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Il discorso della città

La seconda conclusione della breve disamina che abbiamo anticipato qualche pagina fa riguarda la questione di come e dove si debba esercitare il riso, cioè della dimensione culturale che consente e addirittura legittima il discorso spiritoso. Si tratta di una questione che riconduce la trattazione tecnico-oratoria alla rifl essione etica con la quale abbiamo iniziato; e del resto sin dalle prime pagine di questo capitolo abbiamo dovuto osservare la cura con cui il modello classico precisava gli estremi (per difetto o per eccesso) in cui può cadere chi attinga al patrimonio del comico e del ridi-

che cos’è ridere 127 colo. Un’attenzione davvero di lunghissimo periodo, che ha presieduto alla stessa fondazione della moderna pedagogia, a partire da quella grande svolta umanistico-rinascimentale che ebbe tra i suoi massimi protagoni- sti Erasmo e che fu denominata “civiltà delle buone maniere” (cfr. Elias, 1982).

E in eff etti, se già Aristotele individua il buff one e il rustico come i due caratteri opposti, altrettanto incapaci di produrre discorsi scherzosi o piacevoli, è Cicerone tra i primi a formulare una chiara prescrizione: «Essere consapevole dei tempi, frenare l’arguzia, controllare e temperare la frequenza dei motti di spirito distingueranno l’oratore dal buff one» («Temporis igitur ratio et ipsius dicacitatis moderatio et temperantia et raritas dictorum distinguent oratorem a scurra», ii 247). Questa capaci- tà di autocontenimento sarà dunque tipica di colui che ben presto verrà chiamato l’uomo urbanus, ossia dotato della fondamentale virtù della ur- banitas, che una recente traduzione di Institutio rende con l’interessante espressione angloitaliana di «senso dello humour», confermando la stret- ta interdipendenza tra raffi natezza dello spirito e umorismo.

Lo stesso Quintiliano fornisce del resto una chiara defi nizione di ur- banitas come quel discorso (sermonem) che utilizza espressioni confor- mi, nel suono e nel signifi cato, al gusto della città (gustum urbis) e che è espressione di quella conoscenza del mondo (eruditionem) proveniente dalla frequentazione (ex conversatione) degli uomini dotti: discorso e conoscenza cui, in sintesi, si contrappone la rozzezza (rusticitas)6. Quin-

tiliano coglieva qui una signifi cativa evoluzione semantica, realizzata soprattutto a partire da Cicerone, per fornire la nozione «di civiltà, di raffi natezza, di saper vivere che sono proprie del cittadino che conosce gli usi del mondo» (Saint-Denis, 1965, p. 153). Ancora una volta, queste considerazioni derivavano dall’Etica nicomachea, nella quale la perso- na poco elegante era denominata agroikòs (da agròs, “campo”), avallan- do prospetticamente la contrapposizione latina rusticus vs urbanus, e il successivo slittamento del termine italiano “villano” dall’ambito deno- tativo di “abitante della villa” (e quindi “contadino”) a quello eticamen- te connotato di “rozzo”, “ignorante”. Veniva così costituendosi un asse davvero fondamentale nella cultura occidentale moderna, che alla fi ne del Settecento, al momento di introdurre una sua edizione delle epistole di Orazio (1782), Christoph Martin Wieland avrebbe ancora ripetuto, spiegando che «ai bei tempi di Roma, con la parola “Urbanità” [Urba- nität]» si intendeva quella «raffi nata tintura di educazione, conoscenza

128 l’umorismo letterario del mondo [Weltkenntnis] e politesse, che si acquisivano insensibilmente dalla lettura dei migliori autori, e dal contatto con le persone più colti- vate» (Wieland, 1986)7.

È interessante confrontare le parole di Wieland con l’analogo luogo in cui Quintiliano aveva spiegato che cosa intendesse con il termine urbani- tas. Arrivando alla conclusione del capitolo dedicato al discorso spiritoso, Quintiliano aff erma infatti che a suo giudizio l’urbanità è quel modo di dire o di presentarsi o di agire caratterizzato da «alcunché di balordo o rozzo [agreste] o privo di educazione [inconditum] o bizzarro» e che, pertanto, può essere paragonato a quel che presso i Greci si chiama “atti- cismo”, cioè l’espressione di quella raffi natezza che sarebbe specifi ca degli abitanti di Atene (vi 3, 107)8. Se agli occhi di un classicista tedesco del

secolo xviii come Wieland il modello ideale era Roma, per un romano del i secolo d.C. esso era invece la grande città greca, ancora splendida per magnifi cenza dei templi, ricchezza della popolazione e dottrina dei sapienti. Ma quel che più conta è che al tempo di Augusto, come in pieno Illuminismo, il modello restava sempre la grande città (nell’Ottocento sarebbe stata Parigi), la quale dettava il gusto, le norme di comporta- mento e soprattutto il modo di esprimersi in maniera garbata, raffi nata e scherzosa.

Urbanitas è infatti prima di tutto un’educazione del linguaggio, quella vera e propria virtù (virtus), che consiste nel parlar breve divertendo gli ascoltatori e provocando in loro i diff erenti moti dell’animo («urbanitas est virtus quedam in breve dictum coacta et apta ad delectandos moven- dosque homines in omnem adfectum animi»). Virtù cittadina per eccel- lenza, e dunque fondamento della civiltà (la civilitas è infatti strettamente congiunta alla civitas), con il passare dei secoli essa sarebbe stata sempre più identifi cata come il perno della convivenza, diventando così qualcosa di più che una semplice abilità oratoria. Lo avrebbe detto con grande chia- rezza – esplicitamente allargando il raggio della discussione quintilianea – un umanista meridionale, Giovanni Pontano, che negli ultimissimi anni del Quattrocento, mentre il Regno di Napoli veniva invaso dall’esercito francese di Carlo viii, spiegava che:

L’urbanità – ed è una distinzione che gli scrittori di eloquenza avrebbero dovuto fare – riguarda in parte gli scherzi e le spiritosaggini degne della città e della con- vivenza di uomini civili e bennati, in parte le azioni e i costumi a cui si attengono i cittadini e coloro che vivono in città e hanno relazioni civili. (V ii, 7)9

che cos’è ridere 129 Urbe dignis, “degne della città”: la convivenza civile è dunque identifi cata con la vita in città, e l’urbanità non può aff atto ridursi al bello stile degli scrittori, non è dunque un’abilità specialistica, ma è la misura da assume- re nella dimensione quotidiana della libera frequentazione tra cittadini (conversationibus civilibus), quando bisogna saper parlare in modo arguto, divertente e adeguato10.

Si chiarisce così l’ultimo passaggio di questo fondamentale snodo teo- rico, che contempla l’applicazione del linguaggio spiritoso non solo al di- scorso pubblico (oratio), ma anche, e anzi direi soprattutto, al circolo pri- vato della conversazione tra amici e conoscenti (sermo), al di fuori di ogni immediata necessità pubblica. È per questo motivo che Pontano intitola il suo trattato De sermone, insistendo sulla necessità di acquisire e praticare quella specifi ca virtù umana che consiste nell’arte del discorso come fon- damento della convivenza. Ed è ancora per questo motivo che Robortello (1967, pp. 52, 54) risolverà il quesito se le facezie si debbano utilizzare sol- tanto nei discorsi «publici et forensi» o anche nella vita quotidiana («in convictu»), spiegando che esse si applicano a entrambi i campi, ma che del secondo si occupano i «philosophi qui de moribus tractant», e cioè i fi losofi morali, come quelli che hanno discusso dell’urbanità, alludendo a Pontano e risalendo per quella via al quarto libro dell’Etica nicomachea di Aristotele.

Torniamo così all’inizio del nostro capitolo, confermando l’interesse etico per il discorso spiritoso, per quella relazione naturale tra humor e di- scorso informale che, sempre alla metà del Cinquecento, Vincenzo Maggi, concorrente e avversario di Robortello, avrebbe ulteriormente ribadito, ricordando che la «giocosa mediocrità, rivolta a rilassare un po’ gli animi con libera urbanità» viene chiamata in greco eutrapelìa. L’eutràpelos di Aristotele restava insomma il modello dell’uomo spiritoso, capace di stare al mondo e d’intrattenere piacevolmente nella conversazione quotidiana11.