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3. Dalla dimostrazione al mito

3.3 Il destino del filosofo

Il vero filosofo non deve quindi temere la morte, poiché la sua anima in

vita ha saputo dire addio ai piaceri del corpo, e, persuasa di poter trovare nella ricerca della verità il massimo bene, si è dedicata ad acquisire virtù e intelligenza (aretes te kai phroneseos, 114c 7), garantendosi così un destino di beatitudine e riconciliazione con l’intelligibile e il divino a lei simili. Per poter arrivare ad affrontare la morte senza paura e con totale serenità, come è il caso di Socrate, è dunque indispensabile convertirsi al bios

philosophikos, comprendendo la superiorità dell’anima rispetto al corpo, 108 e riconoscendo la bontà e l’utilità che derivano dalla cura di esse. Dato che l’anima è immortale, conviene curarsene “né solo per questo spazio di

È l’anima che comanda (archein) il corpo, e non il contrario (Phaed. 94b 4-5).

tempo che chiamiamo vita, ma per sempre”(107c 2-3), poiché sarà in base al grado di virtù e intelligenza che acquisiremo, e alla cultura e al costume che presenteremo nell’Ade (tes paideias te kai trophes, 107d 3-4) che troveremo dopo la morte un destino di tristezza e dolore, o di beatitudine e felicità.

Ora, tutto quanto Socrate ha raccontato sul destino dell’anima nel mito finale non può essere giudicato totalmente vero, ma costituisce piuttosto un racconto (mythos) probabile e verosimile.

Come dice il filosofo:

Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno (noun); ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato (phainetai) che l’anima è immortale, sostener questo mi pare si addica, e anche metta conto di avventurarsi a crederlo. E la ventura è bella (kalos gar ho kindynos). E giova fare a se stesso di tali incantesimi (kai chre ta toiauta hosper epadein

heautoi) (Phaed., 114d 1-7).

Credere che l’anima sia immortale, e che quelli descritti nel mito costituiscano i veri destini cui essa potrà incorrere nell’Aldilà, è quindi un atto di fiducia e un rischio che vale la pena correre, perché tale credenza ha il potere di plasmare la nostra condotta dirigendola verso il bene, e ciò la rende buona e utile.

Analogamente al caso del mito di Er nella Repubblica, anche nel Fedone il mito costituisce un utile strumento di persuasione, un mezzo per esortare l’anima a convertirsi al bios philosophikos ed essere felice in questa vita così come in quella dopo la morte. Che poi i contenuti dell’escatologia, non

potendo essere verificati, raggiungano solo il livello della verosimiglianza, non costituisce un vero problema: come abbiamo già visto a proposito del mito escatologico della Repubblica, quella del mito filosofico è sempre una verità etica, e non logica, tale da modellare l’ethos dell’ascoltatore dirigendolo verso la virtù e costituendo così, per questa sua natura psicagogica, uno strumento educativo del quale il filosofo può saggiamente servirsi.

Capitolo terzo

Giustizia e felicità nell’escatologia del Gorgia

Qual è l’argomento su cui verte il dialogo del Gorgia? Non sarebbe del tutto corretto ricondurre l’intera opera al tema della retorica. È vero che la discussione che il personaggio di Socrate ha con i suoi interlocutori (prima con il celebre retore Gorgia, poi con il giovane Polo e infine con Callicle, molto probabilmente un personaggio fittizio) muove dal tentativo di definire lo statuto della retorica smascherandone, come vedremo, la natura di mera pratica empirica di tipo adulatorio; ma è altrettanto vero che nel corso della discussione il tema della retorica viene messo da parte per far posto ad una serie di argomenti eterogenei, eppure tra loro perfettamente intrecciati. Pur partendo dalla ricerca sul ti esti della retorica, Socrate arriva di fatto a mostrare i rischi che l’uso del discorso retorico implica, e a 109 problematizzare il rapporto tra discorso retorico e discorso filosofico, mettendo a confronto il diverso uso che il retore e il filosofo fanno della persuasione. Ma soprattutto, volendo dimostrare che il retore, così come il tiranno, non può dirsi veramente felice, Socrate giunge ad affrontare la 110 fondamentale questione etica di come si debba vivere, individuando quali siano le condizioni che garantiscono un’esistenza felice.

Quindi, pur trattandosi quasi sicuramente di un’opera del periodo socratico, il Gorgia non è un dialogo puramente definitorio, come lo sono per esempio

l’Eutifrone rispetto al tema della pietà o il Protagora rispetto alla

Come avremo modo di vedere, svincolando il logos dalla verità e smantellando

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credenze e valori tradizionali all’insegna di un radicale relativismo etico, la retorica costituisce uno strumento estremamente pericoloso, poiché può generare credenze absolutae dalla morale.

“Io affermo, Polo, che sia i retori sia i tiranni hanno pochissimo potere nella

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città (…): essi non fanno nulla, per così dire, di ciò che vogliono, fanno solamente la cosa che sembra loro migliore” (Gorg., 466d 6- e2).

giustizia: l’indagine sulla definizione della retorica serve a Platone per affrontare temi altri rispetto alla retorica, e per discutere di come si deve vivere per garantirsi una vita felice in quanto uomini e cittadini. Come vedremo, per Callicle (rappresentante di una posizione radicalmente edonistica) il bene coincide con il piacere, e vivere in modo “corretto” (orthos) significa vivere senza frenare i propri desideri, ma assecondandoli “con coraggio e intelligenza” (di’andreian kai phronesin, 492a 2), mentre secondo Socrate l’autentica felicità è assolutamente inseparabile dalla condotta giusta. Solo chi vive secondo giustizia -e dopo di lui colui che, una volta commessa ingiustizia, è pronto a ricevere la punizione che merita e a risanare così la propria dimensione intrapsichica- potrà garantirsi un’esistenza felice sia in questa vita sia, come insegna il mito escatologico finale, dopo la morte: non è la morte ciò che bisogna temere, dirà il personaggio di Socrate a conclusione del dialogo, ma il presentarsi di fronte al tribunale dell’Aldilà con l’anima piena di segni delle ingiustizie commesse in vita, condannandosi così ad un destino di sofferenze. 111