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La civiltà della conversazione

Negli stessi decenni in cui medici, professori universitari, gentiluomini di corte e scrittori aff ermarono per la prima volta che ridere è ciò che caratte- rizza gli uomini e lo distingue dagli animali («rire est le propre de l’hom- me»), si cominciò a sostenere con forza che la conversazione è necessaria all’uomo. Con quel termine s’intendeva qualcosa di più che la sola attivi- tà del discutere insieme, giacché conversare designava il fatto di vivere in società, la convivenza degli esseri umani in generale e quella cittadina in particolare. Lo illustra con grande chiarezza La civil conversazione (1573) di Guazzo, uno dei testi che più effi cacemente divulgarono l’idea secondo cui l’esercizio reciproco della parola, intrattenendo, diviene fondamento della vita associata. Leggiamo due brevi estratti:

La conversazione è non solamente giovevole ma necessaria alla perfezione dell’uo- mo, il quale bisogna confessare che sia simile ad un’ape che non può viver sola. (1 A16y)

Non si può esser vero uomo senza la conversazione, perché chi non conversa non ha sperienza, chi non ha sperienza non ha giudicio, chi non ha giudicio è poco men che bestia. (1 A18x)

Come vedremo tra breve, Guazzo non era particolarmente originale nell’a- vanzare una simile teoria; al contrario, egli sintetizzava un «paradigma cul- turale condiviso dai più», che rappresentava «le opinioni della maggioran- za» (Quondam, 2007, p. 213). Ma proprio per questo, per il fatto cioè di riproporre un luogo comune, questo scrittore, che proveniva da una zona in fondo marginale della cultura europea come la città di Casale Monferrato, governata da un ramo della famiglia Gonzaga e divenuta poi celebre soprat-

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150 l’umorismo letterario tutto per alcuni episodi della Guerra dei Trent’anni, riusciva a presentare nel suo libro un «modello di mondo», cioè un insieme coerente che non solo descriveva una certa situazione storica eff ettiva, ma dava anche forma a una serie di convenzioni e di comportamenti ritenuti abituali: una forma che avrebbe caratterizzato la vita europea per molti secoli a venire.

Evidentemente, le pratiche della conversazione esistevano da molto tempo prima del Rinascimento italiano e una teoria al riguardo era stata proposta da Aristotele quando aveva descritto l’uomo faceto come un tipo ideale, collocato nel punto mediano di opposti estremi viziosi. Se non si può ignorare questa lunga tradizione alle spalle dei massimi teorici italiani del secolo xvi, è però vero che è a partire da quest’epoca che la conversa- zione diventa una vera e propria arte, cioè un’attività conformata a princi- pi stabili, che devono essere appresi e in base ai quali ciascuno deve saper regolare il proprio comportamento. In una breve ma intelligente discus- sione del problema, lo storico britannico Peter Burke (1997) ha distinto la storia dell’arte della conversazione in tre grandi periodi, che vanno dal Cinquecento italiano al Seicento francese fi no al Settecento della Gran Bretagna. Questa tripartizione cronologica, per quanto possa apparire un po’ schematica, ha il vantaggio di segnalare in maniera chiara i centri cul- turali che più riccamente contribuirono alla diff usione di una certa pratica e alla defi nizione delle regole entro le quali essa doveva contenersi.

Esiste dunque uno sviluppo progressivo dell’arte della conversazione, dalla fondazione italiana alla rifl essione anglosassone, passando per l’apo- geo dei salotti francesi del Grand siècle; uno sviluppo che dipende stretta- mente dai concreti ambienti nei quali quella pratica si diff use. Al tempo stesso, la conversazione presenta una forte continuità nel tempo, sia per quanto riguarda il patrimonio astratto delle regole sia per ciò che concerne i comportamenti eff ettivi. Lo stesso Burke (ivi, p. 21), riprendendo rifl es- sioni di ambito antropologico, sociologico e linguistico, ha sostenuto che la conversazione, indipendentemente dalle diff erenze specifi che dovute ai singoli contesti, sarebbe caratterizzata da quattro caratteri principali: 1. il rispetto del principio di cooperazione; 2. l’uguale distribuzione dei dirit- ti tra i diversi parlanti; 3. la spontaneità e l’informalità degli scambi; 4. il tono non-aff aristico cui i parlanti devono attenersi.

È evidente che, con l’eccezione dell’ultimo, i caratteri individuati da Burke implicano la parità dei conversanti e la loro integrazione all’inter- no di una medesima comunità basata sul riconoscimento. Ed è altrettanto evidente che nella realtà eff ettiva non tutti venivano ammessi alla con-

la conversazione 151 versazione, che al contrario era spesso piuttosto selettiva, soprattutto se si tiene conto del fatto che si trattava di un’attività svolta in luoghi chiusi e per lo più non pubblici, o non interamente tali. Si creava così una con- traddizione tra ideale etico (elaborato all’interno della classe aristocratica, o comunque a suo vantaggio) e confl itto sociale: il quale poteva essere in- terno alla stessa aristocrazia, oppure contrapporre la nobiltà agli altri ceti, in particolare ai settori più agiati del mondo delle professioni. In questo senso, la tripartizione cronologica proposta da Burke è interessante perché consente di animare il quadro morfologico, facendo risaltare le varianti dovute al mutare dei contesti.

E tuttavia, nonostante le variazioni nel tempo e nello spazio, le costan- ti evidenziano gangli concettuali e culturali di questa pratica. Lo mostra bene un testo piuttosto periferico, Il cavaliere e la dama, pubblicato a Roma nel 1675 da Giovanni Battista De Luca, dov’è descritta la complessa stratigrafi a del mondo aristocratico, dalla più alta nobiltà fi no al livello che l’autore identifi ca come «nobiltà impropria» e che era composta dai rap- presentanti dei ceti delle professioni e della fi nanza, segno della «grande mobilità sociale del terzo stato in età moderna», presente anche in un’a- rea non particolarmente avanzata qual era lo Stato della Chiesa della fi ne del secolo xviii, dove pure però si registrano le tipiche dinamiche dei ceti ricchi spinti «alla ricerca di nobilitazione» (Quondam, 2007, p. 315). È notevole che nella stessa opera si ribadisca che la conversazione è il campo in cui sono messi in gioco quei processi del ridicolo, del distanziamen- to e della sanzione sociale che abbiamo discusso nel precedente capitolo. Lo si vede in particolare in un passaggio in cui De Luca ammonisce gli aristocratici “nuovi”, o “impropri”, a «non d[are] nel singolare» e a non «rend[ersi] tra gli altri cavalieri soggetto di riso». Un avvertimento assai signifi cativo, che rispondeva all’esigenza di una necessaria «messa a nor- ma» di questi «cavalieri e gentiluomini “impropri”»: essi venivano così ricondotti al giusto livello che loro competeva «nel sistema complessivo dell’assetto sociale» (ivi, p. 317)1.

Un simile modello culturale sembrava tuttavia contenere in sé elementi di riequilibrio delle tensioni. Lo osservò il fi losofo scozzese David Hume, secondo il quale se la civilité, cioè la convivenza umana, e la politesse, ossia la regola di base del saper vivere in compagnia, sono il prodotto della dise- guaglianza (si tratta infatti di un’elaborazione aristocratica), esse tuttavia creano una forma nuova di uguaglianza, dovuta al fatto che chi si trova in basso cerca di conformarsi al codice prodotto ai vertici della società,

152 l’umorismo letterario mentre chi sta in alto usa la benevolenza verso gli inferiori (Craveri, 2001, p. 324). L’urbanitas, come l’avevano chiamata gli antichi, la politesse (un evidente latinismo da politu(m): “ripulito, levigato”, e quindi, per esten- sione, “perfettamente educato”), come invece la chiamarono i francesi del Seicento2, veniva dunque messa alla prova durante la conversazione,

che aveva il duplice carattere della competizione e della collaborazione (Burke, 1997, p. 22). I contemporanei ne erano pienamente consapevoli, tanto da insistere a più riprese sulla necessità di adeguarsi all’indole del proprio uditorio (abbiamo già parlato del «gusto del mondo»). Come scrive La Bruyère (1990, n. 45), occorre «s’accomoder à tous les esprits» (“conformarsi a tutti i caratteri”), con il fi ne di accontentare il proprio interlocutore e anzi compiacerlo. Questo sarebbe addirittura la natura stessa dell’«esprit de politesse», che consisterebbe in una «certa atten- zione a far sì che le nostre parole e i nostri modi rendano gli altri contenti di noi e di loro stessi» (ivi, n. 16). Ragionando di un’attività che ricono- sce come sommamente competitiva, La Bruyère vi individua una netta contrapposizione: «Il y a faire bien et faire selon leur goût: le dernier est préférable» (“Si può o fare bene o fare secondo il gusto altrui: la seconda è preferibile”)3.

Ma fare secondo il gusto degli altri signifi ca anche trovare una forma di contemperamento tra i diversi esprits, ossia, diremmo noi: umori e ca- ratteri4. Per cui, se La Rochefoucauld (2005, p. 256), un altro dei grandi

moralisti francesi del Seicento, aveva ragione a scrivere, in una nota a De la conversation, che «non ogni tipo di conversazione è ugualmente adatta a ogni gentiluomo. Bisogna scegliere ciò che si conforma a ciascuno e sce- gliere addirittura il momento in cui dirlo»; d’altra parte lo stesso autore (come si legge in De la société) osservava che il commerce tra individui che compongono una société si basa su una certa armonia dei diversi esprits, realizzata attraverso il discorrere.

Il più importante luogo di applicazione dell’esprit è dunque il parlare, soprattutto il parlar spiritoso: perché conversare signifi ca, innanzitutto, saper controllare le risorse del comico e del ridicolo. È questo, ribadisce lo stesso La Rochefoucauld (ivi, p. 252), uno degli aspetti centrali del saper stare insieme agli altri: «Vi è un tipo di educazione che è necessaria nel commercio dei gentiluomini. È quella che fa comprendere gli scherzi e che impedisce di essere infastiditi o d’infastidire gli altri per delle maniere di parlare troppo secche e dure». Come vedremo più avanti, la raillerie, ossia l’arte del prendere in giro, è centrale in questo complesso apprendistato

la conversazione 153 del vivere in comune; si tratta, come spiega lo stesso autore, di «un’aria gaia che riempie l’immaginazione e che fa vedere il ridicolo degli oggetti che ci si presentano innanzi. L’umore di ciascuno lo rende poi più dolce o più aspro» (ivi, p. 273, e si torni all’Introduzione di questo libro).

L’arte del prendere in giro, l’espressione regolata del proprio sguardo obliquo che sa mettere in ridicolo gli oggetti del mondo aggiungendo- vi una certa nota originale dovuta all’umore personale, è dunque uno dei grandi prodotti di quel progressivo controllo della violenza dei rapporti quotidiani realizzato dalle élite nobiliari. Se dunque è vero che un eff et- to della civilizzazione europea (istradata lungo la via della civilité) fu la sublimazione della confl ittualità, o se, come ha detto Starobinski (1990, p. 62), si creò «un campo chiuso», dove i soggetti si muovevano di comu- ne accordo promuovendo «l’erotizzazione dei rapporti quotidiani, della conversazione, dello scambio epistolare», principio di base dell’honnêteté, si può allora aggiungere che «nella competenza faceta e arguta», come ha osservato Quondam, c’è anche «la sublimazione del confronto e del- lo scontro, che si sposta dai corpi alla parola» (Quondam, 2007, p. 228). Ecco perché l’arte della facezia, l’abile controllo delle risorse dell’umori- smo sono così apprezzati dalla società di Antico regime: è l’altro volto di quel timore per l’aggressività e, in generale, l’insidiosità del comico e del ridicolo che, come abbiamo visto nel capitolo 7, erano evidenti a tutti.

Il Cinquecento italiano e la fondazione del modello

Modelli ideali di convivenza improntati alla libera conversazione di uguali sono stati proposti più volte nel corso della civiltà occidentale, a partire dal mondo greco-romano e poi, in maniera indipendente, nel mondo medievale. È il caso, per esempio, del De nugis curialium scritto da Walter Map nel secolo xii alla corte dei Plantageneti, nell’odierna In- ghilterra; ed è il caso, senza alcun dubbio, del Decameron di Boccaccio, in cui la conversazione (sebbene Boccaccio non usi mai questa parola) è assolutamente fondamentale nell’architettura e nel signifi cato dell’o- pera. E tuttavia non sbaglierebbe di molto chi volesse fi ssare l’inizio di una vera e propria civiltà della conversazione nell’Italia del Cinquecento. Fu infatti qui, tra Napoli, Urbino, le corti padane e le dimore patrizie dell’intera Penisola, che venne organizzandosi quell’insieme di precet- ti comportamentali e di categorie stilistiche che divenne ben presto un

154 l’umorismo letterario compiuto sistema etico a uso di un’aristocrazia che si sentiva “moderna”, cioè svincolata dall’esclusiva obbedienza alla realtà territoriale circoscrit- ta dalla quale proveniva, e quindi proiettata nell’orizzonte più ampio del mondo contemporaneo.

Una simile trasformazione fu resa possibile dalla presenza di numerose concause, di carattere storico e culturale, sulla cui spinta gli intellettua- li, i poeti e gli artisti italiani giunsero a elaborare, nel giro di trent’anni, un modello di grande raffi natezza, diventando, come si espresse Maurice Magendie (1970), la «source principale» per la formazione del perfetto gentiluomo e dell’honnête homme, e quindi il collante di un ricchissimo patrimonio, comune a tutta Europa. Tra queste concause va annoverato il recupero dei classici antichi, non solo nel senso erudito del restauro fi lo- logico, ma soprattutto come testi di riferimento cui ispirarsi nel presente. Il rapporto con gli antichi non fu dunque passivo, ma al contrario estre- mamente complesso e vario, come dimostra quello che di sicuro è il primo tentativo di fornire una rifl essione compiuta sulla conversazione, il De ser- mone di Pontano.

Umanista assai dotto, Pontano fu anche uomo politico di altissima re- sponsabilità, alle cui mani venne più volte affi data la stabilità del Regno di Napoli. Giunto alla fi ne della carriera, quando il Regno era ormai caduto sotto la spinta francese («Gallis vastantibus»), egli scrisse un trattato sulla convivenza privata, intitolato al linguaggio quotidiano (in latino: sermo). Se ne possono individuare tre presupposti. Il primo è fi ssato sin dall’ini- zio, quando si aff erma che, poiché gli esseri umani sono nati in società e non possono che vivere tra numerosi altri individui («Cum sociabiles nati simus sitque vivendum in multitudine», i 1, 3), è necessario rifl ettere sul modo in cui si parla. È interessante osservare che una teoria del discorso viene qui articolata a partire dalla dimensione politica (la condivisione dello spazio con altri uomini), intesa come un fatto naturale. Cum sociabi- les nati simus, scrive Pontano, così come Aristotele aveva detto che l’uomo nasce “animale politico” (zoòn politikòn).

Se l’umanista aragonese traeva da Aristotele anche il secondo presup- posto, di carattere etico, e cioè la convinzione che la mediocritas sia mi- sura della perfezione umana, il terzo è invece un suo apporto originale e consiste nella individuazione del sommo ideale umano nell’homo facetus, ossia nell’«uomo spiritoso». Come abbiamo visto, già l’Etica nicomachea aveva presentato con grande favore l’uomo libero, capace di esercitare l’eutrapelìa, e già il De oratore aveva off erto ampio spazio alla facezia e

la conversazione 155 all’arguzia dell’uomo pubblico. Ma Pontano dedica a questa funzione e a queste competenze un intero trattato autonomo, incentrato peraltro non sull’attività pubblica, ma sulla dimensione privata dell’esercizio amicale e disimpegnato.

Per questa ragione, Pontano aveva bisogno di una parola nuova, che precisasse la funzione speciale, distinta e non derivata, di questo stile co- municativo. Egli formulava pertanto il concetto di facetudo, intermedio tra la destinazione pubblica della facundia (che si esercita «nei comizi, nelle discussioni di tipo amministrativo o politico, nei discorsi pubbli- ci») e la facetitas, come qualità precipua di coloro che s’intrattengono «in gruppi, convegni, conviti e in conversazioni tra amici al solo fi ne dell’intrattenimento piacevole e disimpegnato»5. La facetudo si trova

pertanto tra la facundia e la facetitas non in quanto virtù intermedia tra due qualità, come accadeva nelle classifi cazioni antiche e medievali, ma in quanto competenza da applicare in uno spazio intermedio tra l’ambito pubblico dell’orazione e l’ambito privato della chiacchiera, caratterizzato da elementi di entrambi. È interessante osservare che Pontano realizzava qui un’operazione analogica basata sul sistema concettuale aristotelico: se infatti «la mediocritas non si applica solo alle virtù cosiddette “morali”, ma anche all’eloquenza e a tutto ciò che in greco si dice “retorica”»6, allora è

possibile inserire la facetudo (intesa come qualità specifi ca dell’homo face- tus) nel più comprensivo orizzonte morale.

Ciò è confermato dalla più ampia accezione del termine urbanus, che per Pontano costituisce una virtù generale, cui è demandato l’insieme delle relazioni sociali, non solo – a diff erenza di quanto riteneva Quin- tiliano – l’ambito linguistico del motto. Pertanto, Pontano accoglie l’uso di quanti preferiscono chiamare questa virtù non urbanitas, ma civilitas, individuandola come quell’attitudine che si applica non solo agli atti e agli aff ari cosiddetti “civili”, ma anche alle occasioni sociali in cui ci si intrattie- ne insieme parlando7. Ciò chiarito, Pontano può ribadire a più riprese che

l’urbanitas si esercita sia negli scherzi e in quella comicità che sarà degna di un ambiente di uomini liberi, sia nel complesso delle attività civili8. È

allora chiaro che la rifl essione di Pontano, stretta in un corpo a corpo con la tradizione greco-latina, cerca di defi nire il campo di applicazione di una virtù che sarebbe anche la più alta defi nizione dell’uomo civile. Per questo l’autore oscilla, ed è assai signifi cativo, tra il riferimento alle occasioni pub- bliche e il rapporto tra facetudo e refocillatio animi, che, in quanto tale, non possa che realizzarsi in ambito privato. Si trattava di una diffi coltà dovuta

156 l’umorismo letterario alla stessa natura del commercio sociale di Antico regime, spesso esercitato in quel luogo statutariamente ambiguo che era la corte.

Qui è invece ambientato il grande libro di Castiglione, quel Libro del Cortegiano che rappresenta il vertice della cultura delle corti italiane e fu subito considerato il modello di riferimento, tanto che nel giro di pochi decenni venne tradotto in numerose lingue, a partire dallo spagnolo e dal francese. Al successo dell’opera contribuì senza dubbio l’eccellenza dei personaggi ritratti, da Giuliano de’ Medici (fi glio del Magnifi co) a Pietro Bembo, a Federico e Ottaviano Fregoso, senza parlare delle splendide si- gnore Emilia Pia, vedova del conte di Montefeltro, e Elisabetta Gonzaga, moglie del duca di Urbino. Lo svolgimento del dialogo dentro il palazzo ducale, anzi in quella «città in forma di palazzo» che era la residenza du- cale, va considerata la seconda ragione della rapida trasformazione di que- sto libro in modello: sebbene non avesse un grande signifi cato politico- militare, il Ducato di Urbino era infatti considerato un esempio eccellente della nuova cultura cortigiana, animato com’era da personalità artistiche e intellettuali di primissimo ordine.

Del resto, proprio il fatto che si trattasse di una corte periferica lo rendeva esemplare di tutto un ambiente sovraregionale (i Fregoso erano genovesi, Bembo veneziano, Giuliano fi orentino, Elisabetta veniva da Mantova…) e addirittura internazionale (per la presenza di musici, artisti e gentiluomini provenienti da tutta Europa): il palazzo urbinate diventava rappresentativo di un’intera categoria (il mondo delle corti), perdendo, almeno parzialmente, i suoi caratteri specifi ci. Si trattava di un’esplicita intenzione dell’autore, che esaltava il fondatore del palazzo, Federico da Montefeltro, perché «con grandissima spesa [vi aveva adunato] un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri […] estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo» (i 2): se il cuore della corte era lo studiolo di Federico, con la sua magnifi ca biblioteca, evidentemente la sua migliore descrizione non poteva che trovarsi in un libro – quello di Castiglione.

L’ultimo e principale motivo del successo del libro fu il fatto che l’au- tore abbia scelto di aff rontare il tema del perfetto cortigiano adottando il genere letterario del dialogo. Si trattava di una scelta “moderna”, che trasfe- riva nella letteratura in volgare il recupero dei modelli greci e latini realiz- zato in ambiente umanistico. Optando per il modello di Platone, Cicero- ne o semmai Luciano, l’intellettuale umanista trovava in quei testi antichi la piena legittimazione alle proprie ambizioni letterarie, siglando peraltro

la conversazione 157 in maniera perentoria il distacco dal dialogo medievale, il cui esplicito im- pianto didattico era reso evidente del modello frontale: il magister da una parte, che parlava, e il discipulus dall’altra, che tutt’al più faceva domande.