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L'umorismo letterario. Una lunga storia europea (secoli XIV-XX)

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Giancarlo Alfano

L’umorismo

letterario

Una lunga storia europea (secoli

XIV

-

XX

)

(6)

1a edizione, maggio 2016

© copyright 2016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel maggio 2016

da Eurolit, Roma isbn 978-88-430-8192-9

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Siamo su:

www.carocci.it

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Indice

Ringraziamenti 11

Introduzione

Dagli umori all’umorismo 13

Parte prima

Genealogia del soggetto

1. Petrarca, o la temporalità 35 Fluttuare 35 Scrivere 42 Un “viaggio sentimentale” 48 2. Montaigne, o la prospettiva 53 Diventare soggetto 53 La forza dell’immaginazione 60 La parola “saggio” 63 3. Cervantes, o l’ingegno 71

Il colore di un panno azzurro 71

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8 l’umorismo letterario

Ingegno narrativo: la storia di una storia 84

4. Cartesio, o la corporeità 93

La favola dell’io 93

Una cosa che pensa 96

Sentirsi sentirsi 98

5. Sterne, o le opinioni 101

Nothing unmixt 101

La vita e le opinioni 105

Contro la linea retta 111

Parte seconda Tu, è uno che ride

6. Che cos’è ridere 119

Il soggetto del ridere 119

Dalla parte della retorica 122

Il discorso della città 126

7. Le insidie del riso 131

Restare stupiti 131

Il circolo del riso 138

Il gusto del mondo 142

8. La conversazione 149

La civiltà della conversazione 149

(9)

indice 9 I salotti parigini: l’apprendistato delle piccole diff erenze 160

9. La pagina e la voce 171

I luoghi dell’incontro 171

Dall’oralità alla scrittura, e ritorno 173

Altri spazi in bilico: riviste e gabinetti di lettura 179

10. Il chiacchierone tipografi co 183

Londra: la rete dei caff è 183

Trompe l’œil 186

Stile e opinioni di un chiacchierone 188

Due ritratti a confronto 191

Parte terza

Estetica dell’umorismo

11. Finito e “infi nibile”: la questione estetica dell’umorismo 199

Quale forma per l’umorismo? 199

La linea dell’ombra 202

Il presente del lettore 206

12. La parte del lettore 211

Umori compartecipi 211

Il testo come conversazione 213

L’appello al lettore 217

Rifl essività 222

(10)

10 l’umorismo letterario

13. La materia tipografi ca 231

Punteggiando 231

Ibridismo mediale 234

Retoriche tipografi che 235

L’arte del titolo 240

14. Forme dell’umorismo letterario 243

Lettera, dialogo, saggio: i generi della compresenza 243

Il fi lo del racconto 247

Elogio della digressione 252

Voyage en zig-zag 256

Non conclude 260

15. Rovesciamenti di prospettiva 265

Questione di punti di vista 265

Umorismo plurilinguista 269

Serietà del riso 274

Ironia 280

Epilogo. La maschera dell’io 289

Note 301

Bibliografi a 325

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Ringraziamenti

Le pagine che seguono non pretendono di essere una storia dell’umorismo letterario. Il lettore potrà trovarvi la presentazione di tre problemi che mi sono apparsi costitutivi della storia culturale europea: la defi nizione della soggettività moderna attraverso la scrittura; il legame tra discorso faceto e obblighi sociali nelle varie forme della conversazione privata; un’estetica della compartecipazione e della risposta da parte del lettore, particolar- mente tipica dell’umorismo. Queste tre dimensioni s’intrecciano nella “storia” della letteratura umorista, cioè nell’insieme delle pratiche e delle soluzioni formali che si sono date nel tempo. Il mio tentativo è stato di mettere un po’ di ordine in tutto ciò, senza per questo presumere – non avendone, del resto, mai avuto l’intenzione – di scioglierne gli intrichi.

La preparazione e la scrittura di questo libro si sono nutrite di scam-bi, di letture incrociate e di confronti con amici, colleghi, studenti. Tra i tantissimi che hanno dialogato con me sui temi del comico, della con-versazione e dell’umorismo, tra le Università di Napoli, Lille, Parigi, Bru-xelles, Liegi, Edimburgo e Barcellona, ricordo con particolare gratitudine Marcello Barbato, Roland Béhar, Vittorio Celotto, Carmelo Colangelo, Guglielmo Cutolo, Maria D’Agostino, Francesco de Cristofaro, Giuseppe Episcopo, Enrica Ferrara, Gabriele Frasca, Flavia Gherardi, Michèle Guil-lemont, Michael Jakob, Giovanni Maff ei, Pietro Mancini, Anna Masec-chia, Andrea Mazzucchi, Paola Moreno, Amedeo Quondam, Ciro Pappa-ro, Anne Robin, Emilio Russo, Raff aella Zanni, Fabio Zinelli.

Matteo Palumbo, più che seguire, ha quasi nascostamente diretto il mio lavoro, ponendosi come costante, generosissimo interlocutore.

Un ringraziamento tutto diverso, privato e pubblico, va infi ne a Ida che, good-humoured e ill-humoured, ha governato, da vicino e da lontano, le mie giornate.

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Introduzione

Dagli umori all’umorismo

Voir sur ces canaux dormir ces vaisseaux

dont l’humeur est vagabonde. Baudelaire, L’invitation au voyage

Uno sguardo ai dizionari

Si dice che l’umorismo sia, per eccellenza, inglese. L’espressione sense of humour è per questo motivo diventata di uso internazionale per indivi-duare quella particolare sagacia, quel guizzo dell’intelligenza, che si fi ssa in una frase spiritosa o in una battuta d’amara ma non aggressiva intelli-genza. Dicendo sense of humour fi ssiamo un quadro di valori non del tutto nitido, in cui contano le sfumature, o addirittura il “non detto”, ciò che si lascia intendere, provocando il sorriso o talvolta una breve risata, non priva di una coda malinconica. Essere dotati di sense of humour è quindi condizione necessaria per attingere alla perfezione delle virtù sociali: saper sintetizzare una situazione in una battuta divertente e arguta, che fa ride-re e pensaride-re, signifi ca esseride-re persona elegante e d’esperienza. Un uomo di mondo, si sarebbe detto qualche tempo fa.

Eppure, se apriamo il più importate dizionario della lingua inglese, l’Ox-ford English Dictionary (edizione del 1989), e cerchiamo la voce humorism, derivata dal sostantivo humorist e analoga al francese moderno humorisme (come si spiega nella nota etimologica iniziale), al primo signifi cato leggia-mo che si tratta della «dottrina dei quattro “uleggia-mori” corporali e della loro relazione coi temperamenti e le malattie» («doctrine of the four bodly “hu-mours” and their relation to “temperaments” and to diseases»). Se quin-di anquin-diamo a humorist (apparentato con il francese humoriste e l’italiano humorista, da cui deriva), apprendiamo che si tratta di «a person subject to “humors” or fancies»: umori, temperamenti, manie (fancies) e malattie. Il quadro semantico è spiazzante: non ci saremmo aspettati che l’uomo di mondo fosse uno squilibrato, piuttosto avremmo detto il contrario.

Ricorriamo allora a uno dei più antichi vocabolari delle lingue moder-ne, il Vocabolario della Crusca, in prima edizione nel 1612, e consideriamo il lemma madre, da cui tutti gli altri derivano:

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14 l’umorismo letterario

umore: materia scorrevole che è nel componimento dell’animale, come è sangue, fl emma, collera e melanconia […]. E nell’animale si dice umore, fl emma, collera, sangue e malinconia […]. E a l’uomo fantastico, ed incostante, il che gli è cagiona-to da gli umori stemperati e predominanti, diciamo umorista1.

Nella seconda edizione, del 1623, la defi nizione non cambia, mentre nella terza, del 1691, troviamo delle integrazioni interessanti:

umore: materia umida, liquida […]. Umore nell’animale si dice umore, fl emma, collera, sangue e malinconia […]. § Umore: desiderio, intenzione, volontà, pensiero § Umore malinconico: pensiero stravagante generato da malinconia § Bell’umore: persona stravagante, fastidiosa, violenta. Umorista si dice ad uomo fantastico, ed in-costante, il che gli è cagionato da gli umori stemperati e predominanti. (corsivo mio)

Confrontando le due voci ci si accorge che nel corso di quasi un seco-lo, dal 1612 al 1691, gli Accademici della Crusca hanno messo a fuoco la necessità di sottolineare quanto vi sarebbe di specifi co negli esseri umani non soltanto dal punto di vista patologico, e cioè per eff etto degli «umori stemperati», ma come condizione abituale. L’umore, abbiamo infatti ap-pena letto, ha a che fare con il desiderio, con l’intenzione, con la volontà, con il pensiero: umore, insomma, è qualcosa che infl uenza, o comunque caratterizza, le attività spirituali, qualcosa che incide sui processi propria-mente umani, che ci distinguono dagli altri animali, e che al tempo stesso ci mantengono all’interno del sistema della Natura.

Se a questo punto proviamo a errare per qualche riga in terra di Spagna troviamo che nel Tesoro de la Lengua Castellana o Española (1611), di Se-bastián de Covarrubias, il termine humour ricorre circa settanta volte, ma non viene mai defi nito distintamente, né, tanto meno, vi viene dedicato un articolo specifi co. Cambiano invece le cose nel cosiddetto Dicciona-rio de Autoridades2, pubblicato tra il 1726 e il 1739 dalla Real Academia

Española, nel cui tomo iv3 si possono leggere quattro accezioni della voce

humour:

1. Cuerpo líquido y fl úido. Viene del Latino Humor, que signifi ca lo mismo […]. 2. Se dice tambien del efecto que ocasiona algún humor predominante: y assí se dice, que un hombre es de humor melanchólico, colérico, &c. Latín. Humor […]. 3. Se toma tambien por genio, índole, condición o natural: especialmente quan-do se da a entender con alguna demonstración exterior. Latín. Indoles. Natura. Genius. […]

(15)

introduzione 15

4. Se toma determinadamente por la capacibilidad de genio, y facilidad en con-ceder alguna gracia que se pide: y assí se dice, Hallar a uno de humor, cogerle de humor. Latín. Frons serena, vel placida, aut gratiosa.

Torniamo a questo punto al Vocabolario della Crusca e apriamone la quar-ta edizione, pubblicaquar-ta tra il 1729 e il 1738 (cioè in contemporanea con il Diccionario de Autoridades). Qui, dopo la defi nizione generica di umore come «materia umida, liquida» ecc., possiamo leggere la seguente serie di defi nizioni:

§ i Umore si dice a qualunque fl uido che scorre per li canali del corpo dell’ani-male […];

§ ii Umore si dice altresì la disposizione naturale, o accidentale del temperamento, e dello spirito, il Genio, l’Inclinazione (Lat. mens, judicium, consilium) […]; § iii Umore malinconico vale pensiero stravagante, generato da malinconia […]; § iv Bell’umore, dicesi d’uomo faceto, allegro o piacevole […];

§ v Fare il bell’umore si dice dell’essere fastidioso, stravagante, violento […]; § vi Dar nell’umore vale dar bel genio […];

§ vii Dar beccare all’umore, si dice fi gurat. del profondarsi soverchiamente ne’ suoi pensieri.

Come sottolineato dalla disposizione grafi ca che qui ho voluto dare alle diverse accezioni, gli Accademici – in Spagna e in Italia – hanno provve-duto, alla metà del cosiddetto “secolo dei Lumi”, a razionalizzare il sistema semantico legato alla voce “umore”, distinguendo la dimensione fi siologica generale (§ i) da quella “psicologica” (§ ii), di cui sono poi off erte alcune declinazioni più particolari (§ iii-vii). Come si può notare, la fraseologia collegata alla nostra parola è assai varia: con umore ci si può riferire a un uomo violento, a un melanconico, a un uomo semplicemente pensieroso (o impensierito da qualche suo problema), ma anche a una persona sim-patica, con cui è «piacevole» stare (§ iv), o semplicemente a chi, per una volta, ha detto – quasi per caso – una battuta divertente (§ vi).

Forse l’aspetto più interessante della quarta edizione del Vocabolario è però il chiarimento sintetico off erto con la seconda accezione, dove si spiega che questa parola indica la «disposizione naturale, o accidentale del temperamento»: il che vuol dire il carattere di ogni individuo prima che in lui agiscano le modifi che imposte dall’educazione o dall’esperienza. Ed è oltremodo interessante, come vedremo nella prosecuzione del nostro racconto, che gli Accademici abbiano voluto fornire la traduzione latina

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16 l’umorismo letterario di questa accezione (mens, judicium, consilium), nel probabile tentativo di rendere conto di un dibattito internazionale: il latino era infatti a quel tempo ciò che oggi è la lingua inglese, il linguaggio universale delle scienze e delle tecniche3.

Ma proprio in quei secoli, a partire dal Cinquecento, le lingue europee stavano potenziando la loro duttilità per render conto dei fenomeni com-plessi, sviluppando un lessico specifi co per i diversi ambiti della pratica e della conoscenza. È allora utile consultare il primo vocabolario della lingua francese (Dictionnaire universel, contenant generalement tous le mots fr ançois […] requeilli et compilé par Messire Antoine Furetière, A La Haye et à Rotter-dam, chez Arnout & Reinier Leers, 1690), allestito da Antoine Furetière e pubblicato postumo nel 1690 (poi di nuovo nel 1701, nel 1704 ecc.). Anche qui, come nel caso della Crusca, all’humorisme non è dedicato uno spazio specifi co, ma troviamo la voce humeur (ivi, s.v.):

Substance fl uide […]. En termes de Medecine, on appelle les quatre humeurs, etc. […] Se dit aussi du temperament particulier qui vient du meslange de ces qualités […]. Se dit en Morale, des passions qui s’esmeuvent en nous suivant la disposition ou l’agitation de ses quatre humeurs […]. Presque en ce sens se dit de la resolution, de la disposition de l’esprit.

Come si vede, l’organizzazione concettuale della sequenza è del tutto iden-tica a quella che troviamo nella Crusca: prima la defi nizione generale, di tipo fi sico, poi la declinazione medica (dunque attinente agli esseri uma-ni), infi ne la declinazione “morale”, riferita alla responsabilità dell’azione. Furetière, bisogna dirlo, appare più ordinato dei suoi colleghi italiani, più metodico, per così dire: e del resto aveva alle spalle la grande rivoluzione realizzata da Cartesio. In particolare il suo dizionario ci aiuta a mettere a fuoco due cose importanti, che corrispondono alle ultime due accezioni: 1. la diversa condizione e combinazione degli umori è responsabile delle passioni; 2. il sistema umorale ha diretta infl uenza sulla «disposition de l’esprit». Per il primo punto dovremo tra poco ripercorrere un importante capitolo della storia della medicina e della psicologia occidentale, tornan-do indietro a Ippocrate e Galeno; il secontornan-do verrà invece chiarito soltanto facendo lo sforzo di seguire la storia della letteratura europea tra la metà del Trecento e la metà del Settecento. Ma intanto possiamo accontentarci di un bello stimolo che ci arriva dal confronto tra i dizionari: la parola francese esprit, alla fi ne del secolo xvii, equivale a “genio”, “inclinazione” della lingua italiana, nonché al latino mens, judicium, consilium.

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introduzione 17 Leggeremo più avanti che cosa ne è dello spagnolo e dell’inglese. In-tanto, visto che ci ha portato un po’ di chiarezza, restiamo al francese, e andiamo ad aprire alla voce humeur il grande dizionario allestito da Émile Littré e da lui pubblicato nel 1873:

[…] 3. Toute espèce de liquide […]. Toute substance liquide ou demi-liquide qui se trouve dans un corps organisé […].

§ 4. Disposition du temperament ou de l’esprit;

§ 5. Belle humeur, disposition de gaieté et de satisfaction; § 6. Absolument, humeur se dit pour mauvaise humeur; § 7. Caprice;

§ 8. Penchant à la plaisanterie, originalité facétieuse, à peu près dans le sens de l’anglais humour (voyre ce mot), qui est d’ailleurs un emprunt fait à la langue française.

L’ordine delle prime cinque accezioni segue, come mostra un semplice confronto, la sequenza tradizionale, dal signifi cato fi sico più generale alla generica disposizione alla gaiezza. La nostra parola non è però provvista di un alone positivo indiscutibile, se è vero che il suo uso «assoluto», cioè senza aggettivi o avverbi, signifi ca «cattivo umore» (§ 6) e che essa può anche essere il sinonimo di «capriccio» (§ 7). Interessante è però l’ultima accezione, in cui fi nalmente appare il carattere piacevole, l’originalità fa-ceta, quella disposizione naturale all’arguzia che la lingua inglese sembra esprimere nel modo più chiaro: siamo così tornati al sense of humour, all’e-spressione anglosassone che pure è con ogni evidenza un prestito («un emprunt») dal francese.

Umore, umorismo è dunque un concetto europeo. Alle sue spalle c’è una lunga storia che si dovrebbe piuttosto dire mediterranea, per l’origine greca e per il fondamentale contributo dato successivamente dalla medi-cina e fi losofi a arabe; ma lo sviluppo moderno appare invece tutto conti-nentale, tra il primo contributo italiano, il successivo impulso spagnolo, e il conseguente approfondimento tra Francia e isole britanniche, non senza una specifi ca collaborazione tedesca. Il risultato fi nale è ancora chiarito dal Littré, alla cui voce humoriste non leggiamo più soltanto, come nel Vocabolario della Crusca, che si tratta di «uomo fantastico, ed incostante, il che gli è cagionato da gli umori stemperati e predominanti», ma piut-tosto di un individuo individuo «incline a una sorta di gaiezza divertita e originale» («enclin à une sorte de gaieté railleuse et originale»). Ed è qui che appare, fi nalmente, l’oggetto del nostro studio: lo scrittore umorista

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18 l’umorismo letterario («écrivain humoriste»), cioè colui che tratta «avec gaieté une matière sérieuse». Appare dunque solo qua, nel 1873, la dimensione della scrittura. Lo conferma in parallelo il Dizionario Tommaseo-Bellini (1879), dove per Umorismo la prima accezione è la teoria medica, mentre la seconda riman-da a «scrittore umorista», ossia, come si legge alla voce corrispondente: «scrittore gajo ecc.». Un’importante aggiunta, fi rmata da Tommaseo, chiarisce inoltre il primato inglese, proprio come accade nel Littré.

E allora concludiamo questa piccola rassegna tornando all’Oxford English Dictionary, la cui voce humour/humor elenca sette diversi ambiti semantici.

Il primo ricopre i «physical senses», e si può tripartire: 1. nell’accezio-ne genell’accezio-nerica di moisture, ossia fl uido o succo di un animale o di una pian-ta; 2.  nel signifi cato della fi siologia antica e medievale, con riferimento alle quattro secrezioni principali degli organismi; 3. nel senso esteso delle «qualità o disposizioni mentali» derivanti dai quattro umori, o secrezioni.

Il secondo ambito riguarda i «senses denoting mental quality or condition», ed è dunque un approfondimento del terzo punto appena esposto. Qui troviamo anche delle datazioni, piuttosto interessanti: 1. dal 1475, l’inglese humour viene utilizzato per signifi care la disposizione mentale, la tendenza abituale, il temperamento; 2. dal 1599 il termine vie-ne applicato a una composiziovie-ne artistica (letteraria, musicale ecc.), per indicarne il carattere, lo stile, la “vena” («vein»), il sentimento o spirito («spirit»); 3. resta sempre attivo il signifi cato più generico di sentimento («mood») connaturato a un certo temperamento (per eccellenza sarà la tristezza di un malinconico o l’irritabilità di un collerico); 4. ma pure la parola potrà essere utilizzata per una fi ssazione occasionale, per un capric-cio («fancy»).

Il settimo e ultimo ambito ci interessa in modo particolare, giacché nel-la lingua inglese si utilizza il termine humour anche per indicare: a) quelnel-la qualità di un’azione o discorso o scrittura che provoca divertimento, come anche, dal 1682; b) quella facoltà di percepire ciò che è ridicolo o diverten-te, e di esprimerlo parlando o scrivendo o in altro modo ancora.

Non voglio sottoporre il lettore a ulteriori analisi lessicografi che. Mi limi-to allora a riprendere l’intero incartamenlimi-to, facendo riferimenlimi-to a tutti i dizionari e vocabolari antichi e moderni fi n qui citati, per proporre una sintesi. La famiglia lessicale dell’umorismo rimanda alle seguenti accezio-ni, che elenco nell’ordine logico e cronologico riscontrato in precedenza:

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introduzione 19

a) una teoria medica incentrata sull’umore non come liquido generico, ma come secrezione degli organi vitali, che si compone in equilibrio con le altre secrezioni; b) una certa disposizione mentale o temperamento, da cui genio o inclinazione, ma anche una certa incostanza, come di chi subisce le fancies o si mostra “bizzarro”; c) una certa espressione del temperamento: il sentiment o spirit di uno scritto (ing. 1599);

d) la facoltà di percepire e di esprimere che cosa sia ridicolo o divertente (le prime attestazioni di humour in tal senso sono in lingua inglese e iniziano nel 1682).

Da questo sintetico quadretto impariamo una cosa importante, e cioè che l’accezione che oggi riteniamo quella principale è apparsa in Europa solo nel 1682, e che solo dopo un lungo processo di circa duecento anni essa è stata unanimemente condivisa come quella particolare disposizione di spi-rito, in cui convergono l’intelligenza, la prontezza d’animo e una notevole abilità comunicativa, che consiste nel saper cogliere il lato insolito, sem-mai comico o comunque curioso, delle cose, riuscendo a esprimerlo in ma-niera sintetica e divertente4. E tuttavia anche dopo la fi ne del secolo xviii,

e addirittura ancora oggi, non è aff atto detto che umore e umorismo ab-biano a che fare con il ridere: anzi, si può dire piuttosto che l’umorismo ha faticato parecchi secoli per aff ermarsi come termine che riguarda, se non la comicità, certo l’intelligenza spiritosa. Anche quando ha comin-ciato a essere usato con questa accezione (grosso modo tra il Settecento e l’Ottocento, dopo l’importante esperienza del teatro elisabettiano), esso ha però conservato un profondo collegamento sia con l’ambito fi siolo-gico, che riguarda l’equilibrio dell’organismo, sia con l’ambito psichico, che riguarda la complessione dell’essere umano e la sua determinazione in quanto individuo. È quanto ci dice l’associazione tra umore e ingenio, in-clinazione, mens, judicium, esprit, o anche wit, della quale dovremo parlare nelle prossime pagine. Ma prima attraverseremo i punti cardinali di quella teoria medico-psicologica detta “degli umori”.

La teoria degli umori

In un libro esemplare pubblicato in veste defi nitiva nel 1964 (ma appar-so in prima edizione già nel 1923) e intitolato Saturno e la melanconia, Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl (1983), tre studiosi formatisi nell’ambito della storia dell’arte e interessati in particolare a investigare la continuità tra il mondo antico e la cultura medievale e

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ri-20 l’umorismo letterario nascimentale, si sono per primi sforzati di portare ordine nel vastissimo materiale, antico e moderno, che concerne la teoria medica degli umori. Questa teoria è uno dei più considerevoli sforzi di sintesi che il pensiero occidentale abbia mai operato per dare una spiegazione dei fenomeni fi si-ci e psicologisi-ci che riguardano la sfera umana, stabilendo al tempo stesso dei legami tenacissimi tra microcosmo e macrocosmo: tra corpo, psiche e mondo.

Si tratta davvero di una sintesi, giacché l’intero funzionamento del-la macchina umana vi viene ridotto a quattro umori (sangue, bile gialdel-la, bile nera, fl egma), individuati per analogia nei quattro elementi di cui si compone lo spazio della natura (aria, fuoco, terra, acqua) e nelle quat-tro stagioni in cui si suddivide il tempo della natura (primavera, estate, autunno, inverno). Questa complessa operazione fu resa possibile da tre condizioni: 1. l’attribuzione di un contenuto fi sico al concetto astratto di “quattro”, che stabilì la centralità di sole, terra, cielo e mare (cui sono col-legati, sul piano della natura e sul piano della logica concettuale, i quattro elementi); 2. l’individuazione delle quattro qualità – caldo, secco, freddo e umido – comuni agli elementi naturali e al corpo umano; 3. l’identi-fi cazione nel corpo umano di quattro sostanze reali che avessero quelle medesime qualità, e cioè i quattro umori. Come ha sintetizzato Jackie Pigeaud (2008d, p. 8), «questi quattro umori fanno dell’uomo un essere del continuo, un tutto organico. Ma poiché sono collegati ciascuno a una stagione, essi iscrivono l’uomo nel mondo, secondo un’idea profonda-mente ippocratica»5.

Come si capisce, i quattro umori, di per sé, non si presentavano come elementi patologici, giacché ogni organismo li produce attraverso gli or-gani vitali. Ciò permise il passaggio dalla primitiva impostazione, che li considerava solo i sintomi della malattia, a un’evoluzione concettuale, che ne fece i principali responsabili della propensione a sviluppare una certa indole o temperamento: si addivenne così a una più complessa teoria dei caratteri, che costituisce il primo tentativo occidentale di individuare dei tipi mentali generali, ciò che noi oggi chiamiamo “psicologia”. Una tale trasformazione fu consentita, in particolare, dalle osservazioni che si ven-nero susseguendo sulla bile nera, o melancolia, che ben presto (cfr. il Fedro di Platone) venne messa in relazione con la manìa, cioè con quell’esalta-zione “eroica” considerata tipica del poeta o del sacerdote ispirato. Questa serie di osservazioni e concettualizzazioni trovò infi ne una sistemazione in Problemata xxx, un breve testo attribuito ad Aristotele già in tempo

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introduzione 21 antico (ma in realtà non suo), nel quale vengono incrociate la tradizione platonica della manìa (o furor, come si diceva nel mondo latino) e quella aristotelica del funzionamento delle facoltà umane (esposte nel De anima e in alcuni trattati minori). Questo breve testo ebbe un’enorme infl uenza sulle discussioni dei secoli successivi, fornendo l’orizzonte di senso dentro cui si sarebbero mossi sia i Padri della Chiesa e i pensatori cristiani, sia, più tardi, gli Umanisti e i primi fondatori della moderna psicologia, dal seco-lo xv almeno fi no agli ultimi decenni del Settecento, quando Immanuel Kant tornò su tutti questi problemi.

Uno degli aspetti più importanti di Problemata xxx, il concetto più produttivo nei secoli successivi per la valorizzazione degli umori, fu il rico-noscimento di un rapporto diretto dei phantasmata (l’elaborazione delle percezioni da parte della phantasìa) con le funzioni superiori del pensare. Se l’aff ezione melanconica, cioè la presenza eccessiva della bile nera in un organismo, era eff etto del «molto pensare» (come avrebbe sostenuto il medico alessandrino Rufo di Efeso, la cui infl uenza sarebbe arrivata sino a Costantino Africano, rappresentante della scuola medica medievale detta “di Salerno”), questo pensare doveva a sua volta essere messo in relazione con la produzione fantastica della psiche: la manìa poteva pure essere un “dono di Dio” (o una punizione), ma il suo funzionamento era spiegabile sulla base di principi naturali.

La teoria umorale, abbiamo detto, si muoveva nella continua oscilla-zione tra fi siologia e patologia, tra normalità dell’organismo (la secreoscilla-zione degli umori da parte degli organi vitali) e soff erenza a causa dell’alterazio-ne dell’equilibrio umorale. Lo slittamento verso una conceziodell’alterazio-ne gedell’alterazio-nerale dei “tipi mentali” introdusse tuttavia il concetto della eucrasia, cioè l’idea-le mélange «che permette agli umori di temperarsi tra di loro, e di perdere la loro asprezza»: tutto ciò non poteva avvenire che grazie alla coction, la digestione comune, che diventava il «grande modello di trasformazione, o alterazione»6. Secondo Pigeaud, la discussione migliore di questo

pro-cesso si trova in La natura dell’uomo, uno dei testi raccolti nella cosiddet-ta Collezione ippocratica, dove si sostiene che la salute perfetcosiddet-ta si verifi ca quando la «miscela [degli umori] è perfetta», mentre la malattia insorge «quando uno degli umori, in una quantità più o meno grande, si isola nel corpo anziché restare mischiato agli altri»: è, questa, «la più celebre defi -nizione della crasi, o temperamento»7.

Per dirla con le parole di un grande storico e teorico della medicina, Georges Canguilhem (1966, p. 12), «la natura (physis), nell’uomo come

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22 l’umorismo letterario fuori di lui, è armonia ed equilibrio»; quando questa armonia si rompe, l’uomo è malato. Ma, secondo una simile concezione, la malattia non è in un qualche posto specifi co nell’uomo: è tutto l’uomo a essere malato e la sua «malattia non è soltanto squilibrio e disarmonia, essa è anche, e forse soprattutto, sforzo della natura per ottenere nell’uomo un nuovo equilibrio». Il medico tenterà allora di imitare lo sforzo della natura, asse-condando la tendenza a raggiungere un nuovo equilibrio, nonostante gli ostacoli frapposti dalla malattia, la quale, di conseguenza, verrà interpreta-ta come resistenza al conseguimento di un nuovo ordine.

Questa sistemazione fi siologica sarebbe stata ulteriormente collegata alla dimensione psichica dai due più importanti medici e fi losofi islamici del Medioevo, Avicenna e Averroè. Il primo sarebbe intervenuto sul piano propriamente medico, introducendo una classifi cazione su base psicologi-ca. Il secondo avrebbe invece rifl ettuto sugli eff etti medico-psicologici delle tre virtù dell’anima intellettuale (cioè quella parte dell’anima che Aristotele riteneva esclusivamente umana): la virtù immaginativa, la virtù cogitativa (preposta al giudizio), la virtù memorativa. Da questo momento in poi la medicina s’incrociava defi nitivamente con la psicologia e con lo studio del-la conoscenza umana. In virtù del profondissimo legame che già lo stesso Aristotele aveva individuato tra il linguaggio, i procedimenti logici e lo sca-tenamento delle passioni, ciò signifi cava che da questo momento in poi la teoria degli umori avrebbe potuto essere applicata anche all’ambito della retorica, cioè alla cosiddetta “arte del discorso”.

S’inseriva a questo punto la necessità di una rifl essione sulla responsa-bilità morale del malato e, più in generale, sulla dimensione etica della te-oria degli umori. Secondo Klibansky, Panofsky e Saxl (1983), un passag-gio importante nella storia di questa teoria si deve all’incrocio tra teoria medica e teologia morale avvenuto in età cristiana, quando si produsse un «contrasto fondamentale, insolubile tra psicopatologia medica e psi-copatologia teologica o etica». In verità, più di recente Pigeaud (1981) ha mostrato che già nel mondo antico il rapporto tra pensiero morale e teo-ria fi siologica fu estremamente produttivo. Quale che sia la ricostruzione più corretta, è evidente che questo tipo di problema conduceva a una rifl essione non più sulle malattie dell’uomo, ma sul suo agire in generale. Da questo punto di vista si può constatare che nel Medioevo la dottrina dei temperamenti (opposta alla dottrina galenica della crasi) si raff or-za: del resto, secondo «gli umoralisti, la semplice prevalenza dell’uno o dell’altro degli umori primari non era che un fattore nel determinarsi

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introduzione 23 della costituzione […]; per i galenici ortodossi invece tale prevalenza si-gnifi cava in ogni caso una condizione patologica» (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1983, p. 95).

Separata la nozione di humor da quelle di aegritudo (malattia) e di pas-sio (dolore), si poteva sviluppare una concezione del carattere umano basa-ta sui soli dati forniti dall’osservazione, senza più dover fondare il discorso psicologico su una teoria patologica generale, che giustifi casse l’infermità e l’irregolarità. Questa grande trasformazione concettuale fu probabil-mente facilitata dalla nuova dottrina del nominalismo e dagli sviluppi del-la tarda Scodel-lastica, ma in ogni caso essa ebbe un profondo impatto sugli intellettuali dell’ultima parte del Medioevo, prolungando la sua infl uenza ben oltre il secolo xvi. Un’infl uenza che di certo fu esercitata anche sulla dottrina dei temperamenti, cioè di quella parte tra le «più tenaci e, per certi aspetti, più conservatrici della cultura moderna» (ivi, p. 113), se è vero che ancora Furetière, come abbiamo visto, avrebbe detto che umo-rismo «se dit aussi du temperament particulier qui vient du meslange de ces qualités» (“si dice anche del temperamento che risulta dalla miscela di queste qualità”).

Ora, tutto ciò ha a che fare con la letteratura per due ragioni stretta-mente interconnesse: 1. la centralità della retorica nella cultura medievale e postmedievale; 2. la concezione della poesia come attività che imita, ossia che rappresenta o gli uomini che agiscono (e che di conseguenza sono mos-si dal loro carattere o dalle loro pasmos-sioni), o gli uomini che mos-si esprimono (e che quindi lasciano trapelare il loro carattere e le loro passioni). Il legame è visibile in tutta la raggera tematica, dal vertice alto della tragedia, in cui – aff erma Aristotele – bisogna produrre nello spettatore paura o compassio-ne al fi compassio-ne di ottecompassio-nere la catarsi, al vertice basso della commedia, per la quale è più che evidente, almeno a partire dall’opera di Menandro, il rapporto con la teoria dei caratteri elaborata da Teofrasto, il miglior allievo di Ari-stotele, e destinata a proiettarsi in avanti per circa due millenni. Una sintesi esemplare di questo intreccio è off erta proprio da una commedia, Every Man out of His Humour, pubblicata per la prima volta nell’anno 1600 dal drammaturgo inglese Ben Jonson (2001), nel cui Prologo si legge che

tutto ciò che ha fl uidità e umidità, insieme al potere di contener sé stesso è umo-re. Così, in ogni corpo umano, collera, malinconia, fl egma e sangue, in ragione del loro continuo scorrere e dell’impossibilità di contenerli, ricevono il nome di umori. In questo senso la parola potrebbe essere applicata per metafora a una

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di-24 l’umorismo letterario

sposizione generale, come quando una qualità particolare possiede un uomo a tal punto da trascinare tutti i suoi aff etti, i suoi spiriti e le sue forze nel loro fl uire in una sola direzione: allora sì che si può defi nirla un umore8.

Yves Hersant (1985) ha fatto notare che questa teatralizzazione degli umori consentiva di passare da un «repertorio fi sso di tipi» (esclusiva-mente ritagliato sull’opera del già ricordato Teofrasto) alla «diversità delle manners of men», e quindi dall’«immutabilità dei caratteri» alla «varietà delle condotte». La centralità degli umori dichiarata nel prolo-go modifi ca, inoltre, l’impostazione drammaturgica, svincolandola dalla mimesi delle azioni per sviluppare invece «gli stati transitori», «il movi-mento umorale»9.

La cosa risulta particolarmente impressionante quando si osserva che l’edizione a stampa della commedia di Jonson riporta, dopo i «Names of the Actors» (cioè dei personaggi: Macilente, Carlo Buff one, Puntaruolo ecc.), i loro «Characters», ossia il carattere, l’indole, l’ingegno di ciascu-no. Cosa intrigante, se si pensa che in inglese personaggio si dice, appun-to, character, e ancor più interessante quando si scopre che il personaggio Asper, dopo aver spiegato che cosa siano gli umori, si rivolge ai suoi com-pagni («Friends»), invitandoli a fermarsi e a intrattenere («entertain») il pubblico «with some familiar and by-conference», ossia impegnandolo in una conversazione leggera e scherzosa, mentre lui andrà a trasformarsi («to turn») in «an actor and a humorist», cioè andrà a indossare i panni di un altro personaggio, faceto e divertente (Jonson, 2001, vv. 209-212)10.

Non si trattava certo della prima volta che i fl uidi del corpo assurgeva-no a elemento fondante della «disposizione generale» degli esseri uma-ni. Ma non si può fare a meno di constatare che la commedia di Jonson intreccia in maniera strettissima le storie della medicina, della psicologia e della letteratura. La sintesi fornita dal drammaturgo elisabettiano ave-va del resto alle spalle un processo lungo e complesso, che alla fi ne del secolo xvi poteva vantare una storia già più lunga di duecento anni. La storia che questo libro si propone di raccontare, mostrando le ragioni che consentirono il passaggio dall’umorismo inteso come “teoria degli umori” all’umorismo inteso come “stile o forma letteraria”, incentrata su una certa disposizione del sentimento individuale e sui modi della comu-nicazione spiritosa.

Per iniziare questo percorso sarà utile tornare a quella pagina di Sa-turno e la melanconia in cui gli autori aff ermano che lo humour, inteso

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introduzione 25 come atteggiamento dello spirito «deliberatamente coltivato», cioè come eff etto dell’educazione e della cultura, ha strettamente a che fare con la malinconia (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1983). Questa connessione è stata ribadita da Jonathan Pollock (2001) in una sintesi dedicata a Qu’est-ce que l’humour? (“Che cos’è lo humour?”), in cui lo studioso ha inteso spiegare il fenomeno partendo, come stiamo facendo anche noi, dall’antica scienza degli umori, senza la quale, peraltro, non si potrebbe capire che cosa per secoli si sia inteso con la parola malinconia, aff ezione che parrebbe situarsi all’opposto dell’umorismo (inteso come capacità di cogliere l’aspetto buf-fo delle cose ridendone e facendone ridere) e che però è necessario consi-derare anche in queste pagine introduttive.

Il malinconico ride

Se il medico antico cura le “passioni” del corpo – come ha spiegato Jean Starobinski – e il fi losofo s’impegna a guarire le “malattie” dell’anima, «nel mondo cristiano diventa infi nitamente più importante distinguere» (Starobinski, 2013) tra il primo e il secondo ambito, tra le turbolenze fi si-che e le insidie del peccato. La questione diventa particolarmente spinosa nel caso in cui la malattia dell’anima riguardi un religioso, come accade nella declinazione cristiana della melanconia, che a partire dalle accurate descrizioni dei Padri della Chiesa viene denominata acœdia, “accidia”, o tri-stitia. Poiché sin dall’antichità, almeno dal già ricordato Problemata xxx, si era ritenuto che il temperamento malinconico predisponesse alla con-templazione e alle attività intellettuali (da cui l’eccellenza dell’atrabile, o bile nera, tra i quattro umori), era più che naturale che questo carattere si trasferisse agli uomini di Chiesa, e in particolare ai cenobiti, chiusi nei conventi e dediti alla costante meditazione spirituale. Ma al primato intel-lettuale si accompagnava, nella melanconia, lo stato di prostrazione mora-le, di abbattimento psicologico, che poteva indurre al peccato. Un’insidia si nascondeva dietro la dedizione spirituale: «il diavolo opera attraverso la mediazione degli umori», avrebbe detto Robert Burton nella sua Anato-my of Melancholy (pubblicata nel 1621).

Seguendo la ricostruzione di Starobinski, si ricorderà che, tra i rimedi contro questa pericolosa malattia, erano annoverati l’esercizio fi sico, il la-voro manuale, nonché le infusioni di erbe medicinali: così insegnava Ilde-garda di Bingen nel secolo xi; così – a riprova della lunghissima durata di

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26 l’umorismo letterario questo paradigma interpretativo – proponeva ancora il Traité complet de l’humorisme di Ailhaud nel 1851. Da Rufo di Efeso, passando per Costan-tino Africano e infi ne arrivando alla cultura umanistico-rinascimentale, alle malattie dell’anima, e in particolare alla melancolia è stato dato uno statuto particolare in virtù del loro coinvolgere il corpo e lo spirito al tem-po stesso. Lo si legge in Giovanni Cassiano, sapientemente analizzato da Giorgio Agamben (1977), da cui si apprende che l’evagatio mentis, cioè la distrazione e la svagatezza, presenta una duplice conversione corporea, giacché può sia indurre nell’accidioso la tendenza a restarsene oziosamen-te inattivo, chiuso nella sua fantasticheria, sia invece spingerlo a spostarsi di continuo, a muoversi cambiando posto e attività.

Anima e corpo, dunque: e tra loro l’umore che – come confermano i dizionari sfogliati in apertura – infl uisce su entrambi gli aspetti dell’esi-stenza. Ed è per questo che Marsilio Ficino (1989), alla metà del secolo xv scrive un De vita, dove propone un puntuale ricettario cui gli intellettua-li dovrebbero attenersi per rimanere in salute, partendo dal presupposto che «atra bilis conduc[i]t ingenio», che cioè l’atrabile guida l’ingegno, sicché i litterati sono tutti «melancholici» e devono pertanto evitare le sostanze che aumentano la secrezione della pituita (o fl egma) e dell’atrabi-le, nonché sfuggire alla ghiottoneria e al coito sessuadell’atrabi-le, così come devono assolutamente evitare di dormire durante il giorno (ibid.). In questa me-desima direzione avrebbero continuato a muoversi i medici per almeno altri tre secoli, tutti condividendo la credenza nell’atrabile, quel che Sta-robinski ha defi nito al tempo stesso una «metafora che ignora sé stessa» e una «intuizione fondamentale» (Starobinski, 2013). Una «metafora», perché per suo mezzo si è inteso parlare dell’attività psichica umana, ma «che ignora sé stessa», perché si è creduto eff ettivamente di poter agire “praticamente” (con purganti, con viaggi, con cibi e bevande, con prati-che motorie) sulla bile nera, realizzando così un trattamento psicologico basato sulla sollecitazione dell’aff ettività del malato (il che, peraltro, era davvero una «intuizione»: ibid.). Esposti alla variazione degli stati psi-chici e all’infl uenza degli elementi terrestri, i melanconici restano però ingeniosi, ingegnosi e intelligenti, se non addirittura geniali. Riprendendo quanto aff ermato nel Corpus hippocraticum e poi in Problemata xxx, e rovesciando il sospetto dei Padri cristiani, Ficino avrebbe così spiegato l’eccellenza del pensatore, del poeta e dell’artista, codifi cando in maniera defi nitiva un luogo comune con vita lunghissima, arrivando fi no alla Cri-tica del giudizio di Kant e oltre11.

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introduzione 27 Tra i pensatori eccellenti bisogna annoverare senz’altro l’antico fi loso-fo Democrito. Eppure, un giorno, i senatori della città di Abdera, spaven-tati dal comportamento del loro illustre concittadino, scrissero una let-tera al medico Ippocrate, chiedendogli di andarlo a visitare per scoprire quale orribile male lo attanagliasse. Democrito, in eff etti, si comportava in modo piuttosto strano: egli restava sveglio tutto il giorno e scoppiava a ridere fragorosamente all’improvviso mentre guardava gli altri uomini agire normalmente nella loro vita quotidiana. «Un tizio si sposa, un altro pratica i suoi commerci, questo arringa la folla, quello parte per un incari-co diplomatiincari-co»: «Democrito ride di tutto»; «ecincari-co, Ippocrate, è questo che ci tiene agitati; salvaci di grazia, porta la pace alla nostra patria». Così comincia la lettera con la quale gli Abderiti chiedono aiuto a Ippocrate e con la quale inizia la breve raccolta epistolare incentrata sulla supposta follia del fi losofo. Democrito, spiega il medico, ha la disposizione tipica dei malinconici, i quali «a volte sono taciturni, solitari, chiusi in luoghi isolati; si allontanano dagli uomini, guardano ai loro simili come a degli stranieri», si ritirano nel «paese della verità»; non è dunque questione di malattia, ma di «eccesso di scienza, di una scienza che i suoi concittadini ritengono smoderata». Eppure anche questa è malinconia: «Tu sei tra-vagliato dalla bile nera, Democrito», scrive ancora il medico, che intanto prepara il viaggio, noleggiando una nave, trovando un sostituto che possa esercitare durante la sua assenza, concordando gli aff ari domestici con la moglie, procurandosi nel frattempo le necessarie essenze medicamentose (cfr. Ippocrate, 1991).

L’ultima lettera, inviata da Ippocrate a Damagete, espone infi ne il loro incontro. Sulle prime, scrive il medico, il comportamento del fi losofo ap-pare davvero bizzarro: egli passa dalla triste meditazione al ridere incon-trollato e allo scrivere rapido come di chi è preso dall’entusiasmo, o manìa, mentre tutt’intorno giacciono i corpi degli animali che egli ha sottoposto ad anatomia. Allorché dialoga con il medico egli si mostra invece saggio e pacato, salvo scoppiare nuovamente in una fragorosa risata quando Ip-pocrate aff erma che i mali del mondo non possono che togliere all’uomo ogni tranquillità. Ma il suo riso, spiega lo stesso Democrito, è dovuto al fatto che non c’è uomo che sappia ridere della propria follia, da cui è spin-to ad andare in cerca di cose che poi ripudierà e che in ogni caso lo faranno soff rire: la moglie, le ricchezze, la gloria. Gli uomini, continua il fi losofo, si massacrano a vicenda, spendono per vanità quel che hanno accumulato con fatica, desiderano ciò che è al di là della loro portata.

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28 l’umorismo letterario

Ecco quindi il bersaglio del mio riso: gli uomini insensati […]. Rido degli uomini che rivaleggiano in perfi dia nelle loro macchinazioni […]. Il mio riso condanna in loro l’assenza di ogni progetto ben ponderato […]. Scontenti di tutto, questi individui si accostano proprio a ciò che li disgusta: quando hanno rifi utato di prendere il mare, navigano; quando hanno rinunciato all’agricoltura, ridiventano coltivatori […]. Uomini simili in che cosa sono diversi dai bambini che giocano e che, privi di discernimento, trovano in tutto ciò che accade un pretesto per diver-tirsi? […] Non ti accorgi che sono fuori strada anch’io, io che cerco la causa del-la follia uccidendo e sezionando animali? Era nell’uomo che bisognava cercardel-la. (Ippocrate, 1991, pp. 68-72)

Alla fi ne della lunga tirata di Democrito, Ippocrate, dopo averlo ringraziato per i doni di sapienza che ha voluto elargirgli, si accomiata dal fi losofo e si reca dagli Abderiti, riuniti in assemblea, dichiarando loro che Democrito è «il saggio tra i saggi, il solo capace di render savi gli uomini» (ivi, p. 72).

Per quanto bella, questa storia, come si sarà capito, è falsa. Ippocrate e Democrito non si sono mai incontrati, e il medico non ha mai ricevuto l’insegnamento del fi losofo. Qualcuno in età antica inventò la situazione e scrisse abusivamente le lettere, che poi fi nirono nel Corpus hippocrati-cum, sistemate tra un altro romanzetto epistolare dedicato alla peste e un breve trattato sulla manìa. La falsifi cazione, va detto, riuscì benissimo, sti-molando nei secoli numerosi commenti e ispirando trattati e rifl essioni di ogni tipo, tanto da imporre – grazie alla mediazione del biografo Diogene Laerzio – un vero e proprio tòpos basato sulla contrapposizione tra il fi lo-sofo che ride e quello che piange, tra Democrito ed Eraclito. Per dirlo con il castigliano cinquecentesco di Pedro Mexía (1989), «esta ymaginación y estimación deste philósopho era tal, que bastava hazerlo andar riendo siempre; y la del otro, hazerlo andar llorando» (“l’immaginazione e ca-pacità di giudizio di questo fi losofo erano tali, che lo facevano ridere in continuazione; mentre a quell’altro lo facevano invece sempre piangere”, Silva, I, xxxix); se non che, continua l’erudito spagnolo, «considerando el trabajo y vida de los hombres, cada uno déstos parescía que tenía causas bastantes para lo que hazía» (“considerando il tenore del lavoro e della vita di questi uomini, sembra che ognuno di loro avesse suffi cienti ragioni per quel che faceva”). Insomma, saranno stati tutti e due un po’ fi ssati… ma lo spettacolo che danno gli uomini sembra dare ragione a entrambi: al primo, che ride vedendo gli uomini andare desviados, come al secondo, che piange considerando la cattiveria e la miseria umane.

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introduzione 29 e anzi plurimillenaria connessione tra riso e melanconia, in un ricono-scimento dell’ambivalenza e della compresenza di tristezza e ilarità. In un’ultima analisi, ha scritto un grande storico della medicina antica come Pigeaud (1981, p. 529), «la vera malattia dell’anima è questa distimia, que-sta melanconia dei medici e del Problemata xxx», il taedium vitae di cui hanno parlato Lucrezio e Seneca, ma sempre «sotto l’autorità del riso di Democrito». E proprio sotto la maschera di Democrito, presentandosi come un Democritus junior, volle off rire la sua immane Anatomia della melanconia l’inglese Burton (2000; cfr. Id., 1983), un uomo di Chiesa del Seicento, la cui opera individua nella melanconia lo strumento che con-sente di leggere il mondo e la sua perversità, nonché di comprendere le molteplici forme che l’insania dell’uomo può assumere. Nato sotto Satur-no (pianeta che campeggia nel frontespizio della terza edizione dell’Ana-tomy, 1628), l’autore moderno assume la maschera dell’autore antico nel tentativo di restituire almeno in parte il libro sulla follia che Democrito aveva scritto ordinando le sue osservazioni. «Quasi succenturiator Demo-criti», quasi suo sostituto nello schieramento militare della centuria (una milizia della conoscenza, ovviamente), Burton si off re come esempio della stessa malattia di cui parla, rivolgendosi a un lettore che ne è a sua volta vit-tima: «Th ou thyself art the subject», tu, caro lettore (mio simile, fratello mio, verrebbe da anticipare pensando al celebre incipit dei Fleurs du mal), sei l’oggetto del libro.

Si tratta di una mossa importante, questa di appellarsi al lettore at-tribuendogli la stessa condizione dell’autore: una mossa che caratterizza l’intera storia della letteratura umorista, al tempo stesso incentrata sulla peculiarità dell’emittente e rivolta al coinvolgimento del destinatario, di cui spesso fornisce un identikit psicologico. Intanto, Burton, il nuovo Democrito, continua la sua introduzione illustrando la follia generale del mondo e la possibilità di indagarla distinguendone ambiti, sezioni e for-me specifi che. Una rassegna che, vista la maschera prescelta, non può che iscriversi sotto il segno del riso: un riso spesso paradossale, non fondativo, originario; non il riso del carnevale che dovrebbe rigenerare il mondo, ma un riso del mondo degenerato. E, pertanto, un riso pronto a smentire sé stesso: che saprà cogliere l’aspetto difettivo dell’uomo e che, al contempo, amerà duplicarsi ridendo di sé stesso come in uno specchio deformante. Alla peggio, conclude Democritus junior, se il mio bisturi anatomico (ri-cordate la scena del primo incontro tra Ippocrate e Democrito?) aff onderà troppo in profondità e vi costringerà a urlare di dolore, allora «negherò

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30 l’umorismo letterario tutto (è il mio ultimo rifugio), ritratterò tutto, sconfesserò tutto quel che detto» (Burton, 1983, p. 171).

La maschera di Democrito ci mostra un altro aspetto del paradossale riso atrabiliare: se infatti, da una parte, il melanconico cerca la solitudine, nella quale lasciarsi andare alle proprie cupe meditazioni, dall’altra egli è at-tratto dalla vita collettiva, di cui sa cogliere con acutezza l’aspetto ridicolo, il suo aff annarsi nella continua instabilità di tutte le cose. Sembra quasi che gli occhiali democritei trasformino gli uomini in tanti Buster Keaton, creature lunari (scrisse Emilio Cecchi) che inciampano continuamente tra le cose. È questa la tristezza del ridere; il fondo melanconico nello sguardo divertito che sa cogliere argutamente i guasti del mondo12. Ed è qui che la teoria degli

umori s’incrocia con l’umorismo inteso come propensione al ridere garbato e intelligente. Seguirà una storia complessa, che giungerà fi no al riso mo-derno, spesso massifi cato e proprio per questo più esplicito nel suo fondo aggressivo, travasato dalle riviste umoristiche e dei barzellettieri. Ma la sto-ria comincia dalla teosto-ria degli umori e dalla progressiva defi nizione di una tipologia dei caratteri che avrebbe fi nalmente consentito l’indagine della soggettività individuale. Presentatasi all’inizio come una semplice «deline-azione dei caratteri e delle emozioni» (Klibansky, Panofsky, Saxl, 1983, p. 95), la teoria degli umori avrebbe infatti avviato la rifl essione occidentale sulla singolarità. E se attraverso i tipi si sarebbe giunti al singolo, è proprio da qui che si può partire per ricostruire una “genealogia del soggetto”, cioè per provare a disegnare il modo in cui nel corso dei secoli la civiltà europea è venuta elaborando un discorso incentrato sulla singolarità: la soggettività di colui che prende la parola o la penna.

La retorica antica, com’è noto, proibiva la soggettivazione del discorso: l’oratore era una fi gura pubblica, che doveva rispondere a un certo ethos generale, senza esporre le condizioni della propria individualità, men che meno presentando le variazioni, le fl uttuazioni, le modifi che del proprio stato d’animo. Si teneva, sì, in conto il carattere generale (fl emmatico, col-lerico ecc.) del temperamento dell’oratore, capace di infl uenzarne lo stile; ma lo stesso non valeva per la declinazione singolare, specifi ca del suo cor-po e del suo sentire.

Perché ciò accadesse sarebbe stato necessario un lungo percorso, che si sarebbe incrociato anche con il progressivo organizzarsi di un discorso fi losofi co sulla soggettività. E sarebbe stata necessaria anche una certa im-postazione letteraria, una disposizione del soggetto a prendere la parola e a presentarsi non più come fi gura esemplare (“io = tutti”), ma come

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indivi-introduzione 31 duo, la cui esperienza è profondamente specifi ca: comparabile a quella de-gli altri, ma non identica. Occorreva prima “scoprire” la temporalità (cioè l’immersione del soggetto nel fl usso incostante del tempo) e il prospettivi-smo (cioè la molteplicità dei punti di vista che uno stesso soggetto può as-sumere nel tempo). Il terzo elemento sarebbe stata una nuova valutazione dell’ingegno individuale, cioè della specifi cità singolare di ciascuno: quel che si sarebbe cominciato a chiamare esprit, in francese, o wit, in ingle-se. Tutte parole collegate all’umorismo, inteso come capacità di cogliere gli aspetti buffi e disorganici del mondo e come capacità di esprimere in modo elegante, intelligente e divertente questa disorganicità, a partire da una rinnovata consapevolezza dell’intreccio indissolubile tra spirito (o mind o ingenio o, ancora una volta, esprit) e corpo.

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Parte prima

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Fluttuare

«Ut contrarii et corrupti humores febrem corporum, sic contrarii aff ectus febrem pariunt animorum» (“Come gli umori contrari e corrotti pro-ducono la febbre del corpo, allo stesso modo aff etti contrastanti causano la febbre dell’animo”). Così, riprendendo la fondamentale analogia tra corpo e anima, o spirito (la psyché dei Greci), Francesco Petrarca (2002) recuperava la similitudine tra umori e aff etti come elementi capaci di de-stabilizzare l’equilibrio interiore. Il lessico petrarchesco è coerente con la lunga tradizione occidentale che aveva individuato le relazioni tra la sfera corporea e quella psicologica, salvo che l’autore ne sottolinea soprattut-to il risvolsoprattut-to morale, giacché la “febbre dell’animo” consiste nel peccasoprattut-to, e pertanto conduce all’«aeterna mors», la “morte eterna”. Al contrario, «temperamentum et equalitas quedam ad salutem via est»: il percorso della salute, o della salvezza, consiste in un certo equilibrio (perché la salus æterna si contrappone per un cristiano alla mors æterna).

Questi concetti, che abbiamo velocemente attraversato nelle pagine dell’Introduzione, sono esposti in uno dei dialoghi tra Dolor e Ratio che costituiscono la seconda parte del De remediis utriusque fortune, e più precisamente quello intitolato De discordia animi fl uctuantis (ii, 75), os-sia “Sul confl itto dell’animo fl uttuante”. Mettendo a confronto nel suo teatrino psichico le personifi cazioni del dolore e della ragione, Petrar-ca rappresentava il contrasto tra la parte razionale e quella passionale dell’uomo; nel farlo, applicava il lessico dei medici e dei fi losofi naturali all’ambito della morale. In questo modo, tornando all’origine della psi-cologia occidentale, egli poneva in termini rinnovati la questione della soggettività. Inserire il concetto di morte eterna, cioè la prospettiva del peccato, signifi cava infatti ragionare in termini di imputabilità, ossia,

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36 l’umorismo letterario come vedremo più avanti parlando di Montaigne (cap. 2), di responsa-bilità per le proprie azioni.

Prima di tornare su questo problema capitale è però utile ragionare su un altro aspetto di questo testo, che a prima vista potrebbe apparire mar-ginale e che invece ha una funzione strategica. Mi riferisco al titolo, e più precisamente al modo in cui è qualifi cato l’animo: fl uctuantis. Si tratta di un termine importante, sia perché sottolinea la dimensione della tempo-ralità (è un participio presente), sia perché il concetto di fl uttuazione è centrale in tutta l’opera petrarchesca.

Il tema, davvero onnipervasivo, acquista un valore particolare nel Secre-tum1, come ben mostra il titolo completo di questa breve e aff ascinante

ope-retta: De secretu confl ictu curarum mearum. Le preoccupazioni (curarum) sono in confl itto, agitando il soggetto (colui che dice “io”) e lasciandolo in preda a quella minacciosa febbre su cui si soff erma il De remediis. Il Secre-tum inscena in tre libri un dialogo tra Francesco e il fi losofo cristiano del iv secolo Agostino, i quali passano in rassegna i peccati di Petrarca, dibat-tendo alla presenza della Verità, che, dopo aver recitato poche battute nel Proemio per introdurre la situazione e i personaggi, assiste a tutto il dialogo restando in silenzio. Il confronto tra Agostino e Francesco è assai rigoroso, improntato alla sincerità e al rispetto della verità: un vero e proprio esame di coscienza in cui però la contritio cordis non ha come esito l’assoluzione fi nale e dunque la remissione dei peccati, per il semplice fatto che il pecca-tore dichiara in conclusione di non poter ancora intraprendere il «rectum callem salutis», la “retta via della salvezza”, perché impegnato in «multa» e «magna negotia», cioè in quelle “molte e importanti faccende” che sono le opere letterarie che aveva in animo di comporre o di portare a compimento.

È interessante osservare lo stretto rapporto tra confl itto e fl uttuazione: il contrasto tra ragione e passione, o tra ragione e volontà dominata dagli “aff etti”, ha la sua principale rappresentazione in un fl usso. Lo si vede con chiarezza quando si mette a confronto la sintetica battuta del De otio, in cui l’autore aff erma di trovarsi sempre preso «inter fl uctuationes meas» (Petrarca, 2000, II, ix 7; cfr. Rico, 1974, p. 75), e la quasi identica immagine di “Francesco”, che, dialogando con il suo interlocutore, riconosce «inter procellas meas fl uctuationis tue vestigium» (S 114: “Tra le mie tempeste l’impronta della tua fl uttuazione”). L’ammissione del debito nei confronti delle Confessioni di Agostino viene tutta giocata sulla similitudine tra i due movimenti perplessi e incerti (quello del santo e quello del poeta) e il mare in tempesta, agitato da forze contrarie.

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petrarca, o la temporalità 37 Il confl itto di elementi e di correnti si inscrive in quella che è senza dubbio la più diff usa metafora petrarchesca, la navigazione per mare, che infatti appare subito prima della battuta appena citata, quando France-sco distingue tra la sua condizione di «naufragum» e quella del santo, il quale è invece felicemente approdato in un porto sicuro («felicem», «portus tuta tenentem», ibid.). La metafora, che Fenzi (1992, p. 48) ha detto «frequentissima, se non continua, in tutto Petrarca», ha origine classica e cristiana, presente com’è in tutte le principali letture dell’au-tore, da Cicerone a Terenzio, da Orazio a Ovidio, da Seneca allo stesso Agostino. Essa torna, per limitarci a solo pochi esempi, non molte bat-tute più avanti, quando “io” ribadisce che «in mari magno sevoque ac turbido iactatus, tremulam cimbam fatiscentemque et rimosam ventis obluctantibus per tumidos fl uctus ago» (S 132: “gettato in un grande pelago, crudele e tempestoso, guido una barchetta fatiscente e piena di falle sui fl utti agitati lottando coi venti contrari”). Qui, al di là della sot-tile ripresa di alcuni versi virgiliani («cimbam […] rimosam», Aeneis vi, 413-414; «tumidos fl uctus», Aeneis v, 125-126), è sintetizzato il parallelo con il nocchiero di una nave mezzo sfasciata che lotta in mare aperto contro le onde gonfi ate dai venti contrastanti. La stessa immagine ricorre anche nella più celebre delle opere petrarchesche, il Canzoniere, i cui so-netti clxxxix (Passa la nave mia colma d’oblio) e ccxxxv (Lasso, Amor mi trasporta ov’io non voglio) sono interamente costruiti sulla metafora continua della nave allo sbando (Petrarca, 2005). L’immagine è inoltre presente nel De otio religiosorum, dove si rimprovera chi «in portu posi-tus», arrivato in porto, «desiderat tempestates», rimpiange le tempeste nelle quali si è imbattuto (Petrarca, 2000, II, ii 1). Al contrario, aff erma Petrarca nel Secretum, «dovete godere, voialtri, di essere scampati nudi da un tale naufragio con la nave sana e salva», mentre intanto auspica per sé stesso di poter «morire in porto, dopo aver vissuto tra le onde in tempesta» (S 188).

La metafora dominante del viaggio per mare polarizza dunque i due termini del porto e della tempesta, che risalgono al celebre modello lucre-ziano dello spettatore che, trovandosi al sicuro sulla terraferma, osserva il naufragio in mare di una nave:

Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano:

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38 l’umorismo letterario

non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina

ma la distanza da una simile sorte. (De rerum natura, ii 1-4)2

La ripresa petrarchesca di questo vero e proprio «paradigma di una me-tafora dell’esistenza», come lo ha defi nito Hans Blumenberg (1985) in un importante saggio, ci permette di fare un passo avanti nella nostra rifl es-sione. Se si osserva bene, Petrarca innova profondamente rispetto al mo-dello antico: mentre infatti Lucrezio situa lo spettatore in posizione sicu-ra, Petrarca invece lo colloca nel pieno del dramma, mentre ancora non ha terminato il suo viaggio. Di conseguenza, la metafora non rappresenta un processo esterno, ma esprime la situazione del soggetto, la sua condizione interiore.

La stessa considerazione si trae dal confronto con un’altra metafora di navigazione assai diff usa nel Medioevo latino e ripresa in particolare da Dante, cioè «l’immagine di una nave che attraversa il mare come fi -gura per la composizione di un’opera letteraria» (Cachey, 1997, p. 373). Th eodor Cachey ha osservato che Petrarca «non ha mai adottato» in tal senso la metafora nautica, perché l’«applicazione canonica delle meta-fore della navigazione […] non serve a un poeta messo a confronto con l’ineluttabile naufr agio del tempo» (ivi, p. 380; cfr. anche Id., 2005). Per il nostro discorso sull’umorismo è piuttosto interessante osservare che la declinazione adottata da Petrarca crea un cortocircuito tra la metafora della navigatio vitae e l’ancora più fortunata immagine dell’homo viator, l’uomo in cammino nel viaggio della vita. Se infatti si accetta l’idea che i complessi immaginativi abbiano un valore cognitivo, così che allegorie, metafore e similitudini non adempiano soltanto a una funzione esornati-va ma collaborino alla formazione di conoscenze e modi di interpretare il mondo, allora si dovrà concludere che, nel caso di Petrarca, la sovrappo-sizione dei sistemi metaforologici mette in evidenza l’aspetto immersivo del percorso (il soggetto è infatti presentato dall’interno), nonché il suo carattere non rettilineo. Torneremo nell’ultimo paragrafo di questo capi-tolo sul signifi cato che le ambagi, le digressioni, le deviazioni dal tracciato rettilineo assumono nell’opera petrarchesca. Adesso è importante sotto-lineare che la prospettiva interiore è incentrata su una premessa esisten-ziale: il soggetto non si trova nella condizione di chi osserva lo spettacolo dalla riva o dal porto, ma al contrario si trova egli stesso dentro il mare, diventando a sua volta spettacolo per il lettore (e, beninteso, per sé stesso sdoppiato in quanto autore). In questo modo, come ha giustamente

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con-petrarca, o la temporalità 39 cluso Cachey, risulta anticipata «l’innovazione» che invece Blumenberg attribuisce a Pascal, secondo la quale sarebbe «impossibile rimanere sem-plicemente ad osservare dalla spiaggia». Il «siete imbarcati» pascaliano è un’acquisizione già presente in Petrarca.

La questione è importante, e riguarda il rapporto di Petrarca con il sa-pere antico, e in particolare con gli esercizi spirituali, studiati da Pierre Hadot (2005), il quale ha mostrato come, «coinvolgendo tutto lo psichi-smo», questa forma avesse per obiettivo l’uscita dalla durata e la conse-guente liberazione dall’ossessione del tempo che scorre. Al fi ne di con-giungersi con la ragione e di aff errare mentalmente il tutto, il soggetto doveva imparare a concentrarsi sul «momento presente», così da potersi aff rancare dalle passioni, «sempre provocate dal passato o dal futuro, che non dipendono da noi» (ivi, p. 35).

L’atteggiamento di Petrarca mi sembra del tutto opposto. Innanzitut-to, il congiungimento con la ragione è per lui soltanto tendenziale: è un auspicio e una meta, mai una condizione certa. Inoltre, nella sua opera il presente è sempre concepito come un fl usso agitato dalle passioni: se infat-ti è vero che queste sono prodotte dal passato e dal futuro, secondo la clas-sica determinazione temporale delle due passioni principali, spes ac metus (cfr. Bodei, 1991) ne consegue che il presente è sconvolto dalle tempeste. Lo si legge nella Praefatio del secondo libro del De remediis, dove di nuovo troviamo l’immagine degli scogli pericolosi, dei venti contrari, del porto lontano cui l’animo, quasi smarrito, non può altro che anelare3.

Il pensiero di Petrarca non può dunque esser fatto risalire alle fi losofi e ellenistiche così come furono interpretate e assimilate dal cristianesimo; diff erente è inoltre in lui il senso stesso dello scrivere. Nella scuola antica, si tratta di un gesto terapeutico, e serve per presentare «le azioni e i moti» dell’anima come se li si volesse «far conoscere agli altri» al fi ne di indurre il soggetto, preso dalla vergogna, a liberarsene. La scrittura come esercizio spirituale non è però una “scrittura di sé”: «Non solo non si scrive sé stessi, ma la scrittura non costituisce il sé: come gli altri esercizi spirituali, essa muta il livello dell’io, lo universalizza» (Hadot, 2005, pp. 80, 175). Del tutto diverso è il senso della scrittura in Petrarca. Certo, è vero che ver-so il 1350 «nascono i grandi libri petrarcheschi, accomunati tutti» dalla «reinterpretazione in chiave di autobiografi a ideale della passata vicenda umana e intellettuale dell’autore» (Santagata, 1990, p. 358). Ma si deve ricordare che il fi ltro agostiniano, cioè la chiave che permette al poeta di ricostruire, o almeno di tenere insieme, la propria autobiografi a, è da lui

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40 l’umorismo letterario adottata in una forma “aperta”, che non chiude, non sigilla la vita in un percorso che dalla tempesta delle passioni si chiude nella certezza della conversione.

Se questo è lo schema delle Confessioni di Agostino, non è invece quello che innerva l’opera petrarchesca: lo abbiamo visto nel Secretum, dov’è di-chiarata l’impossibilità di convertirsi (e proprio per un problema di “tem-po”); lo si vede nel Canzoniere, la cui ultima canzone, dedicata alla Vergi-ne, presenta colui che dice “io” in preda a una «terribile procella»: «I’ mi ritrovo sol, senza governo, / et o già da vicin l’ultime strida» (Rerum vulgarium fr agmenta [d’ora in avanti rvf] cccclxvi, 70-71). Se si osser-va che questi versi sono strettamente imparentati a «fra sì contrari venti in frale barca / mi trovo in alto mar senza governo» del sonetto cxxxii (10-11) e a «stanca senza governo in mar che frange / e ’n dubbia via senza fi data scorta» del sonetto cclxxvii (7-8), troviamo riuniti insieme tutti gli elementi di un quadro che ormai possiamo defi nire tipico: una nave in mezzo al mare, tormentata da una tempesta in cui si agitano venti contrari; immagine che descrive una condizione soggettiva, tant’è vero che a essere «stanca» e «senza governo» è la «mia vita» (rvf cclxxvii, 6).

Ma qual è la causa delle fl uctuationes e della discordia animi? Lo chia-risce il Secretum, dove si spiega che il movimento interiore è causato dal rapporto tra le “immagini” e i “pensieri” (imagines e cogitationes), da cui nascono i fantasmata che distraggono l’uomo dalla corretta conduzione di sé (S 130, 136). L’animo fragile del poeta, assalito dalle turbe dell’im-maginazione («fantasmatibus suis obrutus») e oppresso da molte diff e-renti preoccupazioni in lotta tra di loro, perde il cammino ed è trascinato “ora di qua, ora di là da una straordinaria oscillazione” (S 138: «Modo huc modo illuc mira fl uctuactione»).

Il meccanismo descritto da Petrarca rientra nel quadro concettuale del trattato aristotelico De anima. Nel terzo libro di quest’opera capitale, de-dicato alle facoltà dell’anima che consentono all’uomo di conoscere, Ari-stotele, dopo aver connesso coscienza e percezione, si diff onde sulla facoltà dell’immaginazione (in greco phantasìa), la quale «non esiste senza sen-sazione, e senza di essa non c’è apprensione intellettiva» (427 b 15). L’im-maginazione è mediana tra percezione e conoscenza, agisce elaborando i dati sensoriali che trasmette all’intelletto, nel quale agiscono gli intelligi-bili. Ai due estremi dell’attività psichica umana vi sono, di conseguenza, un fl usso costante e una ricettività altrettanto costante, che costituiscono l’attualità della sensazione e la potenzialità dell’elaborazione intellettuale:

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