• Non ci sono risultati.

Il Naufragio: un viaggio letterario da Odisseo al Titanic

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il Naufragio: un viaggio letterario da Odisseo al Titanic"

Copied!
131
0
0

Testo completo

(1)

1

CAPITOLO I

L’UOMO E IL MARE: UNA STORIA DI NAUFRAGI E DI

TEMPESTE

1.1 INTRODUZIONE

Fin dalla notte dei tempi il mare ha sempre attratto l’uomo, suscitando in lui sensazioni contrastanti dettate da un misto di desiderio e di profonda inquietudine. Anche noi, uomini di oggi, fissando dalla riva la grande distesa marina di fronte ai nostri occhi, abbiamo uno sguardo perso, sognante, che ci porta a fantasticare su cosa ci sia oltre l’orizzonte, che ci fa viaggiare con il pensiero, che ci conduce lontano dalla terraferma e dai nostri quotidiani impegni. D’altra parte, la visione di un mare in tempesta e delle sue onde violente che si scagliano sulla riva, non può far a meno di scatenare nell’osservatore tensione, turbamento e un senso di profonda impotenza nei confronti di questa grande entità tanto maestosa e potente.

Non occorre andare troppo lontano per trovare situazioni in cui la navigazione in mare si è rivelata fallimentare e disastrosa. Pensiamo, ad esempio, all’affondamento del Titanic, verificatosi appena un secolo fa nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912: il transatlantico britannico fece naufragio a causa della collisione avvenuta con un iceberg e il suo inabissamento provocò la morte di 1500 persone. Qualche anno dopo, il 26 luglio 1956, fu il turno del transatlantico italiano Andrea Doria, naufragato al largo del porto di New York a causa dello scontro con la nave passeggeri svedese Stockholm. Il novecento, era della tecnologia e della modernità trionfante, fu un secolo caratterizzato da frequenti naufragi che posero all’attenzione il problema fondamentale del conflitto tra le forze della tecnica umana e quelle della natura.

Purtroppo, anche al giorno d’oggi, sono frequenti i naufragi e le morti in mare. Basti pensare alle migliaia di persone che ogni giorno dal Nord Africa cercano di raggiungere le coste europee a bordo di imbarcazioni piccole e fatiscenti che, nella maggior parte dei casi, non sono in grado di affrontare un viaggio così impegnativo. Anche i migranti di oggi, al pari degli uomini del passato, decidono di partire in preda alla disperazione e alla miseria, sperando che al di là di quel tratto di mare, così terribile

(2)

2

e misterioso, ci sia un nuovo avvenire e una prospettiva di vita diversa rispetto a quella che hanno deciso di lasciare.

Il viaggio, infatti, per il suo stesso dinamismo e per la sua mobilità, è connesso al desiderio e all’inquietudine di cambiare lo stato delle cose; il naufragio, di conseguenza, presuppone un finale tragico a questa traversata esistenziale e a tutte le aspirazioni umane. Esso, visto come l’interruzione o la fine di un viaggio, può rappresentare sia il compimento di un destino che un kairos, un occasio, grazie a cui questo stesso destino può compiersi, attraverso l’evolversi di una storia di sopravvivenza.1

Non a caso, Mario Domenichelli ha definito il naufragio come una soglia tra la perdita della propria identità storica e psicologica, vista come morte simbolica, e la rinascita costituita dall’approdo in un mondo nuovo.2

A differenza dei naufragi compiuti dagli eroi classici o dagli esploratori moderni, il naufragio contemporaneo, però, non ha nulla di epico. Oggi esso rappresenta la deriva, la mancanza di un punto fermo, una condizione di vita, la ricerca perenne e inquieta di mancati approdi. Per capire al meglio lo stato di spaesamento che oggi viviamo durante la “navigazione della nostra vita” in preda a rotte incerte, è necessario fare un viaggio all’interno dell’esperienza storica e letteraria dell’idea di naufragio.

Come sappiamo, in tutte le epoche lo spazio marino è stato solcato da imbarcazioni destinate a collegare luoghi distanti, a mettere in comunicazione genti diverse, a trasportare merci e uomini. Questa mobilità acquatica, sin da allora, conteneva in sé il rischio del fallimento, a causa dell’imprevedibilità di un ambiente che ha sempre attratto l’uomo in un rapporto di odio-amore. Da qui ha inizio l’esperienza del naufragio, testimoniata dalla stragrande quantità di relitti sparsi per tutti i mari e gli oceani del nostro pianeta. Grazie alle campagne dell’archeologia marina e alle numerose testimonianze letterarie, si è stati in grado di ricostruire una sorta di geografia ideale dei naufragi nel mondo, una grande mappa che può essere suddivisa a seconda delle varie epoche storiche e sulla base di un’economia mercantile che ha introdotto o incrementato le pratiche dell’attività marinara.3

Al centro di questa mappa si colloca sicuramente il Mediterraneo, quello classico delle avventure narrate da Omero e Virgilio e quello medievale e rinascimentale delle opere di Dante e Boccaccio. Accanto al Mare

1

M. Domenichelli, Epaves: per una topologia letteraria del naufragio, p.7.

2 R. Ceserani, M. Domenichelli, P. Fasano, Dizionario dei Temi letterari, pp. 1615-1619.

3 R. Ceserani, Riflessioni conclusive, in Naufragi, Atti del Convegno di Studi – Cagliari, 8-9-10 aprile 1992, pp. 661-675.

(3)

3

Nostrum, necessario presupposto eurocentrico, si aprono successivamente altre realtà marine, che si popolano di isole vulcaniche, correnti avverse, acque in tempesta e porti accoglienti: si tratta dei mari del nord solcati dai vichinghi, dell’Oceano Atlantico, attraversato interamente per la prima volta da Cristoforo Colombo, dei mari caldi dei tropici, di quelli freddi delle zone artiche, dell’Oceano Pacifico, punteggiato da isole e abitato da “strani” indigeni.

Già per il mondo classico, dall’età omerica a quella ellenistica, la realtà del mare era quella più allarmante di tutte, proprio perché cadeva sotto la giurisdizione degli dei e di potenze tenaci e poiché da essa provenivano mostri mitici pericolosi e inquietanti.4 Anche il fenomeno del terremoto, infatti, rientrava sotto le competenze del dio del mare, Poseidone: il filosofo Talete di Mileto, non a caso, lo paragonava al vibrare della nave sul mare. Il primo passo dalla terra al mare fu compiuto dagli antichi a causa della stanchezza per il magro approvvigionamento offerto dalla natura e per la monotonia del lavoro dei campi. Sin da allora, il mare e i suoi flutti avevano attratto l’uomo con il loro fascino misterioso e gli avevano concesso una via di fuga e un’alternativa lavorativa, attraverso i commerci e la navigazione. Il poeta greco Esiodo, vissuto tra l’VIII e il VII secolo a.C., nella sua opera Ἔργα καὶ Ἡμέραι, Le opere e i Giorni5, affermava di provare ansia nei confronti del fratello Perse, il quale aveva rivolto tutti i suoi interessi alle prospettive della navigazione costiera. Il poeta, infatti, era diffidente nei confronti di questa pratica proprio per il fatto che essa non sottostava direttamente a Zeus e, per questo, consigliava al fratello di rientrare a casa il più presto possibile:

“Perse, ricordati bene di fare ogni cosa a suo tempo, sempre, ma specie poi se pensi di metterti in mare. Loda la nave piccina, ma carica invece la grossa: quanto sarà più grande il carico, tanto il guadagno sarà, qualora i venti trattengan le tristi procelle.

Se dunque il folle cuore tu volgi al commercio, ed intendi i debiti schivare, la poco gradevole fame,

t’insegnerò che modi tener con l’ondísono mare, sebbene esperienza non ho di viaggi e di navi.”6

Successivamente, nel periodo medievale la navigazione e il viaggio assunsero il valore di metafora della conoscenza e del processo conoscitivo, all’interno di narrazioni

4 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, pp. 27-30. 5

Si tratta di un poemetto didascalico della lunghezza di 828 esametri, nel quale il poeta presenta la necessità e l’importanza del lavoro da parte dell'uomo, dettando consigli pratici per l'agricoltura e i giorni del mese nel quale compiere determinate attività.

6 Esiodo, I poemi, in I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli. Esiodo - I Poemi: Le opere e i giorni, La Teogonia, Lo scudo di Ercole, Frammenti, vv. 641-649.

(4)

4

avventuroso-romanzesche, religioso-simboliche o lirico-individuali. In epoca rinascimentale e pre-moderna, invece, furono rielaborate le eredità letterarie classiche e medievali e gli sfondi delle avventure di mare si allargano progressivamente, aprendosi a nuovi panorami, con trascrizioni più libere e ironiche. Alle soglie dell’epoca moderna, si affacciava sul panorama letterario la figura di un nuovo naufrago, intelligente, caparbio e capace di controllare i propri incubi, grazie alla sua conoscenza e alle abilità necessarie a sopravvivere su un’isola deserta e a colonizzarla. Tra il Settecento e l’Ottocento, invece, il mare in tempesta si trasformò in un luogo privilegiato per la rappresentazione di un’emozione complessa, un misto di dolore e piacere, tensione e scioglimento, terrore e godimento: si trattava del “sublime”, come lo definì Kant nella sua opera Osservazione sul sentimento del bello e del sublime7. Il Novecento con le sue Grandi Guerre sancì la nascita del concetto di “vivere con il naufragio”8

, cioè il tenere costantemente conto che l’uomo si trova alla deriva all’interno di un periodo storico in cui l’essere è frantumato, travolto dalla guerra e dalla barbarie del nazismo e dell’olocausto.

Al giorno d’oggi, siamo ormai rimasti in acqua tra le tempeste, come eterni naufraghi alla disperata ricerca della sopravvivenza. Il sociologo Zygmunt Bauman ha definito la nostra società come una “modernità liquida”, composta da uomini privi di stabilità e di punti di riferimento, i quali hanno molta difficoltà ad orientarsi:

“I contro bilanciano i pro. La vita è destinata a navigare tra l’uno e l’altro e non esiste marinaio che possa vantarsi di aver trovato una rotta sicura e priva di rischi.”9

7 I. Kant, Osservazione sul sentimento del bello e del sublime, p.306, cit. “[…] un monte le cui cime

nevose si levino sopra le nubi; la descrizione di una tempesta che infuria, o la raffigurazione miltoniana del regno infernale, destano piacere frammisto a terrore.”

8 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, pp. 105-106. 9 Z. Bauman, Modernità liquida, Bari, Laterza, 2008, p. 62.

(5)

5

1.3 TIPOLOGIE DI NAUFRAGIO

Come sappiamo, l’evento del naufragio è e continua ad essere presente costantemente nella letteratura occidentale e nel nostro immaginario culturale. Spesso, gli scrittori di questo tema si sono rifatti ai loro predecessori, imitandone i metodi narrativi, il linguaggio poetico o i dettagli nel descrivere i naufragi marini. Nonostante le frequenti similitudini presenti tra un autore e l’altro, è possibile effettuare una classificazione dei diversi naufragi letterari, suddividendoli a seconda delle loro caratteristiche.

In questo paragrafo mi limiterò ad analizzare nello specifico le differenti tipologie di naufragi, classificandole sulla base di tre diversi criteri: le cause che li hanno scatenati, la loro veridicità o finzione, la collocazione temporale e la funzione che essi hanno all’interno dell’opera.

1.3.1LE CAUSE DEI NAUFRAGI

Molteplici sono le cause che possono scatenare un naufragio durante la navigazione, tra queste, sicuramente, quelle più comuni sono le cause di tipo fisico e naturale. Quelle maggiormente frequenti sono, senza dubbio, le avversità atmosferiche che possono incontrarsi al largo: venti, uragani, piogge improvvise e grossi temporali. Ma non sono da sottovalutare nemmeno le insidie costiere, che possono essere altrettanto pericolose: promontori che affiorano, iceberg10, prolungamenti sommersi o lagune melmose11. L’agitazione del mare, infatti, diventa maggiore con l’approssimarsi alla costa: la risacca, le correnti tumultuose, le oscillazione delle maree che occultano le rocce o impediscono l’ingresso al porto possono causare disagi alla navigazione.

Un altro ordine di cause è quello determinato dalle malizie o degli errori umani: manovre sconsiderate o maldestre, calcoli sbagliati da parte dei marinai, speronamenti intenzionali o attentati. Negli Annales, Tacito racconta del disastro nautico ordito da Nerone per far morire la madre Agrippina:

“Chiara di stelle e quieta su un placido mare fu la notte offerta dagli dei, quasi a dare la prova del delitto. La nave non s'era molto staccata dalla riva […] quando, a un segnale, il tetto della cabina, appesantito da un carico di piombo, rovinò schiacciando Crepereio, che subito morì: Agrippina e Acerronia furono protette dalle alte fiancate del letto, solo per caso abbastanza resistenti da non cedere sotto

10 Come nel caso del naufragio del Titanic.

11 Ad esempio la laguna della Sirte, nella quale si impantanarono gli eroi delle Argonautiche, cfr. IV, vv.

(6)

6

il peso. Nello scompiglio generale, non seguì lo sfasciamento della nave, perchè i molti ignari intralciavano chi era al corrente. Allora i rematori pensarono di inclinare l'imbarcazione su un fianco e così farla affondare, ma il movimento necessario non fu simultaneo e lo sforzo compiuto da altri di manovrare in senso contrario attutì il colpo del rovesciamento in mare.”12

In molte opere, soprattutto nei poemi omerici e in quelli classici, la responsabilità dei naufragi e delle tragedie marittime viene fatta risalire ad un terzo ordine di cause, scatenate dalla volontà di divinità ed esseri soprannaturali. Ciò accade spesso nell’Odissea: nel V canto, ad esempio, Poseidone squarcia la zattera di Odisseo in vista della terra dei Feaci e in maniera inversa, la stessa Atena lo salva dall’annegamento13. Allo stesso modo, nell’Eneide è Nettuno a placare le acque e a sollevare con il tridente le navi troiane.14

1.3.2REALTÀ,FINZIONE O METAFORA?

Un altro criterio che ci permette di suddividere i naufragi in tre categorie è quello che fa riferimento alla loro aderenza alla realtà o alla loro totale finzione.

Una prima grande classe si può individuare nei testi che si ricollegano, con maggiore o minore veridicità, a vicende realmente accadute. Questo genere appartiene, soprattutto, a scrittori occasionali come marinai, mercanti, pellegrini o avventurieri. Fanno parte di questo gruppo i resoconti memorialistici dei viaggi di scoperta, come quelli di Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci e quelli fatti da parte di religiosi e missionari gesuiti, come Bartolomé de Las Casas e José de Acosta. A partire dal Settecento, la narrazione di questa tipologia di naufragio iniziò ad avere una grande fortuna. Famosa è, infatti, l’opera di William Falconer, The Shipwreck, riguardante il naufragio della nave Britannia, scomparsa al largo delle coste greche.

La seconda categoria fa riferimento a tutte quelle opere che hanno dato vita a finzioni di navigazioni tormentate e di naufragi disastrosi, usandole come antefatto, epilogo o come centro di gravità del loro racconto. Si tratta, ad esempio, dell’Odissea di Omero, delle tragedie shakespeariane La Tempesta e Il mercante di Venezia, del Robinson Crusoe di Defoe e de I Malavoglia di Giovanni Verga. Fanno parte di questo gruppo anche tutti quei testi che hanno elaborato il naufragio come irrealtà, incubo o sogno. Uno di questi è l’Elegia XXVI del II libro di Properzio, che si apre proprio con il

12 Tacito, Annales, XIV, 5.

13 Omero, Odissea, V, vv. 282-387. 14

(7)

7

sogno della carena infranta di una nave con accanto la donna amata dal poeta, Cinzia, stanca di combattere contro la furia delle onde. Il poeta, infatti, partecipa da spettatore alla vicenda ma non riesce a raggiungere la donna che si trova allo sbando, travolta dalle onde del Mar Ionio.

Il terzo e ultimo gruppo è quello composto da testi nei quali le immagini della traversata perigliosa, del naufragio e dell’abisso che si spalanca sono investite da un valore metaforico o simbolico. Le metafore nautiche, infatti, hanno attraversato tutta la cultura occidentale, ripresentandosi in tempi e contesti diversi “come un topos retorico ed espressivo, come archetipo dell’inconscio dell’uomo mediterraneo”15

.

La metafora16 della vita come navigazione interpreta il vivere come un viaggio per mare, che comporta uno spostamento da un luogo ad un altro, da un porto per arrivare ad una meta, un attraversamento del mare e di tutti i suoi pericoli, degli agenti metereologici, del soffiar dei venti e dello scatenarsi delle tempeste. Può trattarsi del viaggio sicuro di un nocchiero esperto oppure di un rischioso affidarsi ai venti da parte di un navigante inesperto degli agenti naturali. Il naufragio, dunque, può rappresentare la fine di tutto o il passaggio da una dimensione di vita ad un’altra, può essere fuggito come un evento terrificante o può rappresentare uno spettacolo sublime alla vista. La nave esposta ai venti può essere rappresentativa della vita dell’uomo esposto alla Fortuna. Il termine tempestas, infatti, ha significati molteplici (caso, patrimonio, vento tempestoso) e per questo è in grado di rendere esplicita la metafora nautica che mira a rappresentare il rapporto dell’uomo con il caso e la sua capacità di dominarlo.

Tutte queste valenze metaforiche si riscontrano diffusamente nella storia della cultura occidentale: la nave che affonda può essere allegoria dell’epoca, del mondo, dello Stato, del governo, della condizione civile o della ragione stessa. Esemplari sono le parole di Alceo17 che si serve dell’allegoria della nave per rappresentare la città di Mitilene, ormai in rovina. Più avanti, in epoca medievale, anche Dante farà la stessa cosa, parlando della situazione sociale e politica dell’Italia:

“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”18

15

M.T. Marcialis, La vela e la tempesta. La navigazione metaforica etica a spettacolo estetico, p. 97.

16 Aristotele, nel capitolo XXI della Poetica, la definisce come “il ricorso a un nome d’altro tipo

trasferibile o dal genere a una specie o dalla specie al genere o a un rapporto analogico.”

17 Frammento 208A West. 18

(8)

8

1.3.3COLLOCAZIONE TEMPORALE E FUNZIONE ALL’INTERNO DELL’OPERA La posizione che l’episodio del naufragio assume all’interno di un’opera letteraria è di fondamentale importanza proprio perché ha la funzione di determinare l’andamento della narrazione. Servendosi di questo criterio di classificazione, Mario Domenichelli19 ha suddiviso i naufragi in quattro tipologie: preliminari, iniziali, finali ed essenziali o tematici.

Il primo gruppo, quello dei naufragi preliminari, racchiude in sé tutti quei naufragi che sono posti come conditio sine qua non della narrazione e che si svolgono, dunque, in un lasso di tempo che precede l’evento narrato. È questo il caso del racconto di Poe, The Manuscript Found in a Bottle, dato che il naufragio che ha determinato la stesura del manoscritto è preliminare alla narrazione stessa. Esso, infatti, racconta l’antecedente e le ragioni per cui è stato scritto e, in questo modo, il naufragio ritorna sulle pagine come una narrazione preliminare che ha determinato la scrittura. Il manoscritto di Poe, però, si arresta nel momento in cui ha inizio il gorgo finale, dunque il naufragio definitivo, pur essendo dato per avvenuto, non viene raccontato. Allo stesso modo, è preliminare anche il naufragio raccontato da Coleridge in The Rime of the Ancient Mariner, dato che esso rappresenta la motivazione per cui il marinaio, costretto da una maledizione, deve raccontare a chiunque incontri la storia della sua sventura.

Appartengono alla categoria dei naufragi iniziali tutte quelle opere che si aprono con il verificarsi di un disastro marino. Un naufragio d’exordium esemplare è, infatti, quello di Robinson Crusoe, il quale, naufragato su una nave negriera, approda su una terra fuori dal tempo e dalla storia. Il suo è un naufragio di mondi etici e politici che si trovano alla deriva e che ricercano un rinnovamento e una salvezza. Anche in The Tempest di Shakespeare vi è un naufragio iniziale. Si tratta di un disastro finto e magico, che determinerà le sorti dei protagonisti, naufragati su di un’isola di magia e utopia regolata da Prospero. La Commedia di Dante, pur avendo una struttura e una finalità diverse dalle due opere precedenti, si apre anch’essa con un naufragio, sebbene sia di carattere metaforico. Qui, infatti, il pellegrino si identifica con il nuotatore che si è appena tratto in salvo da un pelago periglioso:

“E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,

(9)

9 si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.”20

Questo naufragio, che apre il viaggio nel mondo ultraterreno dei tre regni, rinvia sicuramente all’impresa compiuta da Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno: il pellegrino Dante giunge proprio laddove era affondata la nave dell’eroe greco, ai piedi della montagna del Purgatorio, la cui ascesa gli viene impedita dalle tre fiere. Il viaggio dantesco, dunque, inizia dove finisce quello di Ulisse e si apre proprio con un naufragio. Fanno parte del terzo gruppo i testi che si concludono con un naufragio ed un gorgo finale. Ne è un esempio il romanzo Moby Dick che si conclude con la morte del capitano Achab e di tutto l’equipaggio e l’affondamento del bastimento Pequod. La letteratura del Settecento e dell’Ottocento, infatti, ha portato all’estremo l’esperienza romantica, attraverso l’immagine conclusiva del gorgo che non dà spazio ad altre spiegazioni e lascia emergere ciò che è incomunicabile, indicibile e sublime. Colui che sopravvive, il naufrago superstite, diventa il testimone, colui che ci permette di affermare che la fine del viaggio diventa l’inizio della scrittura.21

Infine, i naufragi essenziali o tematici sono quelli che rappresentano il tema a cui l’opera è interamente dedicata. Nel poema dello scrittore tedesco Enzensberger, Der Untergang der Titanic, il tema del naufragio rappresenta l’essenza stessa dell’opera. L’ ambizione di Enzensberger è proprio quella di raccontare il viaggio come metafora della vita umana, ma, in questo caso a differenza del viaggio dantesco, quello del Titanic si muove in superficie, con un costante movimento orizzontale che segue un inconsapevole crescendo lirico, conducendo solo ed esclusivamente alla morte.

20 Dante, Inferno, I, vv. 22-27. 21

(10)

10

CAPITOLO II

GLI ANTICHI

2.1 GRECI E ROMANI: POPOLI DEL MARE

Nel mondo antico il mare era guardato dagli uomini con timore e paura proprio perché cadeva sotto la giurisdizione di divinità imprevedibili e si raccontava nei miti che gli stessi dei si erano serviti di esso come arma di distruzione. Tuttavia, i popoli del Mediterraneo si spostavano frequentemente per mare, alla ricerca di territori da colonizzare o semplicemente per commerciare con altre popolazioni. I mercanti, però, erano considerati delle persone poco raccomandabili e spesso la loro navigazione non andava a buon fine: il carico con la merce andava perduto in mare, gli uomini non ritornavano più a casa. La navigazione, infatti, era considerata dalla tradizione come un atto che andava contro le leggi della natura poiché l’uomo era nato per vivere e lavorare sulla terraferma.22

Si riteneva che le città sulla costa fossero sedi di ogni vizio e lo stesso Platone, ne Le Leggi, affermava che una città doveva distare almeno ottanta stadi dal mare, in modo tale da essere amministrata più facilmente ed avere meno problemi di corruzione. I traffici legati al commercio marittimo, infatti, istillavano nelle coscienze comportamenti negativi, rendendo la città infida e ostile, ed era consigliabile dedicarsi all’agricoltura e alla pastorizia, attività più sicure e non colpite dalla bramosia del guadagno:

“[…] infatti riempiendo lo stato di traffici e di affari dovuti al commercio, fa nascere negli animi modi di vita incostanti e infingardi, e rende lo stesso stato infido e nemico di se stesso, e allo stesso modo nei confronti degli altri uomini.”23

Il concetto del commercio marittimo come portatore di corruzione era presente anche nella letteratura latina: Marco Porcio Catone nel De Agri Coltura lasciava intendere un giudizio molto negativo sull’attività di mercatorius e la correlava a quella del prestito ad usura:

“Può esser preferibile, talvolta, cercare fortuna nei commerci, se la cosa non fosse così soggetta a rischio, e anche prestare a usura, se la cosa fosse altrettanto

22 M. Mannocchi, Tempeste e Approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, pp. 13-15. 23

(11)

11

onorevole. […] Il commerciante io lo giudico, certo, un uomo attivo e teso al profitto, ma - come ho detto - esposto ai rischi e alle disgrazie.”24

Nonostante ciò, il mare e la navigazione attrassero da subito l’interesse degli antichi e l’Odissea, uno dei primi grandi poemi della classicità, ha come protagonista un naufrago che, dopo aver affrontato numerose peripezie, è riuscito a salvarsi. Nell’antichità greca, l’eroe naufrago, al pari del sacer romano25

, era isolato dal consorzio umano ma, proprio per questo, riusciva ad accedere ad una conoscenza di misteri che veniva negata all’uomo comune. Egli, proprio per il fatto di essere da solo, era in grado di approdare su una terra a cui non era concesso a tutti lo sbarco e, grazie alla sua esperienza, aumentava le sue conoscenze e raggiungeva la saggezza.

In questo capitolo, presenterò i naufragi più famosi della letteratura greca e latina: partendo dal naufrago per eccellenza, Odisseo, e analizzando le avventure del contemporaneo Menelao, passerò poi alla tipologia del naufragio parodico nel Satyricon e concluderò l’esposizione con la presentazione dei diversi naufragi metaforici della letteratura latina.

24 Catone, De Agri Coltura, Praefatio.

25 Nella Roma Arcaica l’homo sacer, colui che aveva commesso una grave colpa, era isolato e

(12)

12

2.2 I NOSTOI DEL CICLO TROIANO E LE AVVENTURE DEI PRIMI NAUFRAGHI

Uno dei motivi letterari più diffusi nell’antichità è proprio quello del νόστος, il lungo viaggio di ritorno verso la terra d’origine.

Dopo la fine della guerra di Troia, il rientro dei comandanti Achei in patria fu spesso lungo e travagliato, a causa delle numerose peripezie che essi incontrarono sul loro cammino. Il viaggio degli eroi, infatti, si realizzava attraverso un avventuroso percorso verso l’ignoto, con il superamento di prove impegnative che costringevano i naufraghi a confrontarsi con i loro limiti e a superarli. L’obiettivo del nòstos non era quello di condurre l’eroe verso una meta ben precisa, bensì riportarlo al suo originario punto di partenza, dopo aver arricchito il suo bagaglio culturale ed essere diventato più esperto della vita.

In questo paragrafo, analizzerò gli avventurosi viaggi di ritorno di due condottieri Achei: Odisseo e Menelao.

2.2.1LA ROTTA DI ODISSEO E I SUOI NAUFRAGI NEL MEDITERRANEO

Come si è già detto precedentemente, Odisseo può essere definito il primo grande naufrago della storia. Nell’Odissea, poema che per convenzione si attribuisce al poeta Omero, vengono narrate le peripezie e le avventure dell’eroe greco nel suo viaggio di ritorno da Troia verso la patria Itaca, dopo la famosa guerra durata dieci lunghi anni.

La figura di Odisseo è quella di un nuovo tipo di uomo, il primo della letteratura a non dipendere più solo ed esclusivamente dal destino o dalla volontà degli dei, sebbene quest’ultimi influenzino in maniera determinante il suo peregrinare. Egli è un personaggio in grado di decidere autonomamente delle proprie azioni e, proprio per questo motivo, all’inizio del poema viene definito con un aggettivo mai utilizzato in precedenza, πολύτροπον. Questo termine è composto da due elementi: il primo πολύ- che fa riferimento alla nozione di “molto” ed evoca o un alto grado di intensità o una molteplicità di manifestazioni; il secondo -τροπον, derivante dal verbo τρέπομαι, che ha il significato di “volgere/ersi”. Tale aggettivo, dunque, identifica una particolare caratteristica di Odisseo, quella di essere versatile e capace di volgere il suo impegno e la sua attenzione a molti obiettivi. Un’altra qualità che lo caratterizza è quella del sopportare, evidenziata dall’epiteto πολύτλας (da πολύ- e τλάω che significa subire) che

(13)

13

trova evidenza nel discorso26 fatto dallo stesso protagonista nel V canto, in risposta alle parole di Calipso che lo aveva ammonito riguardo ai pericoli che avrebbe potuto incontrare nel cammino di ritorno verso Itaca.

Fin dall’antichità, però, il personaggio di Odisseo è stato idealizzato ed esaltato come espressione altissima del desiderio di conoscenza. Egli, infatti, per affrontare i numerosi pericoli che gli si presentano davanti, non si serve soltanto della forza, della capacità di resistenza e della disciplina, ma anche della logica, della psicologia e di tutte le forze intellettuali a sua disposizione. Il suo modo di sopravvivere è caratterizzato da un continuo pazientare, resistere e rinunciare, e ha la funzione di dimostrare che la dignità dell’eroe può essere raggiunta solo attraverso l’umiliazione dell’individuo.27

Il lungo errare da Troia verso Itaca diventa, dunque, l’itinerario di un soggetto fisicamente più debole rispetto alle invincibili forze della natura che deve cercare, in tutti i modi, di raggiungere il suo scopo principale, quello di avvistare e approdare nella sua amata patria. Nella maggior parte dei casi, Odisseo è capace di rinunciare alla soddisfazione immediata dei propri bisogni al fine di ottenere una consapevolezza superiore, ma questa sete di conoscenza è sempre finalizzata ad agevolare il rientro ad Itaca.

Il lungo peregrinare di Odisseo ha la durata di dieci lunghi anni28 e tocca svariate parti del Mar Mediterraneo e del Mar Egeo. Come vedremo, i suoi naufragi sono determinati principalmente dalla volontà degli dei, in particolar modo da quello di Poseidone, dio del mare, irato con l’eroe greco a causa dell’accecamento del figlio Polifemo. Il I canto, infatti, si apre proprio con il consiglio degli dei che, approfittando dell’assenza di Poseidone recatosi dagli Etiopi per ricevere delle offerte votive, decretano che per l’eroe greco, ormai esule da quasi dieci anni, sia giunta l’ora del ritorno. A convincere tutte le altre divinità riunite in consiglio è proprio Atena, da sempre protettrice dell’eroe:

“Ma il mio cuore è lacerato per l’intelligente Ulisse,

lui, sventurato, che da tanto tempo, lontano dai suoi, patisce dolore, in un’isola cinta dalle acque, dove è l’ombelico del mare:

un’isola boscosa, e lì ha dimora una dea.

[…] (Calipso) a forza trattiene l’infelice, che piange, e lei sempre con morbide dolci parole

lo blandisce, perché dimentichi Itaca. Ma Ulisse della sua terra anche solo il fumo desidera vedere e poi

26 Omero, Odissea, V, vv. 221-224.

27 M. Mannocchi, Tempeste e Approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, p. 42. 28 Di questi anni, effettivamente, soltanto uno è trascorso in mare. Odisseo, infatti, trascorre un anno

(14)

14

morire. E a te, signore dell’Olimpo, il cuore per lui non si commuove?”29

Dopo il sollecito da parte di Atena, la narrazione continua nel V canto, con l’incontro tra Hermes e Calipso presso l’isola di Ogigia. Qui il messaggero degli dei comunica alla ninfa la decisione presa durante il concilio ed è proprio all’interno di questo canto che il personaggio di Odisseo compare per la prima volta come protagonista attivo del poema. In questa circostanza, il narratore, come a voler ribadire le parole precedentemente dette da Atena, descrive l’eroe greco come una persona addolorata che piange e si dispera guardando il mare, provando nostalgia della patria che non può raggiungere:

“seduto sul lido; né mai i suoi occhi erano asciutti di lacrime: la dolcezza del vivere si dissolveva nel pianto per il ritorno, perché non gli piaceva più la ninfa.”30

Grazie al volere degli dei, Odisseo, desideroso di far rientro ad Itaca, riesce finalmente a partire da Ogigia a bordo di una zattera, costruita con l’aiuto di Calipso. Dopo aver navigato per oltre diciassette giorni, viene avvistato da Poseidone che, essendo rientrato dal viaggio presso gli Etiopi, capisce che in sua assenza le altre divinità hanno deliberato il rientro dell’eroe greco:

“Ahimè, non c’è dubbio: gli dei hanno cambiato pensiero riguardo a Ulisse, mentre io ero tra gli Etiopi.

Eccolo lì: è vicino alla terra dei Feaci, dove è per lui destino sfuggire al grande laccio di sofferenza che lo ha raggiunto. Ma voglio colpirlo ancora finchè non sarà sazio di sventura”.31

A questo punto, il poeta Omero descrive con dovizia di particolari la disastrosa tempesta scatenata da Poseidone. Sarà questo l’ultimo naufragio che colpirà il povero Odisseo:

“Così detto, ammassò le nubi e sconvolse il mare:

nelle mani aveva preso il tridente. Suscitò tutte le procelle di ogni sorta di venti, e insieme avvolse di nubi

la terra e il mare: dal cielo era venuta la notte.

Insieme piombarono Euro e Noto, e Zefiro dal soffio maligno e Borea che nasce dal sereno dell’etere e rotola grandi onde. […] Lui cadde lontano dalla zattera, e si lasciò sfuggire Dalle mani il timone. E l’albero gli spezzò nel mezzo, sopraggiunto, un terribile turbine di venti cozzanti: lontano caddero in mare le vele e l’antenna.

L’onda lo tenne molto tempo sott’acqua; né egli potè

29 Omero, Odissea, I, vv. 48-59. 30 Ivi, V, vv. 151-153.

31

(15)

15 subito venir su da sotto il gran flutto impetuoso:

lo appesantivano le vesti che gli aveva dato la divina Calipso. Alla fine venne su e sputò dalla bocca l’acqua salmastra, acre, che in gran quantità gli grondava dal capo.

Ma neppure così, benchè travagliato, dimenticò la zattera. Slanciatosi verso di essa tra le onde riuscì ad afferrarla, e si sedette nel mezzo, sfuggendo al termine di morte. […] Mentre tali pensieri agitava in mente e nell’animo Posidone Scuotiterra spinse contro di lui una grande onda, terribile e maligna, arcuata, che lo colpì.

Come un forte soffio di vento sconvolge un mucchio di paglie secche e le disperde di qua e di là,

così i lunghi tronchi l’onda disperse. Allora Ulisse si mise a cavalcioni su un singolo tronco come spingesse un cavallo.”32

Con il tempestivo intervento di Atena che pone fine alla tempesta regolando i venti, Odisseo riesce a salvarsi, sbarcando sulla terra dei Feaci dopo aver nuotato per tre giorni e aver risalito il corso di un fiume. Nei successivi tre libri33, Omero narra l’arrivo di Odisseo nella terra di Scheria, descrivendo in particolare l’accoglienza e l’ospitalità che gli viene riservata dalla famiglia reale, composta dal re Alcinoo, dalla regina Areta e dalla loro figlia Nausicaa. Il naufrago, infatti, viene accolto con doni e libagioni e si svolge in suo onore un grande banchetto, al termine del quale egli potrà finalmente dirigersi verso la patria Itaca, seguito da una scorta di Feaci. Proprio durante il banchetto, allietato dal canto dell’aedo Demodoco riguardo allo stratagemma del cavallo di Troia, Odisseo, in preda alla commozione, viene invitato dallo stesso Alcinoo a rivelare la sua identità e a narrare le peripezie che lo hanno portato fin lì. Da questo momento in poi ha inizio il “Grande Racconto”34

, cioè la lunga narrazione, fatta da Odisseo in prima persona, delle peregrinazioni che lo hanno portato dalla Troade ad Ogigia, l’isola abitata da Calipso. Questo lungo racconto occupa ben quattro canti, dal IX al XII, mentre il percorso compiuto da Ogigia fino alla terra dei Feaci era stato già narrato dallo stesso eroe nella sera precedente al canto dell’aedo Demodoco, presso la casa di Alcinoo.

Il canto IX si apre con la descrizione dell’incursione predatoria compiuta da Odisseo e da i suoi compagni presso Ismaro. Questa città doveva collocarsi probabilmente sulla costa della Tracia ed è molto verosimile l’ipotesi secondo cui essa fosse situata tra la foce dell’Ebro e quella del Nesto. Dunque, Odisseo aveva scelto per il suo ritorno la via della circumnavigazione costiera e non quella dell’attraversamento

32 Ivi, V, vv. 291-196; 315-327; 365-371. 33 Il VI, il VII e l’VIII.

34

(16)

16

diretto dell’Egeo. Ma nel caso dell’approdo ad Ismaro, egli si trovava completamente fuori dalla sua rotta iniziale, probabilmente a causa di un forte vento che colpì le sue navi. Tale incursione provocò la morte di 72 compagni e sono celebri i versi con i quali Odisseo conclude la narrazione di questo episodio:

“E di là andammo oltre, navigando, afflitti nel cuore:

contenti perché sfuggiti alla morte, ma senza i cari compagni.”35

Dopo questa azione piratesca, secondo un modello36 di organizzazione del racconto presente all’interno del poema, si verifica una violenta tempesta, provocata proprio dal re dell’Olimpo, Zeus. Si tratta del primo naufragio che colpisce Odisseo e i suoi compagni durante il viaggio di ritorno da Troia e, per questo motivo, il protagonista lo descrive in maniera molto dettagliata. Si legge ai vv. 67-75:

“Contro le navi Zeus adunatore di nembi destò un vento di borea, con tempesta tremenda, e con nubi nascose

la terra insieme e il mare: dal cielo era scesa la notte. Venivano trascinate, squilibrate in avanti, e a loro le vele in tre e quattro frammenti strappò la furia del vento. Allora noi, temendo la fine, le calammo giù nelle navi, e le navi con forte impulso di remi spingemmo verso terra. Qui due notti e due giorni ininterrottamente

restammo, consunti nel cuore da fatica e dolori.”

In seguito a questo primo naufragio, l’eroe greco approda prima tra i Lotofagi e dopo presso la terra dei Ciclopi, dove acceca uno degli abitanti, Polifemo. Il Ciclope per vendicarsi invocherà contro di lui il padre Poseidone, il quale da quel momento in poi gli sarà acerrimo nemico e impedirà il suo rientro in patria.37

Nel X canto, Odisseo racconta della sua permanenza presso l’isola Eolia. Qui egli riceve dallo stesso Eolo un otre contenente tutti i venti e, grazie al favore di Zefiro, riesce a giungere nei pressi di Itaca. I compagni, però, essendo gelosi del loro comandante e credendo che egli nascondesse all’interno dell’otre ingenti ricchezze, decidono di aprirlo. Si scatena così una furiosa tempesta che li riporta indietro fino alle terre di Eolo, il quale però li scaccia con violenza. Il successivo approdo presso la terra dei Lestrigoni si rivela essere molto dannoso per la compagnia: essi perdono tutte le

35 Omero, Odissea, IX, vv. 62-63. Questi versi sono attesati ben cinque volte all’interno dell’Odissea,

dopo l’episodio dei Ciconi in IX, v. 62, dopo quello dei Lotofagi in IX, v. 105, dopo l’incontro con il Ciclope Polifemo in IX, v. 565, dopo la vicenda infelice dell’incontro con Eolo in X, v. 77, dopo l’episodio dei Lestrigoni in X, v. 133.

36 Si presupponeva che ogni azione di pirateria o saccheggio fosse seguita da una tempesta che si

abbatteva sulle navi che erano servite all’impresa.

37

(17)

17

navi, ad eccezione di una. A bordo di quest’ultima, Odisseo e i compagni superstiti sbarcano presso la terra di Eèa, abitata dalla maga Circe. Su quest’isola sosteranno per un interno anno per poi ripartire alla volta dell’Ade, dove Odisseo dovrà consultare l’indovino Tiresia riguardo al suo destino.38

Di ritorno dall’Ade, l’eroe greco approda nuovamente presso Circe, la quale lo informa del percorso che dovrà compiere una volta ripartito. Il primo episodio narrato nel XII canto è quello del fascinoso incontro con le Sirene: Odisseo ascolta il loro canto, facendosi legare con delle funi alla base dell’albero maestro della nave. L’avventura successiva, quella del passaggio tra lo scoglio di Scilla e quello di Cariddi, si rivela essere molto pericolosa per Odisseo e compagni:

“Da una parte c’era Scilla, dall’altra la divina Cariddi fece orrendo risucchio con l’acqua salmastra del mare. E quando la vomitava, allora come lebete su grande fuoco era tutta un ribollimento vorticoso: la schiuma in alto cadeva sulla cima di entrambi gli scogli.

Ma quando risucchiava l’acqua salmastra del mare tutta dentro appariva agitata: intorno la rupe

terribilmente mugghiava, e di sotto appariva il fondo nereggiante di sabbia. Verde paura prese i compagni. Noi a lei guardammo temendo la morte, e proprio allora Scilla dalla concava nave sei compagni mi prese, che erano i migliori per forza di braccia.

Volsi lo sguardo alla nave veloce e cercai i compagni, ma vidi i piedi e più su le braccia di loro che già venivano portati in alto; e gridavano chiamandomi per nome, allora per l’ultima volta, col cuore straziato. […] Lì sull’entrata dell’antro lei li mangiò, mentre tendevano le mani verso di me gridando: era una lotta atroce.

Quella fu la cosa più pietosa che io vidi coi miei occhi fra tutti i patimenti che soffrii indagando le vie del mare.”39

Dopo esser sfuggiti al terribile attacco di Scilla e Cariddi, Odisseo e gli altri superstiti approdano presso Trinacria, l’isola del Sole, dove si trattengono per più di un mese a causa dei venti sfavorevoli. Qui i compagni commettono il sacrilegio di uccidere le vacche del Sole Iperione e, ripartiti dopo sette giorni, vengono colpiti da una forte tempesta mandata da Zeus, il quale era stato pregato dallo stesso Helios affinché li punisse per l’empietà commessa:

“Ma quando lasciammo l’isola e altra terra non era visibile, ma solo cielo e mare,

ecco allora il Cronide fermò sopra la concava nave una nuvola fosca, e di sotto il mare si oscurò. La nave

38

L’episodio della discesa agli Inferi, la cosiddetta catabasi, occupa tutto l’XI canto.

(18)

18 non continuò a correre per molto: subito venne Zefiro urlando, infuriando con grande tempesta. Il turbine del vento spezzò gli stragli dell’albero, entrambi, e l’albero cadde all’indietro, con gli attrezzi sparsi tutti giù nella sentina, e a poppa sulla nave colpì alla testa il nocchiero, e gli fracassò tutte insieme le ossa del capo; e quello, a mo’ di tuffatore, cadde giù dalla coperta: l’animo intrepido lasciò le sue ossa.

Anche Zeus tuonò e, insieme, un fulmine scagliò sulla nave; e quella, colpita dal fulmine di Zeus, tutta ruotò su se stessa: era piena di odore di zolfo. Caddero giù dalla nave i compagni. Essi, simili a cornacchie marine, intorno alla nera nave

erano trascinate dalle onde: il dio li privò del ritorno. Io andavo su e giù per la nave, quando un’ondata staccò le murate dalla chiglia. Nuda la portava l’onda: sulla chiglia mandò a sbattere l’albero, e su di esso era finito lo straglio di poppa, fatto di cuoio di bue. Con questo la chiglia e l’albero legai, tutti e due insieme: e su di essi seduto fui trascinato dai venti funesti.”40

Questo è l’ultimo dei naufragi che Odisseo descrive nel “Grande Racconto”. Dopo di esso, trascinato per dieci giorni in mare come unico superstite, riuscirà ad approdare presso l’isola di Calipso, ad Ogigia, dove si fermerà per otto anni. Da questo momento in poi, dunque, la narrazione si ricollega cronologicamente a quella dei canti precedenti.41

Si è visto come i naufragi toccati ad Odisseo non sono casuali, ma sono tutti scatenati dagli dei per motivi ben precisi. L’andare errando per mare e le difficoltà che l’eroe greco incontra volta per volta possono essere classificate come delle prove, ἄεθλοι, e in questa maniera sono definite dallo stesso autore dell’Odissea. Ci troviamo, infatti, all’interno di un mondo mitologico che prevede per l’eroe un percorso prestabilito di disavventure da superare, alla fine delle quali arriva immancabilmente un risarcimento e una rivincita. Il fatto di essere stati perseguitato dagli dei per un certo periodo rendeva l’eroe più saggio e più capace di dare un senso alla realtà che lo circondava. In questo sistema, tutti gli eventi atmosferici sono governati da forze divine, il mare pullula di mostri fantastici e tutto si svolge secondo un disegno prefissato.

Il peregrinare di Odisseo, come si è detto, è totalmente legato ai capricci e al volere degli dei: le tempeste sono spesso scatenate da Poseidone, adirato con lui per l’accecamento del figlio Polifemo, la dea Atena è sempre pronta a difenderlo e a salvarlo dai naufragi ed è sempre lei che convince il concilio degli dei a prendere la

40

Ivi, XII, vv. 403-425.

41 L’episodio del concilio degli dei, descritto nel I canto, la partenza di Odisseo da Ogigia e l’arrivo

(19)

19

decisione di farlo rientrare in patria. D’altra parte, però, sarebbe sbagliato sottovalutare la volontà d’azione dello stesso protagonista: Odisseo, infatti, riesce spesso a prendere decisioni sagge per salvaguardare la sua vita e quella dei compagni e, pur trovandosi in balia del caso e delle forze divine, mantiene sempre una sua autonomia decisionale, non perdendo mai di vista il suo scopo finale, cioè ritornare ad Itaca.

Le avventure di Odisseo, primo grande naufrago dell’umanità, influenzeranno in maniera determinante la letteratura del naufragio e saranno numerosi gli autori che, nelle epoche successive, rielaboreranno le caratteristiche della sua personalità approfondendone i molteplici aspetti.

2.2.2IL NOSTOS DI MENELAO NELL’ELENA DI EURIPIDE

Elena è una tragedia composta da Euripide e rappresentata per la prima volta ad Atene, nel 412 a.C. L’opera può essere definita come una sorta di “tragicommedia”, dato che ruota attorno ad un gioco di equivoci in cui l'elemento tragico si rivela essere quello meno importante.

Nell’Elena di Euripide, il Re di Sparta Menelao, reduce da Troia e vittima di un naufragio, approda in un paese sconosciuto e chiede aiuto alle porte di un palazzo, che scoprirà poi essere quello di Proteo, Re dell’Egitto. All’interno dell’opera, dunque, il naufragio del protagonista ha la funzione di dare inizio ai vari intrighi della tragedia e diventa il mezzo attraverso il quale Menelao ottiene la salvezza e arriva alla conoscenza della verità.

Giunto davanti alla porta principale del palazzo reale, l’eroe greco incontra una vecchia, che si trova lì a controllare l’ingresso, e presenta se stesso come un naufrago in cerca di ospitalità, dunque come un uomo inviolabile:

“VECCHIA: Chi è alla porta? (Vedendo Menelao) Perché non te ne vai via da questa casa, e te ne stai lì fermo sulla porta del cortile: darai certo fastidio ai miei padroni. Sei Greco: per i Greci qui non c’è posto, morirai!

MENELAO: Va bene, va bene, vecchia! Hai ragione, tutto quello che vuoi, ti darò retta, ma calmati un attimo!

VECCHIA: Vattene, straniero; io ho questo preciso compito: non far avvicinare nessun Greco a questa casa (Gli si avventa contro)

MENELAO: Non mi mettere le mani addosso! Non mi spingere indietro! VECCHIA: Se le mie parole non hanno effetto su di te, è colpa tua. MENELAO: Entra in casa, e riferisci ai tuoi padroni…

VECCHIA: Penso che mi costerebbe caro riferire le tue parole.

MENELAO: Giungo qui come naufrago e come straniero: sono assolutamente inviolabile.

VECCHIA: Vai allora in un’altra casa: non in questa! MENELAO: No, io entro qui: e tu mi devi dare retta!

(20)

20

VECCHIA: Lo sai che sei proprio seccante: ti butteranno subito fuori con la forza.”42

Si scopre successivamente che Menelao non può essere ricevuto a palazzo proprio perché Teoclimeno, figlio di Proteo, tiene con sé prigioniera la vera persona di Elena. La donna, infatti, non è mai andata a Troia ed è sempre rimasta in Egitto per tutti i dieci anni della guerra e per i sette delle peregrinazioni di Menelao, restando fedele al marito nonostante le insidie tese da Teoclimeno. La donna, per la quale i Greci e Troiani hanno combattuto, era in realtà una fantasma completamente distinto e separato dalla vera identità di Elena.43

Si tratta, dunque, di un’antifrasi del tema iliadico: qui Elena resiste alle ripetute proposte di Teoclimeno e, in difesa della fedeltà coniugale, è disposta a morire; il vagare di Menelao, invece, risulta essere un modello delle peregrinazioni di Odisseo. Guido Paduano44 ha individuato numerose similitudini tra la dinamica del salvataggio di Menelao descritta nell’Elena e il naufragio di Odisseo45

, a bordo della nave fulminata da Zeus a largo delle coste siciliane. Si legge nella tragedia euripidea ai vv. 400-413:

“MENELAO: Io invece no: continuo a vagare infelice sul mare azzurro e tempestoso da quando ho espugnato la rocca di Troia; vorrei tanto raggiungere la mia patria, ma gli dei non mi ritengono degno di questa gioia. Ho navigato lungo tutti gli approdi deserti e inospitabili della Libia; e ogni volta che mi avvicinavo alla mia terra, i venti mi spingevano di nuovo indietro: nessun vento favorevole è durato tanto da riportarmi in patria. Ora ho persino fatto naufragio: ho perso i miei compagni e sono finito su questa terra, mentre la nave sbattuta sugli scogli si è fatta in mille pezzi. Della sua complessa struttura era rimasta solo la chiglia: aggrappandomi ad essa mi sono salvato a stento, con l’aiuto insperato della fortuna; e si è salvata anche Elena, che porto con me da quando l’ho strappata via da Troia.”46

Allo stesso modo si salvava Odisseo in seguito al naufragio voluto da Zeus: “Io stesso correvo attraverso la nave e a un tratto

un colpo del mare i fianchi staccò della nave alla chiglia che nuda un’onda travolse, sì che l’albero sopra vi cadde, e su l’albero cadde la gomena forte, di cuoio; e con questa la chiglia avvinghiai con l’albero insieme; mi sedetti lì sopra, portato dai venti funesti.”47

42 Euripide, Elena, vv. 437-454.

43 Questo tema era stato ripreso dallo stesso poeta Stesicoro, il quale aveva scritto la Palinodia, ritrattando

ciò che era contenuto in una precedente elegia, intitolata Elena.

44

G. Paduano, Naufragi epici, risucchi tragici, pp. 47-58.

45 Episodio presente in Odissea, XII, v. 424 e narrato da Calipso a Ermes in V, v. 310, da Ulisse ai Feaci

in VII, v. 252 e da Penelope in terza persona in XIX, v. 278.

46

Euripide, Elena, pp. 79-80.

47

(21)

21

Come abbiamo visto nei versi precedenti (vv. 400-403), subito dopo il naufragio, Menelao ricorda il suo glorioso passato, di forte guerriero e di comandante di eserciti, e tenta inutilmente di far valere questa sua posizione nel successivo incontro con la vecchia che gli preclude l’ingresso al palazzo. Si può notare in questa circostanza un’angoscia specifica della condizione del naufrago48

, che non si ritrova né nella categoria felice di chi è scampato dal mare, né in quella compianta di chi nel mare è perito, ma soffre di una collocazione indefinita e di una mancanza di stabilità, fisica, psichica e simbolica. In questo episodio, infatti, Menelao vede sgretolarsi al contatto con la socialità la sua gloria passata e il mito eroico e, con il suo lamento al v. 445 “Non mi mettere le mani addosso! Non mi spingere indietro!”, descrive la condizione di una vittima non lontana dal grottesco.

Una differenza sostanziale rispetto alle peripezie vissute da Odisseo, si può individuare proprio nella maniera in cui Menelao viene accolto in Egitto. Nel VI libro dell’Odissea, l’eroe greco si salva a nuoto dopo essere naufragato davanti all’ignota isola dei Feaci e, a differenza del povero Menelao, viene a contatto da subito con una figura attraente e salvifica, quella della bellissima Nausicaa. In questo episodio49, infatti, ci si ritrova all’interno di una dimensione idealizzata in cui vi è la fondazione di rapporti umani e di vincoli di solidarietà:

“Ora che giunto tu sei alla città

nostra e alla terra, né veste a te mancherà

né altro di quanto accordare a un supplice è giusto, se a noi si presenta infelice davanti.”50

A differenza di questa accoglienza positiva, come abbiamo visto, nell’incontro tra Menelao e la vecchia sgarbata si ripete incessantemente il tema del rifiuto e della negazione della dignità del dolore. Si crea, dunque, una situazione conflittuale nella quale l’io del protagonista, sopravvissuto all’isolamento e al naufragio, si ritrova ancor di più deriso e umiliato a causa del valore negativo che hanno assunto le relazioni umane. Il naufrago non riceve più una grande ospitalità e accoglienza ma si trova ad essere solo, senza alcun posto nel mondo.

48

In Omero, non vi è una terminologia specifica che indichi la condizione del naufrago: Ulisse viene definito come un δύστηνος αλώμενος, un infelice che vaga sul mare (VI, v. 206); Menelao, invece, è un ναυαγός (v. 408).

49 Accade la stessa cosa quando Odisseo viene accolto da Alcinoo nel VII libro. 50

(22)

22

2.3 IL SATYRICON DI PETRONIO: UN NAUFRAGIO PARODICO

Il Satyricon, unico scritto attribuito all’autore latino Petronio, è un’opera che fa da parodia ai romanzi erotici greci e che può essere interpretata come una rilettura in forma satirica dei contenuti presenti nell’Odissea. Si tratta di un’opera narrativa in forma prosimetrica, che dunque alterna prosa a versi, e che è ambientata durante il periodo neroniano. Il titolo Satyricon51 allude in maniera evidente alla figura dei satiri, creature semi-divine simbolo della poesia parodistica e farsesca, e senza dubbio fa riferimento anche al genere letterario della satura, che comprendeva al suo interno una grande varietà e mescolanza di temi e situazioni. Considerata l’abbondanza delle tematiche e dei contenuti presenti all’interno del romanzo, esso non può considerarsi propriamente come un semplice racconto di avventure ma può essere ricollegato all’antica poesia epica. Il merito di Petronio, infatti, è stato quello di aver cercato di far parodia di quella epopea eroica, da cui il romanzo stesso aveva avuto origine.52

Nel Satyricon, come è stato detto, Petronio rappresenta l’età dell’imperatore Nerone e il suo intento principale è quello di colpire i difetti e i vizi della società del suo tempo, mettendone a nudo la corruzione attraverso l’ironia e il ridicolo.53 Il principale bersaglio della satira petroniana sono i liberti della Roma imperiale, i quali, pur essendosi arricchiti, non riescono a far dimenticare la bassezza della loro origine e lasciano sempre trasparire la rozzezza natia anche nel fasto della loro vita.

I protagonisti del romanzo sono il giovane Encolpio, il suo amato efebo Gitone, l’amico Ascilto, con il quale poi avrà un litigio a causa del suo amore verso Gitone e, in un secondo momento, Eumolpo, vecchio letterato squattrinato che diverrà compagno di avventure di Encolpio. La narrazione, che purtroppo ci è giunta in maniera frammentata, è inizialmente ambientata in una Graeca urbs della Campania, dove i tre protagonisti si ritrovano ad essere coinvolti in numerose avventure, spesso scabrose ed oscene, come l’orgia presso la sacerdotessa Quartilla e la cena a casa del ricchissimo liberto Trimalchione. Successivamente, Encolpio, disperato a causa dell’abbandono di Gitone ormai innamorato di Ascilto, incontra in una pinacoteca il poeta Eumolpo che cerca di consolarlo, raccontandogli aneddoti della propria vita. Ben presto, però Gitone ritorna sui suoi passi, si ricongiunge con Encolpio e insieme i due decidono di abbandonare la

51 Deve essere interpretato come un genitivo plurale greco che sottintende libri. 52 E. Cocchia, La satira e la parodia nel Satyricon di Petronio, pp. 3-5. 53

(23)

23

città ed imbarcarsi, seguiti anche da Eumolpo. La nave sulla quale i tre protagonisti salpano si rivelerà essere quella di Lica, il quale in precedenza aveva subito da parte di Encolpio e Gitone dei gravi torti. I due, dunque, decidono di travestirsi e di radersi i capelli, fingendo di essere i liberti di Eumolpo. Lo scoppio di una tempesta, però, interrompe la calma della navigazione e getta in mare gran parte dell’equipaggio e dei passeggeri. Petronio la descrive nel capitolo CXIV del romanzo:

“Mentre stavamo chiacchierando di queste cose, il mare si oscurò e grossi nuvoloni, accavallandosi da ogni parte, oscurarono il cielo. I marinai cominciarono a correre qua e là spaventati e ammainarono le vele dinanzi alla tempesta; ma il vento già sollevava furiose ondate e il timoniere non riusciva più a mantenere la rotta. In qualche momento sembrava che il vento ci spingesse verso la Sicilia ma in effetti, l’Aquilone, che la fa da padrone lungo le coste d’Italia, sballottava qua e là la nave, e più terribile della stessa tempesta, era il fatto che fummo circondati da così fitte tenebre che il timoniere non riusciva più a vedere nemmeno la prua. […] Io, intanto, avvinghiato al mio Gitone urlavo tra le lacrime: – Questo, dunque, abbiamo meritato dagli dei, di essere uniti soltanto in punto di morte? Ma neanche questo vuol concederci la malasorte! Ecco che già la tempesta rovescia la nave, ecco che già il mare infuriato scioglie l’amplesso di due amanti. Suvvia, se tu hai veramente amato Encolpio, bacialo, finché c’è tempo, e rubiamo quest’ultimo piacere ai fati che incalzano! – A queste parole Gitone si tolse il vestito e, insinuandosi sotto la mia tunica, sollevò il volto per porgerlo ai miei baci e, perché così uniti l’onda odiosa non potesse separarci, legò insieme i nostri due corpi con alcuni giri di cinghia: – Se non altro, – disse – per qualche tempo, il mare ci trascinerà avvinti e se vorrà, pietosamente, gettarci sullo stesso lido, forse qualche passante, spinto da carità umana, ci coprirà entrambi con la stessa pietra o, nel peggiore dei casi, che nemmeno i flutti infuriati possono negare, la sabbia ignara ci coprirà. […] Intanto la tempesta, per volere del destino, finisce di sfasciare quell’avanzo di nave che non aveva più albero, né timone, né gomene, né remi, ma era un’informe e sconquassata carcassa che andava in balia delle onde.

In un batter d’occhio si precipitarono alcuni pescatori, sulle loro barchette per far bottino ma appena videro che c’era gente ancora pronta a difendere la sua roba, mutarono la loro ingordigia in offerte di aiuto.”54

Analizzando l’episodio del naufragio narrato da Petronio, Enrico Cocchia afferma che esso, molto probabilmente, doveva risultare comico, in quanto rinnovava tra i personaggi la geometria dei rapporti precedenti alla fuga.55 La fragorosa tempesta che distrugge l’imbarcazione facendola a brandelli passa quasi in secondo piano e la narrazione del terribile naufragio si interrompe bruscamente lasciando spazio alla descrizione dell’amplesso tra i due amanti che, pur di non restare separati in punto di morte, decidono di legarsi insieme l’un l’altro. Larga parte dell’episodio, infatti, è incentrata sul dialogo tra Encolpio e Gitone ed è proprio questo a rendere comica la

54 Petronio, Satyricon, cap. 114. 55

(24)

24

vicenda: ai due importa soltanto di godere del loro ultimo amplesso e di rimanere avvinghiati fino all’ultimo momento.

Cocchia, inoltre, individua la mancanza di una parte di testo tra il paragrafo 13 e 14 del capitolo CXIV: si passa dalla nave trascinata dalla corrente e ridotta dai flutti a una “rudis atque infecta materies”, ai pescatori che “parvulis expediti navigiis” possono già accorrere “ad predam rapiendam”. Probabilmente, in questa parte mancante, doveva essere descritto il momento in cui la violenza della tempesta aveva perduto la sua intensità e l’ammasso di rottami si era arenato su un basso fondo.56

Il primo ad essere trascinato dalla furia del vento della tempesta è il ricco padrone della nave, Lica, il cui cadavere sarà rigettato sulla spiaggia il giorno successivo. Qui, Encolpio pronuncia un’orazione funebre che si sofferma amaramente sul tema della morte e sulla precarietà e vanità della vita. È proprio nel capitolo CXV che la narrazione assume un tono serio e quasi commovente, con un netto distacco rispetto alle restanti parti del romanzo:

“Dov’è la tua collera, dov’è ora la tua prepotenza? Eccoti quasi in bocca ai pesci e alle belve e mentre poco fa millantavi la potenza della tua autorità, di quella tua grossa nave non ti resta nemmeno la tavola del naufrago! Orsù, mortali, riempite pure il vostro animo di grandiosi progetti, andate pure sicuri e disponete per mille anni delle ricchezza accumulate con la frode! Anche costui, ancor ieri, faceva il conto del suo patrimonio, anzi aveva in cuor suo, fissato il giorno del suo rientro in patria. A quale distanza, santo cielo, ora giace lontano dalla sua meta! Ma non sono soltanto i mari ad essere così infidi con gli uomini: ad uno che sta combattendo, le armi lo tradiscono; a un altro che fa voti ai penati, gli cade la casa addosso; e chi, volendo andare più in fretta, monta sul cocchio, cade e ci lascia la pelle; uno si strozza per l’ingordigia, un altro crepa per il digiuno. Se fai bene il calcolo dovunque è il naufragio!”57

Anche sul mondo del Satyricon, dunque, incombe quel senso di morte proprio degli autori dell’età di Nerone: il naufragio diventa un avvenimento intrinseco all’animo umano, sia sul piano etico che nell’ambito sociale e politico. Ogni azione compiuta dall’uomo, che sia la navigazione, il combattimento o anche il semplice cibarsi, ha in sé il rischio del fallimento e quindi del naufragio. Ma non è da tralasciare neanche un altro tema che emerge dall’orazione di Encolpio, quello del contrasto tra le forze della natura e le creazioni della tecnologia umana, promotrice di una modernità e di un progresso che non è affatto infallibile. La ὕβϱις, la tracotanza e la superbia portano l’individuo ad aumentare la sua smania di potenza e a fare affidamento su grandiose creazioni che si rivelano essere inutili e fallimentari di fronte all’invincibilità della natura.

56 Ivi, p. 64. 57

(25)

25

2.4 LA METAFORA DEL NAUFRAGIO NEL MONDO LATINO

Nel capitolo I di questa tesi, ho individuato, tra le varie tipologie di naufragi, quello a carattere metaforico. La navigazione, infatti, ha rappresentato già per gli antichi una metafora dell’esistenza umana e da sempre il mare in tempesta ha minacciato di sopraffare la “nave della vita” con il pericolo di naufragi incombenti. Nel paragrafo precedente, abbiamo visto come Odisseo sia l’esempio del naufrago che sa sopportare con pazienza ogni avversità, ma spesso chi non sa affrontare con saggezza i flutti marini si ritrova ad essere l’ultimo della società.

Nell’antichità accadeva spesso di vedere mercanti che avevano attaccato al collo un piccolo dipinto con l’immagine del proprio naufragio: ciò stava ad indicare che essi avevano perso ogni cosa in mare e che, di conseguenza, potevano chiedere l’elemosina suscitando compassione.58 Al contrario di questi poveri commercianti e marinai di ventura, l’intellettuale era colui che si era distinto dalla massa proprio perché l’essere stato colpito da un naufragio non gli aveva recato nessun danno.

In tal senso è famoso l’aneddoto riguardante il poeta Simonide, che viene raccontato da Fedro nel IV libro delle Favole.59 Durante un naufragio in mare, il celebre poeta greco Simonide, benché trasporti con sé una certa ricchezza, a differenza degli altri passeggeri non si affanna a recuperare il suo bagaglio, proprio perché ritiene che i suoi unici beni siano, in realtà, la sua arte e se stesso: “mecum, inquit mea sunt cuncta”60

. Gli altri passeggeri, in questo modo, annegano appesantiti dal carico dei loro bauli o, dopo essere approdati a riva, vengono derubati da predoni che portano via tutto quello che essi avevano recuperato. A differenza loro, Simonide si salva leggero, nuotando verso la riva, e viene accolto sulla spiaggia da un illustre estimatore della sua poesia, il quale lo riconosce subito dalla dolcezza del suo modo di parlare e gli dona nuove ricchezze e vesti per rinfrancarlo dalle perdite subite.

La morale di questo aneddoto, dunque, è volta a premiare la figura del saggio e il distacco che egli ha nei confronti dei beni materiali. Tutte le filosofie ellenistiche avevano come scopo primario il raggiungimento di una imperturbabilità assoluta, alla quale in pochi potevano accedere. Il saggio, epicureo o stoico, doveva affrontare

58 M. Mannocchi, Tempeste e Approdi. La letteratura del naufragio come ricerca di salvezza, p. 65. 59 Fedro, Favole, IV, 22.

60

(26)

26

qualsiasi avversità, che si trattasse di naufragi, incendi o perdita di moglie e figli, senza che ciò procurasse in lui alcun perturbamento.

Come vedremo, alcuni autori latini si servirono proprio della metafora del naufragio per descrivere le avversità della vita e per mettere in evidenza il modo in cui il saggio si era posto rispetto ad esse.

2.4.1LUCREZIO E IL NAUFRAGIO CON SPETTATORE

Il poeta Tito Lucrezio Caro, vissuto a Roma durante la prima metà del I secolo a.C., fu un sostenitore della filosofia epicurea che studiò proprio nella sua città natale, Ercolano, la quale ospitava un centro filosofico diretto dal greco Filodemo di Gadara. Per rendere omaggio a questa filosofia e al suo fondatore Epicuro, Lucrezio decise di scrivere il De Rerum Natura, un poema didascalico, di natura scientifico-filosofica. L’opera, scritta in esametri, è suddivisa in sei libri che illustrano la varietà dei fenomeni naturali: si parte dagli atomi (I-II) per passare all’analisi del mondo umano (III-IV) e a quella dei fenomeni cosmici (V-VI). Per la stesura del poema, Lucrezio decise di riprodurre il modello prosastico e filosofico epicureo e, in particolare, la struttura del Περὶ φύσεως del filosofo Empedocle (anche Epicuro aveva scritto un’opera con il medesimo titolo). Il De Rerum Natura era dedicato al rampollo dell’illustre famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica con Gaio Memmio. Generalmente, si può affermare però che l’intento dell’autore era quello di conquistare un pubblico di giovani aperti ad ogni esperienza e destinati, un giorno, ad avere un ruolo determinante nella politica dell’impero.

All’interno dell’opera, Lucrezio sottolinea con insistenza la distanza tra il saggio consapevole di sé e delle sue potenzialità e il resto degli uomini che vengono dominati dalle passioni e si lasciano sopraffare dalle tempeste della vita. Il II libro del De Rerum Natura, in particolare, si apre con l’immagine di un naufragio che viene descritto dallo spettatore mentre si trova sulla riva. Egli non partecipa direttamente agli eventi e viene pervaso da una serena gioia che scaturisce proprio dal trovarsi lontano dai pericoli e dalla rovina degli altri. Quest’immagine, dunque, rappresenta un’allegoria del saggio epicureo il quale è capace di guardare imperterrito il vorticoso turbinio degli atomi e la dissoluzione delle forme perché poggia sul solido terreno della filosofia di Epicuro, la

Riferimenti

Documenti correlati

<<1 sostanziale criticità nella gestione del fabbisogno anche in presenza di una riorganizzazione interna della produzione.. SALDO DRG CHIRURGICI

66 Corte cost. 222 del 2018 significativamente suggerisce che «nulla osta, sul piano dei principi costitu- zionali, a che il legislatore possa articolare strategie di prevenzione

Fuori discussione la rilevanza e l’utilità degli studi che indagano la divi- sione delle mansioni all’interno del nucleo familiare, la struttura e le trasformazioni degli

Andrea DROCCO "Il Viaggio alle Indie Orientali di Padre Vincenzo Maria di S. Caterina

Sommando la spesa per la funzione difesa dall’interno del Ministero guidato da Trenta agli investimenti del Mise, e aggiungendo le risorse stanziate nell’ambito del

Infermieristica dell’università degli Studi di Milano, sede ASST Ovest Milanese, ad un “viaggio nella pandemia” attraverso contributi video, audio, suggestioni, testimonianze

È sepolto nel Green Hills Memorial Park, Rancho Palos Verdes, Los Angeles County, California, USA.. Ignaz Franz

[r]