94 l’umorismo letterario costantemente ripresa, teoria degli umori veniva così riformulata per meglio comprendere il nuovo soggetto della modernità, di cui si metteva in eviden- za quel che con Huarte de San Juan abbiamo chiamato l’ingenio, cioè il wit, l’esprit, l’indole individuale: l’umore. Se il vantaggio off erto da questo anti- co e venerabile modello medico-fi losofi co era la sua coerenza con la corrente idea (aristotelica) dell’anima tripartita, la teoria umorale continuava a esse- re interessante, perché articolava l’instabilità corporea (le malattie fi siche) sull’anima e, viceversa, perché fi ssava l’instabilità dell’anima (le condizioni psicologiche) sul corpo. Il quadro concettuale fi ssatosi nel corso dei secoli sembrava effi cace anche per descrivere la natura del soggetto moderno, ca- ratterizzata da una peculiare irriducibilità alle categorie generali.
Tutto ciò sembrerebbe invece radicalmente sconfessato, da un lato dall’irruzione della nuova scienza galileiana, che interpretava i fenomeni della natura abbandonando il modello qualitativo per abbracciare quel- lo quantitativo, dall’altro dalla fi losofi a cartesiana, che distingueva rigi- damente tra corpo e anima (mens nei testi latini, esprit in quelli france- si). Lasciando da parte la rivoluzione scientifi ca, che tra l’altro convisse ancora a lungo con principi di ordine qualitativo, se non addirittura con residui di pensiero magico, è necessario ripercorrere il processo fi losofi co realizzato da Cartesio, a partire dalla prima grande scena con la quale si apre il Discours de la méthode (1637, Discorso sul metodo), testo capitale del pensiero occidentale, che lo stesso autore defi nì una storia (histoire), o addirittura una favola (fable).
Abbandonati gli studi universitari, Io, il protagonista di questo rac- conto, si reca in Germania per prendere parte alla Guerra dei Trent’anni. Durante la tregua invernale, costretto dal freddo, Io passa «tutto il giorno da solo chiuso in una stanza ben riscaldata da una stufa, dove avevo tutto l’agio di intrattenermi con i miei pensieri» (Cartesio, 1986a, p. 155). Im- pegnatosi in un esercizio di radicale ripensamento delle basi del pensiero, Io eff ettua una prima, provvisoria tabula rasa di tutti i suoi convincimenti e di tutte le sue cognizioni precedenti, decidendo di affi darsi a una «mo- rale provvisoria», in attesa di trovare in sé la forza per scoprire un nuovo fondamento a partire dal quale costruire la sua identità e, di conseguenza, dare una forma coerente al mondo. Arrivato a questo punto, Io riprende le sue peregrinazioni, che si protraggono per altri otto anni, durante i quali, pur progredendo sul sentiero della verità, grazie alle nuove conoscenze a cui giunge nei diversi campi del sapere, continua tuttavia a sentirsi lon- tano dall’approdo defi nitivo. Decide pertanto di isolarsi nuovamente dal
cartesio, o la corporeità 95 mondo e di concentrarsi nelle sue speculazioni; per farlo, con una mossa sorprendente quanto astuta, non va a nascondersi in qualche isolata lo- calità di montagna, ma si stabilisce nel pieno dei territori in guerra. Qui, «tra tanta gente attivissima e più intenta ai propri aff ari che non curiosa di quelli altrui», aff erma, «ho potuto vivere in modo altrettanto solitario e appartato come lo si potrebbe fare nei deserti più remoti» (ivi, p. 167).
Rinchiuso per una seconda volta in una camera, Io s’immerge nuo- vamente nelle sue méditations, sottoponendosi con ancora più radicalità allo sforzo del puro pensiero. Datosi come metodo di rifi utare come as- solutamente falso «tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo dub- bio», Io inizia a cancellare il mondo intorno a sé: elimina prima i sensi, che «talvolta ci ingannano» facendoci credere cose che non esistono; poi annulla i risultati dell’attività della ragione; infi ne riduce tutta la sua attività mentale allo stato di pure illusioni oniriche, che non off rono al- cuna certezza di verità. Ed è così che Io arriva al suo nocciolo inestirpabi- le, al fondamento primo della propria consistenza: «Mi accorsi che nel momento stesso in cui volevo pensare che tutto fosse falso, era necessa- rio che io, che così pensavo, fossi qualcosa. Notai allora che la verità: io penso, dunque sono [je pense, donc je suis] era così solida e certa, che non avrebbero potuto rimuoverla neppure le più stravaganti supposizioni de- gli scettici» (ivi, p. 168)1.
Se Io poteva stabilire la propria esistenza grazie alla dinamica stessa del pensare, questo voleva dire che si stabiliva una barriera invalicabile tra il mondo dei sensi e il mondo dei pensieri, cioè tra il corpo e l’anima:
Vedendo che potevo fi ngere che non avevo alcun corpo, e che non esisteva alcun mondo o alcun luogo dove io fossi, mentre non potevo fi ngere, con questo, di non esistere, ma che, al contrario, per il fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva in modo evidentissimo e certissimo che io esistevo […], conclusi che ero una sostanza la cui essenza o natura non consiste in altro se non nel pensare. (ivi, pp. 168-9)
Da tutto ciò, si deduce che «l’anima non cesserebbe di essere tutto quel- lo che è, anche se il corpo non fosse» (ibid.). Proscritti i sensi, messa al bando l’immaginazione, posto infi ne Dio come fondamento del mondo esterno e dell’attività stessa del pensare, il percorso speculativo conduce Io ad aff ermare che l’anima «è, per sua natura, del tutto indipendente dal corpo» (ivi, p. 185)2: questo sarà pura estensione, res extensa, quella sarà
96 l’umorismo letterario
Una cosa che pensa
Ma Io è insoddisfatto: è arrivato a distinguere in maniera netta tra Mens e Corpus, esprit e corps, ma d’altra parte, non c’è niente da fare, «un vero uomo» («un vrai homme») non può che essere un sinolo di mente e cor- po, con la prima che «deve essergli congiunta e unita più strettamente perché possa provare […] sentimenti e passioni» (ivi, p. 184). Se nel 1637, ai tempi del Discorso sul metodo, la questione resta dunque aperta, non per questo la favola di Io è terminata. Anzi, il percorso fi losofi co riprende quattro anni dopo, quando Cartesio ricomincia a interrogarsi sul fonda- mento dell’esistenza, questa volta decidendo di render noto l’intero pro- cesso del suo pensiero, quel che egli ama defi nire le sue “meditazioni”, ossia le sue études d’imagination, gli esercizi basati sulla facoltà immaginativa, che distingue nettamente (secondo la testimonianza di Adrien Baillet, suo primo biografo) dalle études d’entendement, gli esercizi basati sulla facoltà dell’intelletto. Lo scenario ci è noto: il Soggetto si ritira «in piena soli- tudine» e inizia la «radicale distruzione» (in latino: eversio generalis; in francese: détruire généralement) di tutte le sue «antiche opinioni», rea- lizzata attraverso l’abbattimento dalle «fondamenta» di tutte le sue co- noscenze (Cartesio, 1992; per un’introduzione, cfr. Kambouchner, 2005). Rinchiuso per la terza volta in una stanza, Io si mette alla ricerca delle cose che possono averlo ingannato, lottando contro le impressioni confu- se, contro le nozioni imprecise, contro la «[sua] stessa volontà», e addi- rittura contro il «genio maligno» che potrebbe essersi sostituito a Dio per ingannarlo. Dopo il primo giorno, che lo fa precipitare «in un mare di dubbi», Io prende a demolire metodicamente tutto ciò di cui può ri- tenersi incerto, fi no ad arrivare al punto archimedeo, all’argomento che non può essere revocato in dubbio: «Ecco, ho trovato: il pensiero, è que- sta l’unica cosa che non può essermi sottratta. Io sono, io esisto, questo è certo. Ma per quanto tempo? Certamente per tutto il tempo che penso». Io, insomma, «sono soltanto una cosa che pensa» («sum igitur praecise tantum res cogintans»: Cartesio, 1986c, p. 218).
Fin qui, si direbbe, Cartesio ha ripetuto, nella forma letteraria della meditazione, quel che aveva già realizzato nel Discorso sul metodo, cancel- lando dalla dimensione soggettiva ogni incertezza, ogni mutamento, ogni opacità proveniente dal corpo, sotto forma delle percezioni sensoriali o della loro elaborazione attraverso la facoltà immaginativa. Nulla di nuovo, dunque, se non per quel che riguarda la forma letteraria, la cui scelta, oltre
cartesio, o la corporeità 97 al possibile rapporto con gli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, è stata probabilmente infl uenzata dal «progetto autobiografi co» di Montaigne, del quale riprende – com’è stato notato – la sovrapposizione tra «saggio [essai] come testo e saggio come esperienza» (Lafond, 1990, p. 67)3. Nul-
la di nuovo, in apparenza, ma in realtà è tutto nuovo, perché la seconda giornata di meditazione continua con una defi nizione importante. Posto innanzi alla necessità di defi nire che cosa sia una «cosa che pensa», il fi - losofo stabilisce che si tratta di «una cosa che dubita, che intende, che aff erma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente» (Cartesio, 1986c, p. 219). Si tratta di un’acquisizione fondamenta- le: la cosa che pensa non è solo pensiero contemplativo, non è esclusiva- mente ragione astratta, ma è anche un centro di volizioni (volens, nolens, dice il testo latino); è un centro di attività immaginative (imaginans); ed è addirittura un ricettore di sensazioni (sentiens). Il medesimo concetto è ribadito all’inizio della successiva meditazione, così da renderne indi- scutibile la centralità per ogni ulteriore acquisizione conoscitiva: sebbene «quelle cose che sento o immagino fuori di me» possano forse non essere nulla, Io «sono tuttavia certo che quei modi di pensare che chiamo sensa- zioni e immaginazioni, in tanto in quanto sono soltanto modi di pensare, si trovano certamente in me» (ivi, p. 224). Il mondo esterno potrà forse essere un inganno, e semmai è proprio un inganno dei sensi; ma le attività del mio corpo, che percepisce il mondo e lo elabora dandogli una forma, non possono essere considerate ingannevoli.
Oltre alla res extensa e alla res cogitans si pone così la necessità di quel che Jean-Luc Marion ha defi nito la «terza nozione primitiva», cioè l’u- nione di anima e corpo, che andrà intesa non come qualcosa che appa- re «in seconda battuta», ma come qualcosa «che viene prima [avant] dell’anima e del corpo, o almeno che viene altrimenti [d’ailleurs]» (Ma- rion, 2011, p. 140). Si tratta di una straordinaria apertura del concetto di pensiero (cogitari), che consente di riappropriare il corpo alla defi nizione di soggetto, come si vede in maniera particolarmente chiara nel sesto e ultimo esercizio meditativo, dove l’immaginazione viene defi nita come «una certa applicazione della facoltà conoscitiva al corpo che le è inti- mamente presente e che, di conseguenza, è esistente» (Cartesio, 1986c, p. 253)4. Vedremo tra poco che cosa voglia dire questa intima presenza, ma
è subito evidente che la virtù immaginativa della tradizione aristotelica viene qui riconosciuta come un luogo di equilibrio e pertanto di media- zione, intermedio tra conoscenza e corpo5. Ne consegue una spiegazione
98 l’umorismo letterario complessiva che tiene conto dei due aspetti: «La mente, quando intende, si rivolge in qualche modo a sé stessa […]; quando invece immagina, si rivolge al corpo, intuendo in esso qualche cosa di conforme all’idea o che essa stessa se ne è formata o che ha percepito con il senso» (ivi, p. 254). Certo la mens resta autonoma rispetto al corpo (e all’immaginazione), ma non vi è alcun dubbio che qui, al termine del suo percorso, Cartesio concepisce una forma corporea del pensare, in particolare affi dando alla «phantasìa, fulcro del meccanismo corporeo», il ruolo decisivo di «fi ltro di una complessità soggettiva che ci condiziona e ci determina», in quan- to modifi ca la nostra conoscenza delle cose, ci aggancia «continuamente al sensibile» e produce delle «nozioni “immaginarie”» (Santinelli, 1999, pp. 202, 211).
Ego cogito, ergo ego sum, ecco la formula latina che abbiamo tutti letto a scuola nel manuale di storia della fi losofi a, o che almeno abbiamo im- parato a ripetere dopo averla sentita citare decine e decine di volte. Quel- la formula, che tutti abbiamo creduto fosse la massima aff ermazione del solipsismo di una ragione accampata come fondamento esclusivo della nostra stessa esistenza, si rivela, al contrario, dichiarazione di apertura al mondo vischioso dei sensi, delle volizioni e delle immaginazioni: apertura a un’altra forma del pensare. E se vi sono modi del cogitare che riguarda- no anche l’immaginazione, allora è evidente che Io “sono” non soltanto quando mi applico nel pensiero astratto, dedicandomi alla pura specula- zione metafi sica. Io è fatto di spinte, di tensioni e squilibri, cioè di passioni (Kambouchner, 1996).