• Non ci sono risultati.

P ERICLES , P RINCE OF T YRE

L’ETA’ MODERNA

4.4 TEMPESTE E NAUFRAGI NEI DRAMMI SHAKESPEARIAN

4.4.2 P ERICLES , P RINCE OF T YRE

Pericles, Prince of Tyre è annoverato fra i cosiddetti drammi romanzeschi, composti nell’ultima parte della carriera di Shakespeare: la sua stesura è databile tra il 1607 e il 1608. La ricerca della genesi e della struttura di quest’opera teatrale e il problema della sua attribuzione al drammaturgo inglese sono tra gli argomenti più discussi del teatro shakespeariano: si pensa, infatti, che i primi due atti siano stati scritti da un collaboratore di poco talento, molto probabilmente George Wilkins.

155 Ivi, III, 2, pp. 68-69. 156

77

Nel prologo del Pericles, vediamo subito come protagonista John Gower che rappresenta il coro e ha la funzione di introdurre la vicenda agli spettatori. Gower, poeta inglese vissuto alla fine del 1300 e contemporaneo di Geoffrey Chaucer, aveva già fatto conoscere agli inglesi la storia del principe di Tiro, Apollodoro,157 narrandola all’interno del suo poema Confessio Amantis, incentrato proprio sul tema dell’amore e dei peccati commessi contro di esso.

La vicenda narrata da Shakespeare si apre in Siria, presso la corte di Antioco, dove Pericle si è recato per risolvere l’enigma che gli consentirà di prendere in sposa la principessa del regno. L’indovinello, però, riguarda proprio la relazione incestuosa tra il re di Antiochia e la figlia e, avendo trovato la soluzione, Pericle viene minacciato di morte dai sicari del sovrano. Costretto a fuggire, si reca prima a Tiro e dopo a Tarso e, alla fine, mentre cerca di ritornare nuovamente in patria, viene colto da una tempesta:

“GOWER: a Tarso più non convenir restare per Pericle, ed in patria ritornare. Sì che questi, seguendo tal consiglio, del mare affronta ancora il gran periglio. Ed ecco, il vento già le vele ha rotto, di sopra il tuono e gli abissi di sotto fan del povero legno tal sconquasso, ch’esso è ben presto fracassato e casso. E il poveretto, che tutto ha perduto, di costa in costa dai flutti è sbattuto, uomini e cose il mare gli ha inghiottito, e nessun altro, tranne lui, scampato; finché Fortuna, stanca di vessarlo, lo getta sulla riva, a confortarlo. Ed eccolo che viene. Quanto al resto, non a Gower - vogliate perdonarlo - appartiene di dirvelo, ma al testo.”158

Nel secondo atto del dramma, il mare entra a far parte direttamente del palcoscenico e, essendo appena sbarcato sulla spiaggia di Pentapoli, Pericle grondante d’acqua pronuncia parole di morte:

“PERICLE: L’ira vostra placate, irate stelle! Voi, vento, pioggia e tuono, ricordate che vile ammasso di materia è l’uomo, e a voi non può che cedere e piegarsi; ed io, che tale sono, vi obbedisco. Gettato, ahimè, dal mare sugli scogli, trascinato dall’una all’altra costa, altro moto di vita non mi resta che per pensare all’imminente morte. Ma basti, a gloria del vostro potere, l’aver privato d’ogni sua fortuna un principe, che, essendo qui scagliato fuor dell’umida vostra equorea tomba, altro non chiede che morire in pace.”159

Questa prima tempesta che colpisce Pericle rientra, in tutti i sensi, nella categoria dei naufragi reali: tutti i suoi compagni periscono e lui è l’unico che riesce a sfuggire alla morte, sopravvivendo come unico testimone dell’accaduto. Grazie a questo naufragio, però, il protagonista ottiene in moglie la principessa Taisa e, avendo scoperto che Antioco e la figlia sono ormai morti, decide di far vela verso Tiro e ritornare

157 Shakespeare si rifà ad essa cambiando i nomi dei personaggi. 158 William Shakespeare, Pericle, Prince of Tyre, II, p. 32. 159

78

finalmente in patria. All’inizio del terzo atto, è sempre John Gower ad introdurci nel vivo della scena:

“GOWER: In breve, Pericle, tutto ciò udito, a ritornare a Tiro ora s’affretta, e la regina, come amor le detta, sebbene incinta, con lui vuole andare (e chi mai la potrebbe contrastare?). E qui vi faccio grazia dei lamenti e della piena dei lor sentimenti. Prende con sé Licoride fedele la regina, ed al vento dà le vele. Agile naviga già il loro legno sul grande di Nettuno equoreo regno; mezzo flutto la lor chiglia ha solcato, che all’improvviso di nuovo mutato è l’umor della sorte: il maestrale vomita fuori un tale fortunale che la malcapitata navicella, sbattuta è in mare come un’anatrella ora emergendo ed ora scomparendo tra montagne di schiuma. Alto gemendo per il terrore, la giovine moglie è colta, ahimè, d’un tratto dalle doglie. Quello che segue in questa ria procella a bordo della nostra navicella lo vedrete voi stessi. A me non resta altro da raccontar sulla tempesta; la scena vi potrà rappresentare adesso quanto non poteva fare di quello ch’io v’ho dovuto narrare. Sta ora al vostro genio immaginare quest’umile proscenio come il ponte d’una nave sbattuta in mezzo all’onde sul quale venga Pericle a parlare.”160

La prima scena, infatti, è proprio ambientata sulla tolda della nave dove Pericle, vittima di un nuovo naufragio, maledice la sua sorte:

“PERICLE: Il dio di questa equorea immensità raffreni questi flutti incolleriti che sciacquan cielo e inferno. E tu, che reggi l’impero dei venti, così come li hai sciolti dagli abissi, stringili dentro ritorte di bronzo. Oh, racqueta lo strepito assordante dei tuoi paurosi tuoni, spegni, Giove, il sulfureo guizzare dei tuoi lampi!… Licoride! Licoride!… Mi senti?… La mia regina come sta, Licoride?… Ah, tempesta che infurî velenosa: vuoi proprio vomitar tutta te stessa? Il fischio del nostromo è un bisbiglio all’orecchio della morte, da tutti inascoltato… Olà, Licoride!… Lucina, o tu, divina protettrice che assisti da amorosa levatrice le partorienti urlanti nella notte, scenda pietosa la tua deità su questa traballante nostra nave, ad alleviar gli spasimi del parto di questa mia regina… (Entra Licoride con un neonato in braccio.) Ehi, Licoride!

LICORIDE: Ecco una troppo tenera cosina per un posto così; se ne avesse coscienza, morirebbe, come è probabile sarà di me. Prendilo tra le braccia, questo pezzo vivente della tua regina morta.

PERICLE: Come, come, Licoride?

LICORIDE: Pazienza, buon signore, non dar mano alla tempesta. È questo tutto ciò che resta vivo della tua regina: una figlietta; per amore suo sii uomo, e fatti animo.”161

Rifacendoci ai criteri stabiliti da Deidda162, potremmo classificare questo secondo naufragio come virtuale: a differenza del precedente, infatti, in questo evento mancano degli elementi della sequenza tempesta, la cui omissione non consente di classificare come naufragio ciò che accade nella realtà interna dell’opera. Ad esempio, si può notare come dopo questo nubifragio non abbia luogo l’affondamento della nave, ma soltanto il parto di Taisa e la sua morte apparente. Ella, infatti, sarà abbandonata in mare

160 Ivi, III, pp. 56-57. 161 Ivi, III, 1, pp. 57-58.

162 Mi riferisco alla classificazione in naufragio reale, immaginario e virtuale in A. Deidda, Figure della perdita, cit., pp.255-261.

79

all’interno di una cassa, ritrovandosi in una situazione che la paragona all’unica naufraga superstite: Taisa verrà ritrovata poco dopo da un medico di Efeso che sarà in grado di resuscitarla e, credendo di essere l’unica sopravvissuta alla tempesta ed aver ormai perso il marito, deciderà di diventare sacerdotessa di Diana. Allo stesso modo, anche la neonata Marina verrà rilasciata dal padre presso Tarso a seguito della medesima tempesta: ella, come una naufraga, si troverà isolata su un territorio sconosciuto, rimanendo all’oscuro delle vere circostanze che l’hanno condotta in quel luogo. Dunque, pur non essendoci stato un effettivo affondamento della nave, le due protagoniste si ritrovano vittime del medesimo naufragio che, per il fatto di non aver coinvolto nessuno degli altri passeggeri, deve essere definito come virtuale all’interno della realtà del dramma.

Ma non è da sottovalutare nemmeno la valenza positiva che il naufragio può assumere all’interno dell’opera shakespeariana, trasformandosi in un simbolo di rinascita. Come abbiamo visto nei passi analizzati precedentemente, dopo il primo naufragio Pericle riacquista la speranza e sposa Taisa, mentre durante la furiosa tempesta del secondo viaggio, la moglie partorisce la figlia Marina. Nei successivi sviluppi del dramma, inoltre, Pericle riesce a ritrovare sia la figlia che la moglie, la quale lui stesso aveva gettato in mare, credendola morta.

Agostino Lombardo ha individuato come in Shakespeare “il naufragio, dunque, diventa l’inizio di un percorso di conoscenza, di un cammino lungo, faticoso e doloroso che ha però fatto ritrovare a Pericle un’identità perduta, una qualche sia pur precaria e incrinata felicità, una speranza se non una certezza.”163

Il dramma di Pericle, come abbiamo visto, si svolge attraverso numerosi intrecci e peripezie: tutto è ingannevole ed incerto, ma attraverso il naufragio si riesce a raggiungere una conoscenza che rappresenta un valore vero e reale.

4.4.3 THE TEMPEST

The Tempest è ritenuta, secondo la tradizione, l’ultima opera scritta interamente da William Shakespeare ed è considerata da molti il lavoro che segnò l'addio alle scene del celebre drammaturgo inglese. Il dramma, scritto tra il 1610 e il 1611, è ambientato su un isola del Mediterraneo, forse sull’Adriatico, in Francia o molto probabilmente sull’isola di Vulcano, al largo delle coste siciliane. La vicenda si apre subito con un

163

80

naufragio che, stavolta, viene direttamente rappresentato sulla scena: i personaggi che si trovano su una nave, durante il lampeggiare di una tempesta, sono tutti terrorizzati, si agitano, urlano e vengono travolti dalle onde. Si legge nella prima scena:

“CAPO NOCCHIERO: Forza, ragazzi! Forza, fate cuore! Voi, qua, imbrigliate la vela maestra! Attenti al fischio, là, del capitano! Ventaccio cane, soffia s’hai polmoni! Soffia, fino a scoppiare!

ALONSO: Ehi, là, nostromo! Mi raccomando, attenti alla manovra! Il capitano, dov’è il capitano? Mettete all’opera tutta la ciurma.

CAPO NOCCHIERO: E voi tenetevi sotto coperta! ANTONIO: Il capitano! Dov’è il capitano?

CAPO NOCCHIERO: (Porgendo orecchio al fischio del capitano) Non lo sentite?… Ma via dalla tolda, che ci state intralciando la manovra! Il vostro posto è giù, sotto coperta; se rimanete qui, date solo una mano alla burrasca.”164

A bordo dell’imbarcazione, dunque, vi sono marinai, uomini dell’equipaggio, ma anche passeggeri illustri, come Alonso, re di Napoli e Antonio, fratello di Prospero e attuale duca di Milano. Ben presto, infatti, si scopre che il naufragio a cui abbiamo assistito nella prima scena è in realtà un evento immaginario, dato che viene ordito dalle arti magiche di Prospero. Il naufragio non può essere considerato reale sul piano della realtà dell’opera, proprio perchè Prospero non è sottoposto alle stesse regole degli altri protagonisti, anzi è proprio lui a dettarle, sottomettendo ad esse sia i personaggi che gli spettatori.

Nella seconda scena, al sicuro sulla spiaggia dell’isola, Miranda commenta l’evento appena accaduto parlando con il padre Prospero che, alla fine, le rivela la finizione del naufragio:

“MIRANDA: Se con le vostre arti, padre mio, avete scatenato in tal fragore l’acque selvagge, con le stesse arti fatele ritornare ora alla calma. Pare come se il cielo voglia piovere sol pece infetta, non fosse che il mare sollevando i suoi flutti tanto in alto da arrivar fino a lambirgli la guancia, sembri volerne incenerir l’ardore. Ah, la pietosa vista di tutta quella gente che soffriva! Ho sofferto pur io insieme a loro! Un così bel naviglio, che senza dubbio aveva nel suo fianco chi sa qual nobile creatura umana, tutto ridotto in pezzi! Oh, quel grido che m’ha colpito il cuore! Tutte perite, povere creature! Avessi avuto il potere d’un dio, avrei piuttosto fatto sprofondare il mare nei precordi della terra, prima ch’esso inghiottisse, come ha fatto, una sì bella nave, col suo carico umano.

PROSPERO: Rasserénati, caccia via dal tuo animo l’angoscia, e di’ al tuo cuore tanto impietosito, che non è stato fatto nessun male.

MIRANDA: Oh, giorno di sventura! […]

PROSPERO: È tempo dunque ch’io ti faccia edotta. Dammi la mano, e toglimi di dosso questo magico manto… Così, bene. (Si toglie il mantello e lo depone a terra) (Al mantello) Rimani là, mia arte. (A Miranda) E tu asciugati gli occhi, e datti cuore. Quel naufragio, la cui orrida vista t’ha toccato così profondamente tutte le fibre della compassione, l’ho predisposto io, con la mia arte, e col preordinato

164

81

accorgimento da far che di quelle anime non una, anzi, che dico, non un sol capello di quante creature in quel vascello tu hai sentito urlare e visto sprofondare, andasse perso. Ma siedi: devi saperne di più.”165

Con la battuta finale, Prospero rimarca l’illusorietà e la finzione dell’evento appena accaduto e, liberandosi del mantello da mago e della bacchetta, sancisce la fine dell’incantesimo iniziale e il passaggio al mondo della reale esperienza. L’artificialità della tempesta e del naufragio viene confermata anche dal successivo scambio di battute tra Prospero e Ariel, spiritello dell’aria, aiutante del mago:

“PROSPERO: Dimmi un po’, spiritello, hai suscitato punto per punto la tempesta in mare che t’avevo ordinato?

ARIELE: Punto per punto, come tu volevi. Piombato sopra il vascello del re, ora a prua, ora al centro, ora sul cassero, or di qua or di là per le cabine, ho fiammeggiato dovunque terrore. A volte mi scindevo in varie fiamme, andando a divampare in vari posti: sul pennone maggiore, sul bompresso, ardevo tutto in separate fiamme, per poi riunirmi in un unico incendio. I fulmini di Giove, precursori del fragore terribile del tuono, e il lacerarsi di solfuree nubi sembrava che cingessero d’assedio il possente Nettuno, tanto da riempire di tremore i suoi superbi flutti, e da scrollare perfino il suo terribile tridente.”166

Subito dopo aver rivelato la finzione dello spettacolo a cui gli spettatori hanno appena assistito, Prospero spiega alla figlia Miranda la motivazione di tale decisone: dodici anni prima egli era duca di Milano e il fratello Antonio, geloso del suo potere, aveva stretto un’alleanza con il re di Napoli e aveva ordito il loro allontanamento dal ducato. Anche Prospero e Miranda, dunque, erano state vittime di un naufragio:

“PROSPERO: […]A farla breve: ci caricarono in fretta su un barco, e ci spinsero qualche lega in mare, dove avevano pronta una carcassa, una goletta tutta sconquassata, senz’alberi, né vele, né cordame, abbandonata perfino dai topi. In quel misero legno ci lasciarono a sciogliere da soli i nostri pianti in seno al grande mare che rispondeva strepitando intorno, e a sospirare ai venti, che, pietosi, ci rinviavano i loro sospiri, quasi in un gesto d’affettuoso torto. […] Come Dio volle, approdammo a quest’isola e qui, con me come tuo pedagogo, tu hai appreso con maggior profitto di quanto sappian altre principesse ch’hanno più tempo e più agio di te da dedicare a inutili diporti, e meno premurosi precettori.”167

In questo dramma, come nel Pericles, il naufragio porta ad un percorso di conoscenza e alla ricerca della verità per tutti i personaggi. Dopo la tempesta, infatti, tutti mutano: Prospero riottiene il ducato e si riconcilia con i traditori e Miranda e il principe Ferdinando si innamorano. La conoscenza, però, può essere raggiunta dal naufrago soltanto dopo un percorso lungo, tortuoso e fatto di dolore. Ciò emerge, nella chiusa del dramma, dalle parole finali di Gonzalo:

165 Ivi, I, 2, pp. 13-14. 166 Ivi, I, 2, p. 21. 167

82

“GONZALO: Quest’isola è davvero la dimora d’ogni sorta di triboli, di angosce, di meraviglie e di stordimenti! Oh, che una qualche potenza del cielo voglia guidarci fuor da questi luoghi pieni di cose tanto spaventose!”168

L’isola della Tempesta, dunque, non è un territorio utopico, ma un luogo dove l’uomo conduce un’esperienza difficile e dolorosa, privo di ogni certezza.169

Un altro elemento di fondamentale importanza all’interno di questo dramma è quello del diverso e dell’alterità, tema che diventerà fondamentale nella letteratura di questo tempo e che sarà sempre correlato all’evento del naufragio. L’isola in cui risiedono Prospero e Miranda è, infatti, abitata da un’unica persona, il deforme Calibano, figlio della strega africana Sicorace. Prospero e Calibano hanno un rapporto sempre conflittuale, che emerge già nel primo atto del dramma:

“CALIBANO: E inghiottiamoci anche questo rospo! Ma quest’isola è mia, da parte di mia madre, Sicorace, e tu me la sottrai, da usurpatore. I primi tempi della tua venuta in questi luoghi mi volevi bene, e mi tenevi grandemente in conto; m’offrivi a bere spremute di more e m’insegnavi quali nomi dare alla luce più grande e alla più piccola ch’ardono in cielo di giorno e di notte. Ed io, che pure ti volevo bene, ti mostrai le bellezze di quest’isola: le fresche polle, le pozze salmastre, le plaghe sterili e quelle feconde… Maledizione a me, perché l’ho fatto!… Ora vorrei che ti piovano addosso i malefici tutti di mia madre, e rospi, e scarafaggi, e pipistrelli! Perch’io solo son qui tutti i tuoi sudditi, io, che pur ero qui re di me stesso, e mi vedo ora da te relegato in questa ruvida balza rocciosa, tutta l’isola essendomi interdetta!

PROSPERO: Bugiardissimo schiavo, sensibile soltanto alle sferzate, mai alla gentilezza! Malgrado fossi un mucchio d’immondizia, io ti trattai con ogni umana cura, e t’alloggiai nella mia stessa grotta, finché tu non osasti di attentare all’onore di questa mia bambina.

CALIBANO: Ohò, così vi fossi riuscito (ma tu giungesti in tempo ad impedirlo), perché a quest’ora t’avrei popolato quest’isola di tanti Calibani!”170

Calibano può essere definito come una sorta di doppio perverso di Prospero: egli ha, infatti, la funzione di tentare di violare la purezza della fanciulla Miranda, rivelandosi come strumento di proiezione del desiderio incestuoso di Prospero, per effetto di uno “spostamento” che Shakespeare era solito attuare.171

168 Ivi, V, 1, p. 97.

169 A. Lombardo, Sui Naufragi in Shakespeare, in Naufragi, cit., p. 256. 170 William Shakespeare, The Tempest, I, 2, p. 28-29.

171

83