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IL NAUFRAGIO DELLA PROVVIDENZA NE I MALAVOGLIA

L’OTTOCENTO IN ITALIA E IN EUROPA 5.1 IL NAUFRAGIO OTTOCENTESCO: IL RAPPORTO UOMO

THE MAELSTRÖM

5.6 IL NAUFRAGIO DELLA PROVVIDENZA NE I MALAVOGLIA

Il romanzo I Malavoglia fu pubblicato dallo scrittore siciliano Giovanni Verga nel febbraio 1881, presso l’editore Treves. La storia narrata è ambientata ad Acitrezza, piccolo paese siciliano nei pressi di Catania, nella seconda metà del XIX secolo, e ruota tutta intorno alle vicende di un’umile famiglia di pescatori, i Toscano, chiamati però con la ‘ngiura i Malavoglia, di valore antifrastico, dato che essi, in realtà, sono dei lavoratori instancabili. Il patriarca della famiglia è Padron ‘Ntoni, vecchio vedovo che vive nella casa del nespolo insieme al figlio Bastianazzo, alla moglie Mariuzza, soprannominata Longa, e ai loro cinque figli ‘Ntoni, Luca, Mena, Alessi e la piccola Lia.

La quiete familiare viene turbata quando il maggiore dei figli, ‘Ntoni, viene chiamato per la leva militare presso l’esercito del Regno d’Italia: si tratta di un evento fondamentale per la narrazione che rappresenta l’incursione del mondo moderno in quello della Sicilia rurale e che determina le future disgrazie che colpiranno la famiglia. ‘Ntoni, infatti, lavorando come pescatore, contribuiva ad accrescere i guadagni dell’umile famiglia; dunque, a causa della sua partenza, diventa necessario per essi trovare un’attività che possa, in qualche modo, sopperire alla perdita.

Padron ‘Ntoni, dunque, credendo di fare un affare, acquista da zio Crocifisso, usuraio del paese, un carico di lupini, affinché Bastianazzo possa venderli al mercato di Riposto. Purtroppo, però, la scelta di destinare l’imbarcazione, solitamente utilizzata per la pesca, a fini commerciali non si rivela felice e la Provvidenza, con il suo grande carico di lupini, viene colta da un naufragio:

“Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di Sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.

Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di

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Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ’Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini. — Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire! — diceva stringendosi nelle spalle; — e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza.”237

L’episodio del naufragio, narrato nel III capitolo del romanzo, si apre direttamente con la descrizione del paesaggio marittimo sconvolto dalla tempesta, preannunciando quasi il dramma che sta per incombere: Verga, infatti, non racconta come sia avvenuto l’affondamento della Provvidenza, ma imposta la sua narrazione in maniera corale, concentrandosi sulle reazioni degli abitanti di Acitrezza e su quelle della famiglia Malavoglia.

Le metafore e le similitudini che lo scrittore siciliano utilizza per descrivere la tempesta hanno la funzione di far regredire l’autore allo stato di narratore popolare, in modo tale da consentirgli di porsi allo stesso livello degli abitanti di Acitrezza, la cui cultura è limitata all’esperienza paesana e a quella di una religione vissuta in maniera bigotta e primitiva. Sin dalle prime righe del capitolo emergono i due differenti registri della narrazione, uno umoristico-caricaturale e l’altro allusivo e patetico: essi rivelano, infatti, una profonda scissione dell’universo di Acitrezza, distinto tra il punto di vista cinico e sarcastico dei paesani, indifferenti alle disgrazie dei Malavoglia, e quello disperato e affranto della famiglia, legata agli affetti e ai valori. Esemplare, infatti, il comportamento dei ragazzini che si divertono a veder passare qualche barca con la vela fatta a pezzi dalla tempesta e la finale esclamazione di Padron Cipolla che esprime l’indifferenza cinica del paese e condanna profondamente il desiderio e la bramosia di mutare la propria condizione sociale, considerati come le cause scatenanti della rovina della famiglia Malavoglia.

La narrazione, infatti, continua allo stesso modo, lasciando emergere l’ottica crudele degli abitanti del paese, i quali si divertono a criticare la famiglia perché non sta andando in chiesa la domenica e continuano a fare battute spiritose alle loro spalle:

“Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli.

— Al giorno d’oggi, — disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, — nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.

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— Il fatto è, — conchiuse compare Zuppiddu, — che sarà una brutta giornata pei Malavoglia.

— Per me, — aggiunse Piedipapera, — non vorrei trovarmi nella camicia di compare Bastianazzo.

La sera scese triste e fredda; di tanto in tanto soffiava un buffo di tramontana, e faceva piovere una spruzzatina d’acqua fina e cheta: una di quelle sere in cui, quando si ha la barca al sicuro, colla pancia all’asciutto sulla sabbia, si gode a vedersi fumare la pentola dinanzi, col marmocchio fra le gambe, e sentire le ciabatte della donna per la casa, dietro le spalle.”238

Il punto di vista popolare, che l’autore utilizza per descrivere la vicenda è, in realtà, una prospettiva straniante che presenta come assurdo e strano ciò che in realtà dovrebbe essere normale: la famiglia Malavoglia, fino a questo punto della narrazione, è totalmente assente come protagonista dell’azione e viene presentata attraverso questa particolare ottica crudele e rovesciata. Continuano ad essere presenti le sentenze di Padron Cipolla che, con le parole “nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni”, colpevolizza Padron ‘Ntoni, il quale non ha saputo accettare la verità che nessuno può mutare il proprio stato, ma deve rigorosamente accettare la condizione in cui la vita lo ha posto.

È questa la grande colpa dei Malavoglia ed è il non essersi rassegnati all’umile stato di pescatori ad aver portato la Provvidenza a naufragare e a rendere i componenti della famiglia dei “vinti”. Lo stesso Verga, nella Prefazione all’opera, definisci i “vinti” come uomini “che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione […]”239

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Nell’ultima parte del capitolo, Verga sposta la sua attenzione sulla povera Maruzza, la Longa, che, rassegnata sulla spiaggia, assiste alla tempesta e al nubifragio insieme ai figli:

“Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa.”240

238 Ivi, p. 54. 239 Ivi, p. 6. 240

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Da questo momento in poi, l’ottica della narrazione cambia e l’autore pone in primo piano i membri più indifesi della famiglia, la Longa e la piccola Lia: il comportamento della vedova è assimilabile a quello di un animale ferito che non sa più dare aiuto né a se stesso né ai propri figli. Nonostante questo cambiamento di prospettiva, però, il capitolo si conclude ritornando nuovamente all’ottica negativa dei paesani che con la battuta “ Che disgrazia! E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!” si concentrano solo ed esclusivamente sulla perdita economica subita.

Il fatto che il narratore si soffermi sul “coro” popolare che commenta il dramma dei Malavoglia permette di tradurre sulla pagina il progressivo distanziamento tra l’ottica della comunità e quella della famiglia colpita dal lutto imminente: anche gli altri parenti, pur non perendo come Bastianazzo, sono coinvolti da un grave naufragio, dato che si ritrovano in una grave situazione economica e sono isolati dagli altri abitanti del paese.

Dopo aver celebrato il funerale di Bastianazzo, la Provvidenza viene ritrovata sulla spiaggia in pessime condizioni: ciò nonostante Padron ‘Ntoni desidera ripararla per utilizzarla nuovamente per la pesca:

“La Provvidenza l'avevano rimorchiata a riva tutta sconquassata, così come l'avevano trovata di là dal Capo dei Mulini, col naso fra gli scogli, e la schiena in aria. In un momento era corso sulla riva tutto il paese, uomini e donne, e padron 'Ntoni, mischiato nella folla, guardava anche lui, come gli altri curiosi. Alcuni davano pure un calcio nella pancia della Provvidenza, per far suonare com'era fessa, quasi non fosse più di nessuno, e il poveretto si sentiva quel calcio nello stomaco. […] - Questa ora è buona da ardere, conchiuse padron Fortunato Cipolla; e compare Mangiacarrubbe, il quale era pratico del mestiere, disse pure che la barca aveva dovuto sommergersi tutt'a un tratto, e senza che chi c'era dentro avesse avuto tempo di dire «Cristo, aiutami!», perché il mare aveva scopato vele, antenne, remi e ogni cosa; e non aveva lasciato un cavicchio di legno che tenesse fermo. […] - La pancia è buona, e se ne può ancora fare qualche cosa, sentenziò alfine mastro Zuppiddu il calafato, e dava anche lui dei calci coi suoi piedacci nella Provvidenza. Con quattro lapazze ve la metto in mare un'altra volta. Non sarà più una barca che potrà resistere al mare grosso, un'ondata di fianco la sfonderebbe come una botte fradicia. Ma per la pesca di scoglio, e per la buona stagione potrà servire ancora.”241

Grazie al ritrovamento della Provvidenza e al ritorno di ‘Ntoni dalla leva militare, i Malavoglia iniziano a nutrire nuove speranze e a lavorare instancabilmente per ripagare il debito allo zio Crocifisso che, se non dovesse ricevere ciò che gli spetta, potrebbe prendersi la barca e la casa del nespolo, i “possedimenti” della famiglia. Nel frattempo, Luca decide di partire per la leva militare al posto del fratello ‘Ntoni e, per

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far fronte ai problemi economici, si cerca di combinare il matrimonio tra Mena e Brasi Cipolla, figlio di padron Fortunato, che possiede barche e vigneti.

Ma, proprio mentre Mena e Brasi Cipolla stanno per sposarsi, giunge in paese la notizia che una nave italiana è affondata durante la battaglia di Lissa, svoltasi il 20 luglio 1866. La vicenda viene presentata attraverso la mediazione del punto di vista di Piedipapera che, seduto sul muretto che divide la proprietà dei Malavoglia dalla strada, vede una notevole quantità di gente che si affolla intorno a due marinai, reduci di Lissa:

“Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi zeppi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche.

— Il figlio di Maruzza la Longa ci era anche lui sul Re d’Italia, — osservò don Silvestro, il quale si era accostato per sentire.

[…] — Si chiamava il Re d’Italia, un bastimento come non ce n’erano altri, colla corazza, vuol dire come chi dicesse voi altre donne che avete il busto, e questo busto fosse di ferro, che potrebbero spararvi addosso una cannonata senza farvi nulla. È andato a fondo in un momento, e non l’abbiamo visto più, in mezzo al fumo, un fumo come se ci fossero state venti fornaci di mattone, lo sapete?”242

Con la battaglia di Lissa la storia d’Italia penetra nella vicenda dei Malavoglia: i paesani di Trezza, però, la interpretano secondo i loro chiusi e limitati parametri culturali, quasi come se si trattasse dei paladini di Francia rappresentati all’Opera dei Pupi. La battaglia, infatti, viene narrata con toni di epica popolare, dato che ad esporre l’episodio sono due soldati che non sono capaci di inquadrarlo storicamente e di capirne l’importanza all’interno del quadro nazionale. Anche i paesani riescono ad interpretare l’evento solo alla luce della loro ottica bassa e limitata che non è in grado di oltrepassare i confini di Trezza, paese che non ha nessun reale rapporto con il macrocosmo nazionale.

La notizia del naufragio della corazzata “Re d’Italia” giunge anche alla famiglia Malavoglia, impegnata nei preparativi delle nozze di Mena:

“Il giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole. Le vicine venivano colle mani sotto il grembiule a domandare se comare Maruzza ci avesse il suo Luca laggiù, e stavano a guardarla con tanto d’occhi prima d’andarsene. La povera donna cominciava a star sempre sulla porta, come ogni volta che succedeva una disgrazia, voltando la testa di qua e di là, da un capo all’altro della via, quasi aspettasse più presto del solito il suocero e i ragazzi dal mare. Le vicine le domandavano pure se Luca avesse scritto, o era molto che non riceveva lettera di

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lui. — Davvero ella non ci aveva pensato alla lettera; e tutta la notte non potè chiudere occhio, e aveva sempre la testa là, nel mare verso Trieste, dov’era successa quella ruina; e vedeva sempre suo figlio, pallido e immobile, che la guardava con certi occhioni sbarrati e lucenti, e diceva sempre di sì, come quando l’avevano mandato a fare il soldato — talchè sentiva anche lei una sete, un’arsura da non dirsi.”243

Passano i giorni e il silenzio di Luca rende evidente che sia successo qualcosa di grave. I Malavoglia, dunque, si recano alla capitaneria di porto e scoprono l’amara verità:

“Infine gli fecero la carità di dirgli che andasse dal capitano del porto, giacchè le notizie doveva saperle lui. Colà, dopo averlo rimandato per un pezzo da Erode a Pilato, si misero a sfogliare certi libracci e a cercare col dito sulla lista dei morti. Allorchè arrivarono ad un nome, la Longa che non aveva ben udito, perchè le fischiavano gli orecchi, e ascoltava bianca come quelle cartacce, sdrucciolò pian piano per terra, mezzo morta.

— Son più di quaranta giorni, — conchiuse l’impiegato, chiudendo il registro. — Fu a Lissa; che non lo sapevate ancora?”244

L’affondamento della corazzata “Re d’Italia” è un evento di grossa portata per la storia italiana; il microcosmo di Trezza, però, è unitario e autosufficiente e non si lascia sconvolgere minimamente da questo episodio, nemmeno quando si scopre che a morire è stato anche un giovane del paese. La notizia della morte di Luca, infatti, viene comunicata alla famiglia in maniera fredda ed indifferente, continuando ad esaltare quell’ottica crudele, propria del paese, che era emersa anche nell’episodio del naufragio della Provvidenza e della morte di Bastianazzo.

Per Verga, inoltre, la “storia” e la “fiumana del progresso” sono due realtà simili: entrambe sono fatali ed estranee ai suoi personaggi dato che si svolgono secondo un meccanismo oggettivo, che trascende in maniera inesorabile l’agire dei singoli e che rientra a far parte di un meccanismo spietato che l’uomo non può controllare né dirigere, ma deve solamente accettare.

Anche questo naufragio, come il precedente, ha una serie di ripercussioni negative per la famiglia Malavoglia: precipitati in disgrazia, essi perdono definitivamente la casa del nespolo e devono ritirarsi a vivere in affitto nella casupola di un beccaio. Per questo motivo, Padron Cipolla rompe il fidanzamento di Mena col figlio Brisa e anche ‘Ntoni, innamorato della giovane Barbara Zuppidda, che era intenzionato a sposare, perde le sue simpatie.

243 Ivi, pp. 157-158. 244

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Pur essendo caduto in povertà e avendo perso la casa del nespolo, Padron ‘Ntoni non si rassegna e, dopo aver riparato la Provvidenza, continua ad avventurarsi in mare con essa, desideroso di accrescere i suoi guadagni e di saldare il debito con zio Crocifisso:

“La Provvidenza si avventurava spesso al largo, così vecchia e rattoppata com’era, per amore di quel po’ di pesca, ora che nel paese c’erano tante barche che spazzavano il mare colla scopa. Anche in quei giorni in cui le nuvole erano basse, verso Agnone, e l’orizzonte tutto irto di punte nere al levante, si vedeva sempre la vela della Provvidenza come un fazzoletto da naso, lontano, lontano nel mare color di piombo, e ognuno diceva che quelli di padron ’Ntoni andavano a cercarsi i guai col candeliere.

Padron ’Ntoni rispondeva che andava a cercarsi il pane, e quando i sugheri scomparivano ad uno ad uno, nel mare largo che era verde come l’erba, e le casucce di Trezza sembravano una macchia bianca, tanto erano lontane, e intorno a loro non c’era che acqua, si metteva a chiacchierare coi nipoti dalla contentezza, che poi alla sera la Longa e tutti gli altri li avrebbero aspettati sulla riva, quando vedevano la vela far capolino tra i Fariglioni, e sarebbero stati a guardare anche loro la pesca che saltellava nelle nasse e riempiva il fondo della barca come fosse d’argento; e padron ’Ntoni soleva rispondere prima che nessuno avesse aperto bocca — Un quintale, o un quintale e venticinque — che non si sarebbe sbagliato di un rotolo.”245

Quando il tempo è cattivo, però, la Provvidenza non è più in grado di affrontare le grandi onde del mare, ma Padron ‘Ntoni non esita ad avventurarsi ugualmente a largo, nonostante la sua imbarcazione sia ormai adatta solo alla pesca da scoglio. Lui e i suoi nipoti, infatti, si ritrovano più volte a rimetterci quasi la pelle, a causa della loro costante bramosia di guadagno. Un giorno in particolare, la tempesta che li colpisce si rivela essere davvero molto forte:

“Si udiva il vento sibilare nella vela della Provvidenza e la fune che suonava come una corda di chitarra. All’improvviso il vento si mise a fischiare al pari della macchina della ferrovia, quando esce dal buco del monte, sopra Trezza, e arrivò un’ondata che non si era vista da dove fosse venuta, la quale fece scricchiolare la Provvidenza come un sacco di noci, e la buttò in aria.

— Giù la vela! giù la vela! — gridò padron ’Ntoni. — Taglia! taglia subito!

’Ntoni, col coltello fra i denti, s’era abbrancato come un gatto all’antenna, e ritto sulla sponda per far di contrappeso, si lasciò spenzolare sul mare che gli urlava sotto e se lo voleva mangiare.

— Tienti forte! tienti forte! — gli gridava il nonno in quel fracasso delle onde che