distinte “per la santità della vita” (pros to

hosios bionai, 115b 7) e quelle dei non buoni. Per le anime del primo

gruppo è previsto un destino di beatitudine e disincarnazione: i buoni, narra il mito, abiteranno la vera terra, “liberi e sciolti” (eleutheroumenoi te kai

apalattomenoi, 114b 8) dai luoghi terreni; e tra questi, le anime di coloro

che saranno divenuti puri praticando la filosofia giungeranno in abitazioni ancora più belle, “le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente” (114c 4-6).

Il secondo gruppo è molto più vario del primo: esso comprende le anime di coloro che si macchiarono di colpe inespiabili; le anime di quelli che hanno commesso colpe gravi ma espiabili (i pentiti), e infine le anime di chi commise colpe non gravi, tenendo nella vita “una via di mezzo” (mesos 113d 4). Per coloro che sono riconosciuti in uno stato di “inespiabilità” (aniatos, 113e 2) è previsto il destino più infelice di tutti, giacché questi verranno gettati (e non accompagnati, come è invece previsto per tutte le altre anime) nel Tartaro e lì castigati per l’eternità. Coloro invece Nell’Ade le anime subiscono “quella sorte che debbono subire“ (tychontas de

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ekei hon de tychein” e aspettano “quel tempo che devono aspettare” (meinantas hon chre chronon) (107e 2-3).

Droz, cit., p. 121.

che hanno compiuto sia azioni buone che azioni cattive (le “persone di media virtù”,come le definisce Le Goff, le quali costituiscono significativamente la maggior parte delle anime) verranno condotti nella 101 palude Acherusiade, il luogo della purgazione, e là, scontando le loro pene, si purificheranno e riceveranno i premi e le punizioni che meritano.

Ma il destino più complesso è senza dubbio quello riservato alle anime che si macchiarono di colpe gravi ma espiabili, pentendosi poi degli atti commessi e vivendo in uno stato di pentimento per il resto della loro vita. Queste anime inizialmente precipiteranno nel Tartaro ma poi, trascorso lì un anno, verranno rigettate fuori dall’abisso (gli omicidi lungo il fiume Cocìto, e i percotitori del padre e della madre lungo il Piriflegetonte) e verranno poi trasportate fino alla palude Acherusiade, dove dovranno invocare il perdono delle proprie vittime.

I pentiti, racconta Socrate riportando il mito

quivi allora gridano e invocano, gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli cui fecero violenza, e, chiamandoli a nome, pregano e supplicano che li lascino uscir fuori nella palude e che li accolgano; e, se riescono a persuaderli (peisosin), escono fuori e così hanno pace dai loro mali; se no, sono riportati via un’altra volta nel Tartaro e dal Tartaro sono ributtati un’altra volta nei fiumi, e mai cessano di patire quest’alterna vicenda se prima non hanno persuaso coloro cui fecero offesa (hous edikesan) (Phaed., 114a 7- b 5).

Come possiamo vedere, il mito escatologico finale presenta uno scenario decisamente più articolato di quello descritto da Socrate a 81d 6-84b 8. Se qui i cattivi erano stati distinti dai buoni semplicemente in base al loro attaccamento all’elemento corporeo, e la reincarnazione a cui erano

Cfr. J. Le Goff, La naissance du Purgatoire (1981), trad. it. La nascita del

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destinati costituiva la giusta punizione per questo loro desiderio, 102 nell’escatologia finale Socrate va a specificare il grado e la natura dell’ingiustizia che un’anima può commettere (e non meno importante l’eventuale pentimento che la può cogliere) per garantire ad ognuna il destino che le spetta e il luogo oltremondano che merita. Nell’Aldilà del

Fedone sono insomma previste “gradazioni della pena e castighi

intermedi”: diversamente da quanto emerge nel mito di Er, in cui le 103 anime che si incontrano nel prato possono prendere due sole direzioni possibili, salendo in cielo o scendendo nel cuore della terra (Resp., 614b 8 sgg) nell’escatologia del Fedone Platone sembra lontano da una prospettiva “manichea” e, superando la visione di un Aldilà bipartito, si mostra propenso a una visione più realistica delle colpe umane: non tutti i crimini sono uguali, non tutte le anime sono malvagie allo stesso modo, e soprattutto non tutte riescono a pentirsi per le ingiustizie commesse.

Prima di concludere e passare a descrivere il destino del filosofo più nel dettaglio, vorrei sottolineare il fatto che tutti i luoghi cui sono destinate le anime fanno parte del nostro mondo. In questa “cosmologia fantastica”, come la definisce la Annas (giacché di questo si tratta, e non di una fallimentare lezione di geografia, come scrive Aristotele in Meteor., II, 335b 33-336a 33) “Tartarus and the Isles of the Blessed are firmly made part of

Questa considerazione presuppone una prospettiva puramente filosofica. Se

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assumessimo il punto di vista dell’anima malvagia, che vuole un nuovo corpo, la reincarnazione non apparirebbe certo una punizione, ma costituirebbe piuttosto la realizzazione di un desiderio. Tuttavia per l’anima filosofica (per la quale il corpo è una prigione che ostacola la ricerca della verità, e il mondo sensibile al quale il corpo la lega, fonte di inganni e apparenze) reincarnarsi sarebbe quanto di peggio potrebbe toccarle. Come scrive la Annas, per Platone “being returned to a body is appropriate as a punishment” (Annas, op.cit., p. 127).

Le Goff., op.cit., pp.28-29.

our actual world”. Il nostro mondo possiede dunque questa 104 configurazione per permettere la realizzazione dei diversi destini dell’anima, e ciò equivale a dire che l’anima e il suo destino oltremondano rappresentano il fine dell’universo, il quale si mostra quindi

provvidenzialmente organizzato in funzione di essa. 105

Quella del Fedone costituisce quindi una cosmologia teleologica, in cui 106 la forma della terra, e così anche la sua posizione nell’universo, vengono spiegate non dal punto di vista delle cause materiali ed efficienti, come farebbe un naturalista (physiologos), ma teleologicamente, ponendole quindi come elementi di un disegno provvidenziale, in cui il fine coincide con il bene dell’anima. Già a partire dal Fedone quindi Platone affronterebbe la complessa questione teleologica, anticipando alcun elementi della teleologia del Timeo (in cui l’universo è colto come il frutto del disegno intelligente e provvidenziale del Demiurgo divino). 107

Per poter cogliere l’impianto teleologico della cosmologia che introduce al mito, è indispensabile fare un breve riferimento al racconto autobiografico degli studi giovanili che Socrate fece di Anassagora (96a 6-100a 8). Socrate racconta di essersi accostato agli studi di Anassagora volendo indagare la vera causa della generazione e della corruzione delle cose (95e 9-96a 2), restandone però presto profondamente deluso: si aspettava che Anassagora

Annas op.cit., p. 126.

104

Elemento che all’interno del dialogo si traduce nel fatto che è il mito

105

escatologico a conferire un senso alla descrizione cosmologica che lo precede (Cfr. Droz., op.cit., p. 117).

Per un’analisi dell’impianto teleologico della cosmologia del Fedone vedi G.

106

Betegh, Tale, theology and teleology in the Phaedo, in C. Partenie (ed.), cit., pp. 77-100.

Come nota D. Sedley, Teleology and Myth in the Phaedo, “Proceedings of the

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Boston Area Colloquium in Ancient Philosophy”, 5 (1990), pp. 359-383, diversamente da quanto appare nel Timeo, nel Fedone Platone non ricorre a considerazioni estetiche per dimostrare l’ordine provvidenziale dell’universo.

facesse del Nous il principio provvidenziale e la causa profonda di tutte le cose, ma, invece di una spiegazione teleologica, aveva trovato solo una dottrina meccanicistica in cui il tutto veniva spiegato ricorrendo alle cause necessarie ed efficienti. In seguito a questa delusione Socrate decise quindi di “cambiare navigazione” e di cercare la causa non più nelle cose, ma nei discorsi (logoi, 99d 1 sgg). Come afferma Socrate:

(…) assumendo caso per caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, le cose che a codesto concetto mi parevano accordarsi, queste ritenevo come vere, sia rispetto alla causa sia rispetto a tutte le altre questioni (Phaed., 100a 5-7).

La vera causa è quindi per Platone sempre e solo finale: tutte le altre cause, materiali ed efficienti, sono mere concause che, pur contribuendo a determinare uno stato di cose ed entrando quindi in gioco nel momento in cui se ne vuole fornire una spiegazione, non costituiscono il suo profondo perché.