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La giustizia punitiva come iatrike

3. Il mito dell’ultimo giudizio

3.1 La giustizia punitiva come iatrike

Il mito dell’ultimo giudizio con il quale si conclude il Gorgia costituisce il

primo tentativo platonico di mito escatologico. Platone va qui a descrivere il destino cui vanno incontro le anime dopo la morte, e il giudizio al quale queste vengono sottoposte in base alla condotta tenuta in vita: le anime di coloro che hanno vissuto giustamente verranno premiate, mentre quelle di coloro che hanno vissuto ingiustamente, subiranno le giuste pene. Più 132 precisamente, rielaborando un brano dell’Iliade, (XV, 187-195) il mito descrive la “rivoluzione” operata da Zeus rispetto alle modalità con cui venivano giudicate le anime durante il regno del padre Crono, e le conseguenze di tale rivoluzione. Al tempo di Crono, nel momento del giudizio ultraterreno, i defunti arrivavano al giudizio da vivi e “vestiti” (ampechomenoi, 523c 3) dei propri corpi e di rango e ricchezze, e

Cfr. Brisson, op.cit., p.136.

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Per denotare l’azione attraverso la quale l’anima ingiusta viene punita

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nell’Aldilà, Platone utilizza il verbo propelakizo, che, come sottolinea Giuseppe Lozza, non rinvia ad un generico “punire”, quanto piuttosto ad un atto di offesa fisica e di denigrazione verbale, che rimanda al concetto morale del disprezzo. La punizione viene infatti impartita nel Tartaro, luogo che Platone, rifacendosi ad un’immagine orfica, denota con i termini borboros e pelos (“fango”). Il Tartaro è quindi la sede ultraterrena in cui l’ingiusto viene oltraggiato e allegoricamente “infangato” (Cfr. G. Lozza, Una immagine platonica. Nota a Gorgia 527a, “ACME” 30 (1977), pp. 269-74).

ciò faceva sì che molto spesso le loro anime venissero giudicate male e che fosse assegnato loro un destino immeritato: i giusti potevano finire puniti tra gli abitanti del Tartaro, e gli ingiusti premiati nelle Isole dei Beati. A mettere a rischio la correttezza del giudizio, spiega Socrate, era appunto il fatto che l’anima da giudicare, essendo ancora incarnata, aveva la possibilità di nascondere il proprio vero ethos dietro alle apparenze del corpo, e di confondere così i giudici, i quali poi, oltre che dai rivestimenti corporei dell’anima da giudicare, rischiavano di farsi impressionare (ekplettontai, 523d 1) dai numerosi testimoni (martyres, 523c 7) che accorrevano per garantire che l’anima aveva vissuto secondo giustizia. Come i giudicati, così anche i giudici erano vestiti, e i loro corpi, i cui occhi e orecchi si paravano come un “velo dinnanzi alla loro anima” (pro

tes psyches …. prokekalymmenoi 523d 2-3), rendevano ancora più difficile

la sanzione di un giudizio corretto e imparziale.

Inoltre, al tempo del regno di Crono ogni uomo aveva la possibilità di conoscere in anticipo quando sarebbe morto, e questo, il fatto quindi che la sua morte costituisse un evento come gli altri, prevedibile e di conseguenza controllabile, “a terrible event, yet still an event of life”, lo spingeva a 133 preoccuparsi solo nel giorno del giudizio finale di come avrebbe presentato la propria anima di fronte ai giudici dell’Ade, e non- come invece avrebbe dovuto- a vivere ogni giorno giustamente, curandosi della salute della propria anima così da essere pronto in ogni momento al fatidico giudizio. Quando Zeus si rese conto di quanto questi aspetti fossero in grado di minare la correttezza dei giudizi delle anime, intervenne tempestivamente e assegnò ai suoi tre figli, Minosse, Radamante ed Eaco, il ruolo di giudici: una volta morti, Radamante avrebbe giudicato le anime provenienti dall’Asia, Eaco quelle che venivano dall’Europa, e Minosse sarebbe

Così Fussi, The Myth of the Last Judgement in the Gorgias, “The Review of

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intervenuto nel caso in cui i due fratelli si fossero trovati nel dubbio. Oltre che i giudici, anche i giudicati si sarebbero dovuti presentare nudi, pure anime spogliate dei rivestimenti del corpo, e sarebbero stati inoltre privati del privilegio di conoscere in anticipo il giorno in cui sarebbero morti. 134 Con l’inizio del regime di Zeus la morte diventa quindi una livella: 135 contrariamente a quanto può capitare nei tribunali terreni, sembra dirci Socrate, nell’Aldilà non è minimamente rilevante se l’anima da giudicare sia appartenuta ad un re o ad un servo, ad un potente o ad un modesto cittadino: la sola cosa che conta è come l’anima si presenta di fronte ai giudici, se “malvagia” (poneros, 526b 6) e “piena di piaghe causate dalla falsità e dall’ingiustizia” (524e 5-5245a 1) o abbellita da quell’ordine armonioso che solo una vita vissuta in maniera pia e fedele alla verità sa conferire, con una bellezza che parla da sola, e non ha bisogno delle garanzie dei testimoni.

Come nota Fussi, le protezioni di cui gode l’anima del giudicato nel regno di Crono possono essere paragonate a quelle che caratterizzano la figura del retore. Questi, come il personaggio di Gorgia esemplifica, parla sempre e solo ad un pubblico di spettatori e, senza lasciarsi coinvolgere in un dialogo alla pari (per timore che certe domande possano coglierlo impreparato) ha come unico obiettivo quello di realizzare una performance impressionante. Come il retore quindi, così anche il giudicato del regno di Crono tende a celarsi, evitando di apparire per ciò che realmente è. Inoltre, come il giudice del regno di Crono si mostra impossibilitato, a causa dei numerosi Il mito narra che Zeus incaricò il titano Prometeo di privare gli uomini della

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pre-conoscenza del giorno della loro morte. È interessante notare quanto il rapporto tra Zeus e Prometeo che qui Platone ci descrive si distacchi dalla tradizionale versione di Eschilo, il quale nel suo Prometeo incatenato fa del titano non un fedele, ma un ribelle, che, amando e onorando gli uomini come fossero dei, fece loro dono del fuoco e spense loro “la vista della morte” (Eschilo,

Prometeo incatenato, vv. 250-52).

Così Sedley, op. cit., p.57.

“apparati” con i quali il giudicato si presenta, nell’intento di individuare il vero ethos dell’anima che ha di fronte, così il retore forma discorsi del tutto svincolati dalla verità, basati sui valori della plausibilità e della forza persuasiva. 136

In breve, a partire dal regno di Zeus, nell’Aldilà non è più dato mentire su chi siamo. Analogamente a quanto si verifica nel corso del processo di confutazione socratica, in cui Socrate esorta il suo interlocutore ad abbandonare i suoi preconcetti e a ricercare con coraggio la pura verità, 137 così nell’Aldilà l’anima giudicata deve avere il coraggio di mostrarsi per quello che è, e il giudice, come Socrate, deve avere la capacità di avanzare una “valutazione personale del soggetto”, senza lasciarsi ingannare dalle 138 apparenze.

Come abbiamo già detto, secondo il mito, chi ha vissuto giustamente riceverà i meritati premi, mentre chi è stato malvagio in vita dovrà essere punito. Anche nell’Aldilà la punizione è concepita come il solo rimedio col quale poter risanare un’anima malata di ingiustizia: è una forma di purificazione, che estirpa dall’anima la malattia dell’ingiustizia, riportando in essa l’ordine e l’armonia perdute. 139

Tuttavia, non tutte le anime ingiuste risultano guaribili: ci sono anime talmente malvagie che su di esse la punizione perde il suo potere correttivo. Ma non per questo la punizione diventa inutile: anche nel caso in cui l’anima risulti insanabile (aniatos), bisogna comunque punirla (e si tratta in questo caso di una punizione eterna) per fare in modo tale che le altre

Cfr. Fussi, Retorca e potere, op.cit., pp. 126 sgg

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Elenchos is a method for discovering the truth” scrive Irwin, op. cit., p. 4. 137

Cfr. Droz, op.cit., p. 114.

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Sulle purificazioni dell’anima e del corpo, e sull’arte punitiva come

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anime, vedendola, temano le conseguenze cui andrebbero incontro comportandosi ingiustamente e, prendendola ad esempio (paradeigma), si persuadano della convenienza che deriva dal vivere la propria vita giustamente. Come afferma Socrate:

Conviene (prosekei) che chiunque venga sottoposto a una pena, a patto che essa sia correttamente assegnata, o diventi migliore e ne tragga giovamento per lui, oppure serva da esempio agli altri (paradeigmati tois allois ghignesthai) affinché costoro, vedendo i patimenti a cui è sottoposto, si spaventino e diventino più buoni (Gorg., 525b 1-4).

Quindi, se impartita su un’anima curabile, la punizione corregge, salva l’anima dall’ingiustizia ripristinandone l’ordine interno e perfezionandola; mentre se è impartita su un’anima incurabile, la punizione funge da deterrente per altri, riuscendo a prevenire l’insorgere dell’ingiustizia nelle 140 anime che assistono alla punizione.

Rispetto al tema del valore esemplare della punizione, mi pare convincente la tesi di studiosi come Dodds e, più recentemente, Naddaf secondo cui la nozione di una punizione eterna impartita alle anime inguaribili deve presupporre una dottrina di reincarnazione. In effetti, per poter 141 effettivamente conferire alla punizione impartita alle anime incurabili la funzione di deterrente, e far sì che questa rappresenti “a warning to others”, è indispensabile che le anime che assistono alla punizione “will one day

Cfr. Sedley, op.cit. pp. 67 sgg. 140

Cfr. E.R. Dodds (op.cit.,, pp.380-381); G. Naddaf (op.cit., p.122). Anche

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Inwood (op. cit, pp. 33-34) pur non connettendo esplicitamente la funzione della punizione eterna con il processo di reincarnazione, nota che già nel Gorgia è presente l’idea della reincarnazione dell’anima, e afferma che qui Platone “introduces the idea that a single soul might animate different people, and even creatures of different species, successively”.

Diversa è invece l’interpretazione della Annas (op.cit., p.124), secondo la quale il mito “does not presuppose reincarnation” e “we do not need to locate the rationale of punishing the incurably wicked dead in future lives on earth”.

return to earth” e vivano avendo visto e appreso le conseguenze 142 ultraterrene che seguono da una vita ingiusta.

Riassumendo, possiamo dire che con questo mito escatologico il personaggio di Socrate vuole innanzitutto fornire un esempio di persuasione buona e nobile che miri, diversamente da quella della retorica gorgiana, non ad adulare, ma a convincere della bontà di qualcosa (in questo caso, della preferibilità della vita giusta rispetto a quella ingiusta. Oltre poi che 143 proporre un modello di retorica riformata e sfumare così quel confine tra retorica e filosofia apparso finora netto nel dialogo, Socrate si serve del 144 mito per recuperare la tesi etica per cui è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla, e per esortare i suoi ascoltatori a scegliere di

essere giusti, e non di apparire tali, cercando nello specifico di persuadere

Callicle (finora del tutto inamovibile rispetto alle sue posizioni) a seguire un modello di vita diverso da quello edonistico.

Ma il mito è anche un modo con cui Socrate torna a parlare di filosofia, sottolineando la preferibilità del bios philosophikos su ogni altro stile di vita, e rispondendo alle aspre critiche che Callicle aveva rivolto nel corso della discussione alla figura del filosofo, definendolo come un “mezzo uomo” (anandros, 485d 4) incapace di difendersi e inesperto del modo di

Come abbiamo già avuto modo di dire analizzando il valore e la funzione della

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“nobile menzogna” della Repubblica, ragione e persuasione non costituiscono per Platone due campi distinti e diametralmente opposti: al contrario il filosofo si dimostra pronto ad accettare che lo stesso discorso razionale possa rappresentare una forma di persuasione, e che esistano forme di convincimento accettabili e in grado di aiutare a perseguire nobili obiettivi. (Cfr. B.Williams, Shame and

Necessity (1993), trad.it., Vergogna e Necessità, il Mulino, Bologna 2007, pp.

179-80)

Rispetto al tema dell’utilizzo socratico di una serie di “artifici retorici” nel

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Gorgia vedi A.Fussi, Logos filosofico e logos persuasivo nella confutazione socratica di Gorgia in M. Barale (a cura di), Materiali per un lessico della ragione, Edizioni ETS, Pisa 2001, pp. 117-47.

comportarsi degli uomini. Per quanto dedicarsi alla filosofia per tutta la vita possa risultare infantile agli occhi di un Callicle, alla fine sarà “soprattutto” (malista, 526c 3) l’anima del filosofo quella che Radamante, mosso da un senso di ammirazione, manderà nelle Isole dei Beati.