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L A N OVA T ERRA DI C RISTOFORO C OLOMBO

L’ETA’ MODERNA

4.2 L’EPOPEA DELLE GRANDI SCOPERTE GEOGRAFICHE: PORTOGHESI, SPAGNOLI E ITALIAN

4.2.3 L A N OVA T ERRA DI C RISTOFORO C OLOMBO

Già a partire dal XIII secolo, gli Italiani, tra i quali spiccavano maggiormente i marinai genovesi, si erano integrati perfettamente nei circuiti commerciali dell’Europa continentale. Fu tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, però, che ebbe inizio la vera grande stagione dei navigatori italiani: l’ambiente culturale della penisola si allargò notevolmente grazie alle scoperte geografiche e nei centri culturali di Firenze e della corte pontificia circolavano liberamente le copie manoscritte delle relazioni di viaggiatori locali e stranieri.

La letteratura italiana di viaggio aveva diverse forme e tipologie: quella più diffusa era sicuramente la lettera familiare o ufficiale, scritta al ritorno o durante le fasi finali del viaggio. Il destinatario vi giocava un ruolo fondamentale: la lettera, infatti, si atteneva ai suoi interessi e il tono utilizzato risentiva del rapporto presente tra egli e l’interlocutore. Un’altra tipologia di resoconto di viaggio era il diario: un exemplum di questa tipologia è il Giornale di bordo scritto da Colombo, nel quale viene descritta non solo la navigazione ma anche tutto il periodo di permanenza nel Nuovo Mondo. Vi è, infine, la relazione di viaggio vera e propria, scritta espressamente per essere divulgata.

Il primo annuncio della storica impresa compiuta da Cristoforo Colombo è costituito dalla famosissima Lettera al Santàngel, datata al 15 febbraio 1493. Essa costituisce una sintesi delle principali vicende del viaggio del navigatore genovese, il quale descrive i risultati ritenuti più degni di nota e tace, però, tutti quegli episodi che potrebbero danneggiarlo, come quello del naufragio della Santa Maria.

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Nel Giornale di bordo, invece, Colombo non si limita a registrare gli avvenimenti in maniera impersonale ma tiene conto anche dei suoi stati d’animo, dei desideri e delle delusioni.140 Dal punto di vista contenutistico, questo resoconto può essere suddiviso in tre parti: la prima corrispondente alla traversata dell’Atlantico, la seconda riguardante la scoperta e l’esplorazione degli arcipelaghi americani, la terza sul viaggio di ritorno. In particolare, nella sezione dedicata alla navigazione verso casa si dà largo spazio alla narrazione della terribile tempesta che colse Colombo e il suo equipaggio tra il 12 e il 15 febbraio del 1493. Tale descrizione, vista dagli occhi di coloro che hanno dovuto vivere e attraversare la tempesta, rappresenta una delle pagine più vive del Giornale di bordo:

“Durante la notte aumentò il vento e le onde erano spaventevoli; contrarie l’una all’altra, si incrociavano e mettevano in difficoltà la nave che non poteva né avanzare né uscire di mezzo ad esse, e le si frangevano contro; issava il pappafico molto basso, solo perché tenesse la nave un poco fuori dalle onde; andò così circa per tre ore percorrendo 20 miglia. Il mare e il vento continuavano ad aumentare; vedendosi in grave pericolo, cominciò a correre dove il vento lo spingeva a poppa, non essendovi altro rimedio. […] Oltre ai voti generali fatti in comune, ognuno faceva un suo voto particolare, perché nessuno pensava di salvarsi; la burrasca era tanto terribile che tutti si ritenevano perduti. […] A questo punto l’ammiraglio espone le ragioni che gli facevano temere che Nostro Signore volesse farlo morire, e le altre che gli davano invece speranza che Dio lo avrebbe condotto a salvamento, affinché notizie quali erano quelle che egli portava ai re non andassero perdute. Da un lato, l’intenso desiderio che sentiva di recare notizie così grandiose e di provare che si era dimostrato vero ciò che aveva detto e che si era prefissato di scoprire, sembrava destare in lui il grandissimo timore di non raggiungere lo scopo, e dice che un’inezia poteva turbarlo e ostacolarlo. Attribuiva ciò alla sua poca fede e alla perita di fiducia nella divina Provvidenza. Lo confortava d’altra parte la grazia che Dio gli aveva concesso dandogli una vittoria così grande con le sue scoperte, e il fatto che, dopo tante avversità e contrarietà sofferte in Castiglia durante le trattative per la partenza, Dio aveva esaudito alla fine tutti i suoi desideri. […] Dice ancora che gli dava un gran dolore il pensiero dei due figli che aveva lasciati a studiare a Cordova e che avrebbe abbandonati orfani di padre e di madre in terra straniera; perché i re, non conoscendo i servigi che egli aveva reso loro in quel viaggio e le fauste notizie che portava, non si sarebbero mossi in loro soccorso. Per questa ragione, e perché sapessero le Loro Altezze che Dio gli aveva dato vittoria in tutto ciò che desiderava riguardo alle Indie, e anche perché si sapesse che in quei paesi non ci sono burrasche – la qual cosa dice che si può capire dall’erba e dagli alberi che nascono e crescono persino nel mare – e perché, pur se si fosse perduto in quella tempesta, i re avessero notizia del suo viaggio, prese una pergamena e vi scrisse tutto ciò che poteva di tutto ciò che aveva scoperto, supplicando chi la trovasse di portarla ai re.”141

La valenza simbolica della tempesta, dunque, è particolarmente evidente in Colombo, che spesso si ritrova ad essere protagonista di una serie di naufragi mancati o

140 I. Luzzana Caraci, Scopritori e viaggiatori del Cinquecento, Riccardo Ricciardi Editore, Milano, 1996,

pp. 43-49.

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di episodi che, come quello appena descritto, assumono tutte le caratteristiche di un naufragio vero e proprio.142 In particolar modo, durante il quarto viaggio, compiuto tra il 1502 e il 1504, la tempesta diventa un tema dominante. Nella Lettera ai Re cattolici, scritta dalla Giamaica nel 1503, Colombo narra di una lunga peregrinazione in balia dei venti, in seguito alla quale si ritrovò imprigionato per un anno intero presso l’isola. L’episodio viene narrato nella sezione della Lettera, datata al 7 luglio:

“La burrasca era terribile, e quella notte mi disperse le navi, trascinandole ognuna per conto proprio, senza alcuna speranza se non di morte. E ognuno di loro credeva che gli altri fossero ormai perduti. Quale altro essere umano, non escluso neppure Giobbe, non sarebbe morto disperato al mio posto, dato che in un simile momento alla salvezza mia, di mio figlio, di mio fratello, dei miei amici si negavano la terra e i porti da me stesso conquistati alla Spagna, per volontà di Dio, sudando sangue? […] In mezzo a tale burrasca, procedendo alla meglio, giunsi alla Giamaica. Là il mare si calmò e una forte corrente mi trasportò, senza che avvistassi terra, fino al “Giardino della Regina”. Da lì, appena mi fu possibile navigai verso la terraferma, dove però mi si opposero il vento ed una terribile corrente, contro i quali lottai per sessanta giorni senza riuscire a guadagnare, alla fine, più di settanta leghe. In tutto questo tempo non entrai mai in un porto, perché non mi fu possibile, e non cessarono mai le burrasche, con rovesci d’acqua, trombe marine e continui lampi, che sembrava la fine del mondo. Giunsi al capo “Grazie a Dio”, e da quel punto Nostro Signore mi diede vento e corrente favorevoli. Questo accadde il dodici settembre. Da ben ottantotto giorni la spaventosa burrasca non mi aveva dato tregua, tanto che non vedevo sul mare né il sole né le stelle, e avevo le navi piene di falle, le vele a pezzi, perdute ancore, sartie e gomene, insieme alle scialuppe e molte provviste. Gli uomini erano molto malati, tutti mostravano un gran pentimento, molti avevano promesso di entrare in religione, e non c’era nessuno che non avesse pronunciato voti o promesse di pellegrinaggi. Spesso erano giunti a confessarsi gli uni agli altri. Si sono viste altre tempeste, ma mai così prolungate e spaventose.”143

Il naufragio, dunque, diventa per l’Ammiraglio il simbolo di una solitudine totale, che viene interpretata come un insanabile conflitto con la società. Piero Boitani ha definito la Nova Terra come un luogo dell’immaginazione, un approdo dell’uomo al suo supremo destino di vita.144 Cristoforo Colombo potrebbe essere definito come il “compimento” della “figura” dell’Ulisse dantesco, rappresentando insieme ad esso il typos del paradigma della scienza moderna. Attraverso la navigazione del genovese, il racconto del superamento delle Colonne d’Ercole si trasforma in Storia, riprendendo e trasformando il gesto coraggioso e temerario di Ulisse.145

142 L. Formisano, Naufragare tra Quattro e Cinquecento, in Naufragi, cit., pp. 21-30. 143 I. Luzzana Caraci, Scopritori e viaggiatori del Cinquecento, pp. 176-179. 144 P. Boitani, L’ombra di Ulisse, cit., p. 79.

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4.3 IL NAUFRAGIO COME DIMENSIONE METAFISICA: OS LUSÌADAS