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2. Come bisogna vivere?

2.3 Il mito dell’orcio forato

Al mito dell’orcio forato Socrate ricorre nel primo tentativo di persuadere Callicle del fatto che l’intemperante, da lui considerato il migliore e il più felice di tutti gli uomini, è invece destinato a condurre una vita misera e insoddisfatta. I desideri, spiega Socrate, sono infatti per loro natura portati a

riprodursi, e colui che, come l’intemperante, sceglie di vivere

soddisfacendo indiscriminatamente ogni proprio desiderio, è di conseguenza destinato a non sentirsi mai appagato e a vivere in uno stato di perenne insoddisfazione.

Ora, Socrate è consapevole del fatto che le immagini di questo racconto rischieranno di suonare “strane” (atopa, 493c 4) a Callicle, ma aggiunge che esse:

La traduzione è tratta da M. Bonazzi, I Sofisti, Carocci Editore, Roma 2010.

chiariscono bene (deloi) ciò che ti voglio mostrare e attraverso cui intendo persuaderti (peisai), se ne sono capace, a cambiare idea e a preferire alla vita sfrenata e dissoluta la vita ordinata, sempre contenta di quello che ha e che non desidera nulla di più (Gorg., 493c 4-7). Prima di andare ad analizzare il contenuto del mito, vorrei sottolineare il nesso strettissimo che lega quest’ultimo alla persuasione. Come ho già avuto modo di sottolineare nel primo capitolo, il mito, percorrendo vie altre da quelle della dialettica, assolve ad una funzione psicagogica, e la persuasione che esercita sull’anima dell’ascoltatore è, diversamente da quella di cui si serve il retore, una persuasione buona, una peitho

didaskalike, razionale, di cui il filosofo si serve per scopi buoni, vale a dire

per confutare la posizione di Callicle e mostrare in cosa consista l’autentica felicità. Siamo quindi di fronte ad una persuasione che serve la verità, e non l’opinione, una persuasione nobile e riformata affine a quella che abbiamo già visto analizzando la nobile menzogna della Repubblica e che, come tra poco vedremo, caratterizzerà anche il mito escatologico finale.

Socrate inizia dicendo a Callicle che un “uomo sapiente”, secondo il 122 quale la nostra condizione attuale è quella di persone morte, perché il corpo (soma) è in realtà la tomba (sema) della nostra anima, disse un giorno che la parte dell’anima in cui risiedono i desideri è quella che più di tutte si lascia persuadere (metapiptein). Giocando con queste parole e utilizzando il 123

Com’è noto, la visione del corpo come prigione dell’anima è di chiara matrice

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orfico-pitagorica, di conseguenza il sophos al quale Socrate allude può essere appartenuto alla scuola di Pitagora. Dodds, Plato, Gorgias, Oxford University Press, Oxford 1979, pp. 296-300, propende invece per identificare l’autore del frammento in Archita o Filolao.

Il gioco di parole nascerebbe dall’assonanza tra il termine pithanon (“che si

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linguaggio mitico, un “uomo ingegnoso” (kompsos aner), siculo o italico, 124 rappresentò poi questa parte psichica come un otre (pithon), per riferirsi alla facilità con cui essa si lascia “persuadere” (pithanon) e “ingannare” (peistikon), e disse che nei dissennati essa è come un otre “forato” (tetremenon): non si riempie mai. Ma le anime degli incontinenti non sono solo destinate a vivere una vita infelice sulla terra, ma sono anche quelle a cui toccherà poi il destino più sventurato di tutto l’Ade: obbligati a portare in un otre forato dell’acqua, “servendosi di un setaccio altrettanto forato incapace di trattenerla” (493b 6-7), le anime degli incontinenti saranno condannate a ripetere per l’eternità questa vacua operazione,

simboleggiando così il vizio secondo cui vissero.

L’intemperante (akolastos) è quindi destinato a vivere in un’infelice “insaziabilità” (aplestia) sia in questa vita che nell’Aldilà, perché non si accontenta mai di ciò che ha. Felice, prosegue Socrate servendosi sempre 125 dell’allegoria degli orci, è invece la vita dell’uomo moderato (sophronos, 493d 7), di colui che ha vasi sani, del cui riempimento è tenuto a occuparsi una volta per tutte e che, una volta colmati, non gli danno più pensiero e lo Diversa è la traduzione di Zanetto, il quale rende kompsos aner con “uomo di

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spirito” (Cfr. Platone, Gorgia, a cura di G. Zanetto, Rizzoli, Milano 1994, p.198 n. 170), mentre Adorno traduce l’espressione con “uomo assai fine” (Platone,

Gorgia, a cura di F. Adorno, Laterza, Bari 2010). Un’interpretazione meno tradizionale del passo viene avanzata da Blank, il quale, traducendo l’aggettivo

kompsos con “astuto”, e ponendo questo uomo in opposizione al precedente sophos, lo considera alla stregua di uno pseudo sapiente, che gioca ingannevolmente con i nomi pithos e pithanon attraverso un’operazione che Blank

definisce “misleading”. (Cfr. D. Blank, The fate of ignorant in Plato’s “Gorgias”, “Hermes”, 119 (1991), p.26).

Come scrive Irwin, op.cit., p.30, gli intemperanti “never want the same thing

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from one moment to the next”, e ciò dipende dal fatto che l’oggetto che desiderano è privo di stabilità. Non è quindi il desiderio dell’intemperante in sé a possedere il carattere dell’insaziabilità (tutti i desideri sono infatti per loro stessa natura insaziabili e portati a crescere a dismisura) quanto il fatto che ciò che l’intemperante desidera sono i beni del corpo. Se, come il filosofo, l’intemperante desiderasse la verità, non potrebbe passare a desiderare poi qualcosa di diverso, ma la desidererebbe sempre, perché la verità è stabile.

lasciano vivere in tranquillità (hesychian, 493e 6). I vasi dell’intemperante invece, forati e consumati, fanno faticare giorno e notte chi spera di riempirli definitivamente, e, non trattenendo niente, causano poi la perdita dei liquidi che contengono.

Tuttavia né il mito né quest’ultima immagine risultano davvero persuasive: se anche Socrate raccontasse a Callicle “cento altri miti di questo genere” (493d 2-3), questi continuerebbe a pensare che la vita felice sia quella di chi riempie quanto più possibile di liquido i propri vasi, e che l’esistenza dell’uomo con gli otri sani sia una “vita da pietre” (494a 8), un’esistenza estremamente noiosa, lontana dai piaceri così come dei dolori. Ma Socrate non cede e, fortemente intenzionato a persuadere il suo interlocutore del male che deriva dallo scegliere il bios dell’intemperante, decide questa volta di dimostrare- abbandonando la forma mitica e ricorrendo quindi alla dialettica- le conseguenze contraddittorie che seguono dall’assunzione di una visione edonistica.

Prima di passare ad analizzare l’argomentazione di Socrate (la quale, come vedremo, risulterà come il mito altrettanto poco convincente), mi pare tuttavia opportuno soffermarmi sull’inefficacia del mito dell’orcio forato. Per quanto Socrate si sforzi di intimidire Callicle mostrando il destino che attende un’anima incontinente e intemperante, è pur vero che quelle del mito in questione sono (ed è Socrate stesso a definirle così) “immagini senza dubbio sotto certi aspetti strane”(493c 3-4), che chiariscono sì ciò che Socrate vuole mostrare, ma restano comunque ben lontane dalla verità così come dall’efficacia di un mito filosofizzato. Come abbiamo già avuto modo di vedere nel primo capitolo, è il mito filosofico, il mito razionalizzato e al servizio di una verità etico-filosofica quello in cui Platone crede e che inserisce nei suoi dialoghi. Per questo il mito escatologico finale “funziona”; perché si tratta di un mito più autenticamente platonico, un

logos che il personaggio di Socrate è pronto a considerare vero (523a 1-3) e

di cui si serve per scopi persuasivi buoni.

Ipotizziamo, propone Socrate, di avere sete. Ora, avere sete significa desiderare di bere o, detto altrimenti, sentire mancanza di una bevanda dissetante, ed è una condizione che comporta una sensazione di dolore; e lo stesso dicasi per ogni stato di bisogno e desiderio, giacché “ogni bisogno (endeian) e ogni desiderio (epithymian) comportano dolore” (496d 4). Nel caso poi in cui si decida di assecondare il proprio desiderio bevendo dell’acqua, l’azione del bere ci procurerà senza dubbio una sensazione di piacere (496d 5-6). Ma allora, conclude Socrate, se è vero che avere sete significa soffrire e bere coincide con il provare piacere, dire che quando si

ha sete, si beve significa dire che quando si prova dolore, si prova piacere,

ma ciò è ovviamente assurdo (496e 4-8). Di conseguenza, il benessere dovrà essere qualcosa di diverso dal provare piacere, e lo stesso dicasi dello stare male rispetto al provare dolore. Quindi, diversamente da quanto sostiene Callicle, il bene non coincide con il piacere, né il male con il dolore.

“Ma se vuoi” continua Socrate “considera la questione anche sotto questo punto di vista” (497 9- e1). Se il bene coincidesse con il piacere e il dolore con il male, allora dovremmo dire che coloro che provano piacere sono buoni, mentre quelli che provano dolore sono cattivi. Tuttavia l’esperienza mostra chiaramente che i buoni soffrono e provano piacere più o meno come i cattivi: “(…) i saggi (phronimous) e gli stolti (aphronas), i vili (deilous) e i coraggiosi (andreious) provano piacere e sofferenza a un grado d’intensità più o meno uguale” (495e 5-7), dice Socrate. Di conseguenza, non essendo i buoni definibili come coloro che provano più piacere dei cattivi, né questi identificabili con coloro che soffrono con maggior

intensità dei buoni, allora la premessa iniziale secondo cui il bene coincide con il piacere e il male con il dolore, risulta ancora una volta infondata. Andando avanti nel dialogo, appare però chiaro che ciò che a Socrate preme sottolineare con questa complessa argomentazione non è tanto il fatto che tra piacere e bene, dolore e male, non può sussistere un rapporto di identità, quanto che tra i piaceri ve ne sono alcuni nocivi, e tra i dolori alcuni utili e vantaggiosi. Alcuni piaceri (pensiamo ad esempio al mangiare o al bere) pur appagandoci nell’immediato, possono poi, se portati all’eccesso, risultare nocivi, mentre alcuni dolori (come una cura medica correttamente prescritta) anche se ci arrecano sofferenza, finiscono poi per risultare buoni e vantaggiosi. Di conseguenza, non è al piacere che bisogna tendere, ma a ciò che, piacevole o doloroso che sia, è in grado di procurarci il bene e di migliorarci quanto più possibile. In breve, non bisogna fare ciò che è bene in vista del piacere, ma ciò che è piacevole in vista del bene (506c 7-9), ed essere dunque, afferma Socrate tornando al tema iniziale, non come il retore ma come buon politico, che sa davvero come render migliori i propri cittadini. 126

Quelli che Atene ha visto finora non sono stati secondo Socrate dei veri

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politici, perché non hanno mostrato di saper rendere migliori gli ateniesi. L’unico uomo che Socrate è disposto a considerare un vero politico è se stesso: “Credo di essere fra i pochi ateniesi, per non dire il solo, a cercare di coltivare la vera arte politica e l’unico uomo che, ai giorni nostri, fa veramente politica” dice il filosofo (521d 6-8). L’idea di politica come sapere tecnico che rende capaci di migliorare i propri concittadini torna nei dialoghi dell’Apologia e del Critone: per fare politica serve una specifica tecnica, che sappia rendere competenti “riguardo (…) al giusto e all’ingiusto, al brutto e al bello, al buono e al cattivo” afferma Socrate nel

Critone (Cri., 47c 9-10). E per il filosofo è quindi la conoscenza che abilita

all’esercizio del potere, e che permette al vero politico di persuadere ciascun concittadino alla verità su ciò che è giusto e buono: curarsi di nient’altro che della propria anima lasciando perdere le ricchezze, la fama e il prestigio (Apol., 29d 8- e3).

Conscio di non esser ancora riuscito a convincere Callicle della bontà della propria verità etica, Socrate decide di ricorrere ad un mito sul destino 127 dell’anima nell’Aldilà. Non si tratta, specifica subito il filosofo, di un racconto come tanti, ma di un logos della cui veridicità egli si dichiara totalmente persuaso (523a 1-3), e che insegna che ciò che l’uomo deve temere non è tanto la morte, separazione dell’anima dal corpo, quanto l’ingiustizia: anche se in questo mondo gli ingiusti possono trionfare sui giusti, alla fine, di fronte all’autentico tribunale dell’Aldilà, ognuno avrà ciò che merita. Socrate si serve quindi di questo racconto per recuperare e 128 ribadire le due principali posizioni etiche che ha sostenuto nel corso del dialogo: l’idea per cui la giustizia sa ripagare in termini di felicità individuale, e la concezione della punizione come strumento terapeutico 129 contro l’ingiustizia dell’anima: sfruttando il fascino del mito, cerca di renderle più persuasive.

Ora, come sottolinea giustamente Inwood, solo nel Gorgia il personaggio di Socrate sembra voler insistere nel classificare il mito escatologico come un racconto vero. Ma, aggiunge significativamente l’autore, “even in the

Gorgias the myth is said to be believed rather than known” perché l’atto del

credere “has a strong pratical significance”. Rispetto al valore di verità 130 Callicle, oltre a non essere affatto persuaso che il tipo di vita che predilige sia

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in verità sbagliato, si è mostrato nel corso della conversazione sempre meno interessato a mettere in discussione le proprie idee, e sempre più irritato dal fare elenchico del filosofo. Di fronte a Callicle, scrive Fussi, Socrate non può quindi far altro che ammettere il proprio “fallimento educativo”. (Cfr. Fussi, op.cit., pp. 51-52).

Come scrive la Annas a commento dell’ottimismo socratico che traspare dal

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mito: “(…) we should not be depressed by the fact that around us we plainly see the good suffering and the wicked flourishing, for this is not the end of the matter; ultimately there will be a judgment where everyone gets what they deserve” (Cfr. J.Annas, op.cit., p. 123).

Cfr. Ferrari, Socrate tra personaggio e mito, op. cit. pp. 243-44.

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Cfr. Inwood, Plato’s eschatological myths, in C. Partenie, op.cit., p. 48.

del mito, è estremamente opportuno il richiamo a Brisson, 131 secondo il quale è vero che Socrate considera il racconto che va a narrare come vero, ma solo da un punto di vista globale, e inoltre, la verità che gli attribuisce non è una verità logica, ma etico-filosofica: il mito è vero perché in accordo con un discorso filosofico che Platone colloca a livello di norma.