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Pietro Gambacorta "signore" di Pisa. Con l'edizione dello strumento di elezione (ASPi, Comune A, 148, cc. 148, 149).

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INDICE

INTRODUZIONE p. 3

1. SITUAZIONE GENERALE DEL COMUNE DI PISA PRIMA DELLA SALITA AL POTERE DI PIETRO GAMBACORTA p. 12

2. COSA SI INTENDE PER COMUNE “SIGNORILE”.

IL CASO PISANO. p. 36

3. PIETRO GAMBACORTA: DALL’ESILIO ALLA SIGNORIA p. 41

3.1 I Gambacorta: dalla presa del potere all’esilio p. 41 3.2 Il Dogato di Giovanni Dell’Agnello p. 46 3.3 Il rientro di Pietro Gambacorta a Pisa nel 1369 e la situazione generale in cui versava il Comune pisano p. 54

3.4 23 settembre 1370: elezione di Pietro Gambacorta a signore di Pisa. Il ruolo delle magistrature comunali nell’elezione e il suo significato

politico p. 68

4. IL COMUNE SIGNORILE DI PIETRO GAMBACORTA E LA GESTIONE DEL POTERE p. 77

4.1 La situazione interna al nuovo governo e il rapporto con le istituzioni p. 77 4.1.1 La riforma del 1370. L’abolizione del Consiglio generale e la

creazione dei Consigli dei Savi: i Quaranta ed i Settanta p. 80 4.1.2 L’azione di Pietro Gambacorta sull’Anzianato p. 84 4.1.3 Pietro Gambacorta: un regolare pubblico magistrato? p. 87 4.1.4 L’Esecutore di custodia p. 94

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4.2 Il rapporto con la “civitas” p. 100 4.2.1 Le riforme finanziarie p. 101 4.2.2 Le opere edilizie p. 110 4.2.3 La ricerca del consenso. Due esempi: Il ciclo pittorico di San Ranieri e la promozione della cultura p. 119 4.3 Il rapporto col contado p. 131

5. MORTE DI PIETRO GAMBACORTA E CADUTA DEL SUO

GOVERNO p. 138

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE p. 144

APPENDICE: Documento Comune A, Reg.148, carta 148 p. 149

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INTRODUZIONE

Lo scopo del presente lavoro è quello di portare in evidenza i caratteri fondamentali di una delle più importanti esperienze signorili svoltasi durante il XIV secolo a Pisa: il governo di Pietro Gambacorta, nominato Signore di Pisa nell’anno 1370 e rimasto in carica fino al 1392.

Si tratta di uno dei numerosi episodi di assunzione di potere personale sperimentati a Pisa nel corso dei secoli XIII e XIV, fino alla conquista della città da parte di Firenze nell’ottobre 1406.

Si erano già alternate infatti altre esperienze di gestione personale del potere: il primo caso risale agli anni 1287 e 1288 con Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, nominati Podestà e Capitani del Popolo; dal 1289 al 1293 governò poi Guido da Montefeltro con le medesime cariche e l’aggiunta della carica di Capitano di Guerra e venti anni più tardi fu la volta di Uguccione della Faggiola che riuscì anch’egli a riunire tali cariche nella sua persona. Dal 1316 si susseguirono i governi signorili dei membri della famiglia Donoratico: Gherardo, Fazio, Ranieri e Ranieri Novello. Nel 1355 Carlo IV di Boemia si dichiarò Signore diretto di Pisa e successivamente l’esperienza di Giovanni Dell’Agnello come Doge di Pisa durò per quattro anni (1364 – 1368) nel periodo immediatamente precedente alla Signoria di Pietro Gambacorta. Quest’ultimo esercitò il suo potere per più di venti anni: fu eletto infatti nel 1370 e rimase al potere fino al 1392. In seguito Iacopo d’Appiano e il figlio Vanni ressero il governo di Pisa fino al 1399, anno in cui la città venne poi acquistata da Gian Galeazzo Visconti. Nel 1405, anno che segnò la fine del dominio visconteo su Pisa, ci fu una breve parentesi signorile di Giovanni Gambacorta e poi la conquista da parte dei fiorentini nell’ottobre 14061.

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GIOVANNI CICCAGLIONI, “Un comune signorile. La politica attraverso le istituizioni a Pisa nella

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L’analisi del periodo signorile di Pietro Gambacorta si riferisce quindi solo a una piccola parte della lunga stagione di esperienze signorili a Pisa che, come si è visto, ha inizi nella seconda metà del XIII secolo per concludersi due secoli dopo con la conquista da parte di Firenze.

Un importante chiarimento va immediatamente fatto in riferimento all’utilizzo dell’espressione “comune signorile”: di per sé essa potrebbe infatti apparire come una contraddizione, un errato utilizzo di termini in antitesi tra di loro. Pur esulando dall’argomento trattato la formulazione esatta ed esauriente dei termini “Comune” e “Signoria”, ne indicheremo almeno i tratti generali, utili alla spiegazione dell’antinomia. Entrambi i termini inquadrano fenomeni complessi ed estesi diacronicamente: si riferiscono a due forme istituzionali con caratteri differenti e diversificati sia a seconda della zona all’interno nella quale fecero la loro comparsa, sia perchè furono provocati da cause relative e contingenti alla situazione politica, economica e sociale nella quale si presentarono. In linea generale il termine “Comune” definisce delle tendenze politico-governative inquadrabili nella libera associazione volontaria di cittadini che, legandosi con giuramento di fedeltá si impegnavano a garantire il governo e l’ordine della cittá. Il Comune ha come caratteristiche generali anche il rifiuto dell’ordine feudale e la nascita della borghesia, nuova classe che giunse ben presto a dividere il governo della cittá con l’aristocrazia. Col termine “Signoria” si indica generalmente uno sviluppo piú tardo dell’istituzione comunale. Quando quest’ultima iniziò a collassare a causa delle rivalità familiari, economiche e politiche, i rappresentati stessi dei Comuni ricercarono forme governative nuove rivolgendosi prima a personaggi esterni al Comune stesso e affidando loro il governo dell’urbs per periodi limitati nel tempo (Podestá – Capitani del Popolo). In seguito, sia perchè c’era la necessità di una politica più incisiva, o perchè si presentava la necessità di un potere più stabile e definito, cominciarono a prevalere e ad affermarsi

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alcune famiglie cittadine con i propri aggregati consortili piú potenti. Altre volte riuiscirono ad affermarsi come signori cittadini anche condottieri o cittadini appartenenti ad altri ambiti sociali e familiari. Colui che veniva nominato Signore riceva dal Papa o dell’Imperatore a lui contemporaneo la validazione della propria carica, il riconoscimento del proprio potere. Se il Comune era caratterizzato quindi dalla presenza di magistrature rappresentative e collegiali, le quali garantivano il “governo dei molti”, sembra asincronico accostare questo termine all’istituzione della Signoria, che di fatto inquadrava il governo di uno solo.

Osservando però con piú attenzione il panorama politico pisano si nota invece come il riferimento al termine “signorile” associato alla parla “Comune sia collegabile al sorgere di magistrature nuove nel corso di questi secoli, le quali mostrano effettivamente caratteri di tipo signorile. Non risulta quindi un errore storiografico l’accostamento di questi due termini nell’ espressione “Comune signorile”.

Un altro errore storiografico sarebbe quello di paragonare il “Comune signorile” pisano con i comuni signorili di altre zone di Italia (prima tra tutte l’area della Lombardia), i quali diedero effettivamente vita a vere e proprie Signorie come normalmente vengono intese nel senso generale sopra esplicato. La differenziazione tra Comune signorile pisano e le altre esperienze signorili italiane verrá trattata piú avanti nel corso del presente lavoro. Per questo motivo è fondamentale focalizzare il nostro interesse sul significato che il termine “signorile” assume solo limitatamente all’interno delle istituzioni pisane: l’attenzione è centrata su come si colloca la situazione pisana in questo contesto, evitando interpretazioni storiografiche errate.

La figura di Pietro Gambacorta è già stata largamente trattata da eminenti studiosi, dei quali sono stati consultati gli importanti e circostanziati contibuti per sviluppare questo studio.

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Il lavoro che si vuole affrontare in questa breve ricerca vuole peró analizzare il personaggio di Pietro Gambacorta da un punto di vista diverso da quelli già affrontati, cercando di mettere in luce “come” egli sia riuscito a prendere il potere nel Comune di Pisa e in quali modi poi lo abbia poi gestito in riferimento al rapporto con le istituzioni comunali e con la “civitas”.

Poiché l’investigazione storica ha come base l’analisi degli atti documentali reperibili negli archivi, questa mia ricerca ha avuto inizio dallo studio delle fonti rintracciabili nell’Archivio di Stato di Pisa riguardanti la tematica in questione. È emerso subito che uno dei principali problemi per chi voglia addentrarsi nell’analisi del periodo basso medievale pisano, è la sostanziale scarsezza di documentazione attinente al periodo signorile. Come ha già fatto notare Giovanni Ciccaglioni2, il materiale a nostra disposizione costituisce solo una minima parte della documentazione emanata nel corso del XIV secolo dalle autorità comunali in quanto gran parte del materiale andò perduto nel corso dei secoli a causa di saccheggi, incendi e distruzioni più o meno volontarie, le stesse cause che hanno contribuito spesso alla perdita di gran parte del nostro patrimonio storico. Esse però non sono state le sole colpevoli di queste perdite, già che almeno in questo caso, la sostanziale assenza di documentazione signorile va attribuita al peculiare sviluppo politico-istituzionale che conobbe la città di Pisa in quel determinato periodo. Difatti le esperienze signorili pisane ebbero la particolare caratteristica di operare al fianco delle magistrature comunal-popolari, collaborando e non ponendosi al di sopra di esse. Per Comune “signorile” si intende infatti un tipo di governo esercitato effettivamente dal Signore e dalla sua famiglia in cui però le magistrature continuavano ad essere quelle del Comune di Popolo: il potere era in mano al Signore ma all’apparenza le magistrature erano sempre quelle comunali. Per questo motivo il Signore non aveva una sua vera e

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G. CICCAGLIONI, “Note sui rapporti tra i signori pisani e il patrimonio culturale cittadino nel Trecento”, in municipalia.sns.it.

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propria cancelleria e gli atti emanati continuavano ad essere quelli del Comune di Popolo, anche se, realmente erano controllati dalla volontà del Signore. Proprio per questo motivo la documentazione in archivio inerente il periodo in questione risulta essere scarsa: di fatto non ci sono veri e proprio documenti “signorili” proprio perché il Signore esercitava il suo potere “dietro” alle magistrature comunal-popolari. Vediamo cosí come tali istituzioni signorili finirono per influenzare il panorama documentario cittadino che rispecchiava la situazione contemporanea e, allo stesso tempo, tali istituzioni ne risultarono influenzate esse stesse.

Tra la documentazione disponibile, in parte già largamente studiata da Pietro Silva, il presente lavoro si concentra e svolge l’analisi del documento, conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa, sezione Comune A, Reg. 148, carta 148, dove è contenuta la delibera di elezione di Pietro Gambacorta a signore di Pisa, da parte del Consiglio maggiore e minore degli Anziani, datata 23 settembre 1370. (Riportato in appendice).

Fondamentali per portare avanti questo studio sono stati i contributi storiografici precedenti. Lo studio dell’eminente storico Pietro Silva3, datato 1911, si presenta, ad oggi, come la più sviluppata e approfondita analisi dell’esperienza di governo signorile di Pietro Gambacorta. Lo studioso è riuscito infatti ad inquadrare il contesto generale nel quale si sono svolti i fatti che hanno permesso a Pietro Gambacorta di passare da esiliato politico nella vicina Firenze fino all’anno 1369, a signore di Pisa solamente nell’anno successivo. I passaggi fondamentali di tale processo sono evidenziati dallo storico con estrema chiarezza, con attenzione tanto verso la situazione interna alla politica del Comune pisano, quanto ai rapporti coi governi esteri.

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P. SILVA, “Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa – e le sue relazioni col resto della Toscana e coi

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Non potrebbe però il lavoro del Silva essere pienamente compreso senza il contributo di un altro eminente studioso, Marco Tangheroni4 e del suo testo “Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento”, datato 1973 nella sua prima edizione. Ricerca fondamentale per una corretta comprensione della situazione pisana durante questo secolo, essa è stata un punto di riferimento anche per questo lavoro. In particolar modo ha permesso di mettere in evidenza alcune obbiezioni fondamentali al lavoro di Pietro Silva, per quanto riguarda soprattutto la composizione del ceto dirigente a Pisa. La tesi del Silva segue di fatto le linee principali delle idee portate avanti da Gioacchino Volpe, basate sulla convinzione che esistessero in Pisa due tendenze opposte, una favorevole e una contraria allo stabilirsi di buoni rapporti con Firenze, sia nel campo politico che in quello commerciale: la prima sostenuta dal cosiddetto partito Bergolino, composto prevalentemente da armatori e mercanti, e l’altra dall’opposto partito dei Raspanti, al cui comando si ponevano gli industriali. Il lavoro del Tangheroni apre di fatto una nuova prospettiva su questa tematica, dimostrando quanto tale opposizione tra industriali e mercanti altro non sia che un falso problema. Tale tematica verrà maggiormente sviluppata nel corso del capitolo 1 di questo lavoro.

La già citata tesi di dottorato di Giovanni Ciccaglioni5 è stata un contributo fondamentale in quanto, pur concentrandosi sullo studio dell’esperienza signorile della famiglia Donoratico, ha contribuito a fornire un inquadramento generale sulla situazione politica - istituzionale del XIV secolo e ha permesso eventuali utili paragoni tra il dominio signorile di questa famiglia e quello dei Gambacorta. Altro contributo utile di Giovanni Ciccaglioni è stato il già citato intervento6 sui rapporti tra i signori pisani e il patrimonio culturale cittadino a Pisa nel Trecento, in quanto ha permesso

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M. TANGHERONI, “Politica, commercio, agricultura a Pisa nel Trecento”. Pisa, (1973,2002).

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G. CICCAGLIONI, “Un comune signorile. La politica attraverso le istituzioni a Pisa nella prima metà del

XIV secolo.” Tesi di dottorato. Pisa, (2005).

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chiarimenti su come l’uso di determinati elementi architettonici, artistici, urbanistici, permise a un soggetto politico – i signori pisani – di ancorarsi alla societá cittadina e di assumere una determinata fisionomia istituzionale, riconoscibile e accettabile dagli abitanti.

Altro utile apporto a questo lavoro è stato uno studio di Cecilia Iannella presentato durante un suo intervento al convegno di Volterra7 dell’ottobre 2011. Esso ha dato efficaci chiarimenti sulle diverse esperienze signorili dei Donoratico della Gherardesca, di Giovanni dell’Agnello e di Pietro Gambacorta, permettendo soprattutto di mettere in evidenza i caratteri distintivi di ognuna di esse e chiarificando poi gli elementi ad esse comuni o contrapposti. In particolar modo è stato utile il paragone tra la signoria dei Donoratico e quella di Pietro Gambacorta che, pur con le loro differenze interne, presentano elementi comuni. In particolar modo ci si riferisce a tutti quelle caratteristiche che sottolineano il forte condizionamento “popolare” che queste due signorie subirono.

Uno studio che voglia affrontare l’analisi delle caratteristiche fondamentali di una della maggiori esperienze signorili pisane, inquadrandola sullo sfondo delle questioni politiche e istituzionali che movimentarono tutto il Trecento, non puó certo tralasciare l’analisi poi della documentazione cronistica.

Per questo lavoro sono state consultate tre Croniche: la Cronica di Pisa di anonimo autore, la Cronaca di Ranieri Sardo e la Cronica di Lucca del Sercambi.

In particolar modo la prima è stata recentemente oggetto di una nuova edizione curata da Cecilia Iannella8, che ha permesso di correggere la trascrizione dell’Anonimo e ha fornito nuove e aggiornate indicazioni sulla

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C. IANNELLA, “Le diverse esperienze “signorili” a Pisa nel Trecento. I Donoratico della Gherardesca,

Giovanni dell’Agnello, Pietro Gambacorta”, in “Esperienze di potere personale e signorile nelle città toscane (secoli XIII - XV)”, a cura di A. ZORZI, Firenze University Press, in corso di stampa.

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C. IANNELLA, edizione e commento a cura di, “Cronica di Pisa – Dal ms. Roncioni 338 dell’Archivio di

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natura della fonte stessa. Utilissimo è stato anche lo studio, sempre della stessa Cecilia Iannella9, sul lessico politico utilizzato all’interno di questa fonte. Osservando il significato di specifiche espressioni lessicali e dei molteplici concetti a cui esse rimandano, l’analisi della studiosa ha avuto l’intento di ricostruire le modalità con cui il messaggio viene prodotto dal cronista. Il suo lavoro ha messo in evidenza la presenza all’interno del testo di un sentimento profondamente cittadino o, per meglio dire, pisano. La Cronica riesce in tal senso a rispecchiare il sentimento di appartenza alla comunitas dei cittadini dando così voce alla città nella sua totalità: sembra cioè che la voce dell’Anonimo altro non sia che la voce dell’urbs tutta. Per questo motivo la Cronica di Pisa è una fonte assolutamente fondamentale per l’analisi della Pisa trecentesca.

Ulteriore utile apporto a questo lavoro è stata la tesi di dottorato della studiosa pisana Alma Poloni, dal titolo “Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220 – 1330)”10. In questo approfondito lavoro che ha appunto come oggetto l’analisi del Comune pisano durante tutto il XII secolo e in quel delicato momento di passaggio tra quest’ultimo e il secolo seguente, la storica si è preoccupata di evidenziare i processi di cambiamento politico che portarono alla costituzione di un nuovo ceto dirigente alla testa del Comune. Se all’inizio del Duecento la città di Pisa era infatti governata da un’élite aristocratica di stampo consolare - podestarile, risulterà invece del tutto modificata la situazione a fine secolo quando, alla testa del governo, si troverà un nuovo ceto dirigente, non avente più alcun tipo di legame di sangue col ceto aristocratico precedente e legato adesso soprattutto alla nuova figura del mercante -banchiere. Alma Poloni si è occupata di mettere in evidenza i

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C. IANNELLA, Note sul lessico político di una cronaca pisana trecentesca, Bollettino Storico Pisano (2005), pp. 273 – 281.

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A. POLONI, “Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il

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passaggi fondamentali che hanno prodotto questo mutamento, osservando il ricambio politico avvenuto molto rapidamente nel giro di pochi anni che portò un gruppo di persone, fino ad allora escluse dai vertici governativi, non solo ad entrare a tutti gli effetti nella vita politica cittadina, ma anche a spodestare letteralmente la vecchia classe di governo. È stata dunque questa una lettura fondamentale per la comprensione corretta dei mutamenti politici ed istituzionali avvenuti all’interno del Comune durante tutto il XIII secolo, soprattutto perché ha portato alla ribalta nuove e più aggiornate prospettive abbandonando tesi ormai superate come quelle di Gioacchino Volpe ed Emilio Cristiani.11

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1. SITUAZIONE GENERALE DEL COMUNE DI PISA PRIMA DELLA SALITA AL POTERE DI PIETRO GAMBACORTA

La situazione politica antecedente l’assunzione della signoria da parte di Pietro Gambacorta è stata già analizzata dal sopra citato studio di Pietro Silva12 basato sull’intento di dimostrare come il periodo di governo di Pietro Gambacorta in Pisa rappresentasse di fatto l’ultimo tentativo di una politica intenta a mantenere rapporti di collaborazione con Firenze.

Lo storico effettivamente pone come tema centrale del suo studio il rapporto tra Pisa e Firenze e la sua evoluzione durante il XIV secolo e, più specificatamente, durante il periodo gambacortiano. Di fatto la signoria di Pietro Gambacorta rappresentava, secondo lo studioso, il punto massimo di questa tendenza “fiorentinizzante” .

Firenze aveva, secondo questa teoria, un bisogno estremo di Pisa e, particolarmente, di Porto Pisano: quest’ultimo difatti le permetteva un facile e comodo sbocco sul mare, rapidamente raggiungibile navigando il fiume Arno. Un grande centro commerciale e industriale quale era il comune di Firenze in quel periodo, non poteva certo rinunciare ad aprirsi una via di comunicazione col mare dal quale giungevano e ripartivano le principali merci: le lane inglesi e scozzesi che giungevano come materia prima per essere poi lavorate dagli artigiani fiorentini e poi rispedite verso i grandi mercati europei. Tramite il Porto Pisano inoltre potevano giungere a Firenze grandi quantità di grano, provenienti soprattutto dalla Sicilia e da Napoli, indispensabili per Firenze e i territori sotto il suo dominio, giacchè nella zona del contado fiorentino la produzione di questa coltivazione era assai scarsa.

Appare chiaro quindi come Firenze fosse la prima interessata a mantenere buoni rapporti con Pisa per poter avere libero accesso al suo porto: già nel 1171 fu firmato un trattato che permetteva il libero transito delle merci

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fiorentine nel Porto Pisano. È facile quindi capire come anche gli armatori e possessori di navi in Pisa fossero interessati a mantenere buoni rapporti con Firenze poichè traevano buoni guadagni dal trasportare per i fiorentini le materie prime di cui necessitavano e i loro manufatti da reinserire nei circuiti commerciali. D’altra parte però si presentava in Pisa anche una tendenza opposta: i produttori e gli industriali pisani vedevano negativamente il passaggio delle merci fiorentine per Porto Pisano che erano viste come concorrenza e minaccia alla loro attività industriale. La situazione del Comune di Pisa in quel periodo appariva quindi agitata da queste due tendenze opposte rispetto alle relazioni da tenere con Firenze.

Dopo il trattato del 1171, durante tutto il XIII secolo non si evidenziano relazioni particolarmente amichevoli tra le due città, anzi, Pisa si dimostrò quasi ostile verso le tendenze espansionistiche di Firenze. Di fatto durante tutto questo secolo il Comune pisano godette di un ottimo periodo di sviluppo e crescita sia della produzione che dei commerci. In particolare riuscì a fondare numorose colonie in Africa settentrionale ed in Oriente e basò gran parte della sua politica espansionistica sul mantenimento di buone relazioni commerciali con queste zone. Di fatto, fino a per lo meno la metà del Duecento, Pisa non ebbe bisogno dei guadagni provenienti dal trasporto di merci fiorentine, in quanto le sue aspettative economiche erano pienamente soddisfatte da tali commerci e la città risultava quindi indipendente ceconomicamente. I primi problemi si presentarono quando, a metà secolo, Pisa cominciò a entrare in crisi economica e politica determinata dall’espandersi dell’influenza di Firenze. Infatti in questo momento i prodotti fiorentini cominciarono ad imporsi sui mercati, dimostrando la loro superiorità in fatto di qualità e Pisa dovette quindi lottare molto più arditamente contro la concorrenza. Nello stesso momento nasceva la necessità di opporsi alla potenza rivale di Genova, in piena politica espansionistica nel Mediterraneo. Il culmine della crisi si verificò nel 1284, anno molto negativo per Pisa, giacchè

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la sconfitta della Meloria portò alla perdita quasi totale della flotta cittadina e di conseguenza tutta la città subì un contraccolpo generale che andò a colpire tutta l’economia e l’espansione commerciale del comune. Pisa rimase in pratica del tutto priva di una flotta da guerra e i mercanti e armatori cittadini, non più da questa sostenuti, dovettero rinunciare al movimento espansionistico verso le colonie. Con la concorrenza fiorentina e genovese sempre più pressante e non più impiegati nel movimento coloniale, molti uomini e capitali rimasero inoperosi e si indirizzarono quindi alla ricerca di nuove forme di impiego e di guadagno. Resa ormai impossibile l’espansione via mare, dove le galere genovesi dominavano le rotte mediterranee, i pisani intrapresero nuove vie di commercio, rivolte agli scambi con le città guelfe all’interno della Toscana e specialmente con Firenze. Fu in questo momento che nella storicamente ghibellina Pisa, cominciò a presentarsi il movimento fiorentineggiante che, dapprima incerto e debole, si trasformò poi in un schieramento deciso.

Non si pensi però che tale mutamento d’indirizzo sia stato causato solo ed esclusivamente dalla sconfitta della Meloria e dalla sue conseguenze appena analizzate. Altri avvenimenti contribuirono a portare Pisa verso questa nuova politica:

prima di tutto in quegli stessi anni il comune pisano assistette a un rinnovamento demografico dovuto a una grande immigrazione dal contado di molti homines novi che, non avendo nessun legame con la tradizione anti-fiorentina formatasi in tempi precedenti alla loro venuta, non erano contrari a mantenere relazioni positive con Firenze. In secondo luogo l’Impero, che cominciava a decadere, fu la causa dell’indebolimento dello spirito ghibellino di Pisa che aveva anni addietro animato la lotta contro Firenze, portando così al declino di molte consorterie e potenti famiglie pisane di antica tradizione ghibellina. Inoltre la perdita della Sardegna avvenuta nel 1324-1326 ad opera

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degli Aragonesi, chiuse definitivamente il ciclo dell’attività coloniale pisana, causando la decadenza delle compagnie mercantili della città.

Come osservato dal Volpe13 si può parlare per la situazione pisana di questo periodo, di una “politica di adattamenti e transizioni”, dove la città si trovò ad abbandonare le precedenti vie di guadagno per cercarne di nuove altrove, riducendo in maniera sostanziale il commercio marittimo e rivolgendosi maggiormente alla terraferma e portando avanti una politica di relazioni più amichevoli con la Toscana tutta e con Firenze in particolare.

Il primo a sostenere questa politica estera favorevole a Firenze fu il conte Ugolino della Gherardesca (1284 – 1289) che raggiunse accordi con l’antica rivale attraverso lunghe e difficili trattative. Ma questa non fu una svolta definitiva dato che con Uguccione della Faggiola (1313 – 1316) si ebbe un provvisorio ritorno al tradizionale spirito ghibellino pisano: egli condusse contro Firenze una guerra fortunata e piena di vittorie che da una parte portò all’indebolimento del Porto Pisano, abbandonato dai fiorentini che si spostarono verso Talamone, dall’altra alla regressione delle industrie e della attività cittadine che per lo sviluppo dei loro traffici avevano invece bisogno di pace e non di lotte. Per questo motivo le vittorie di Uguccione non bastarono a tenere in vita il suo potere e presto una rivolta di mercanti, armatori e produttori, rovesciò la sua signoria ristabilendo buone relazioni con Firenze. Queste ultime verranno poi messe a rischio dalla venuta a Pisa dell’imperatore Ludovico il Bavaro nel 1327 : in questa occasione Pisa, dalle ormai passate tradizioni imperiali, dimostrò di non essere per niente entusiasta della venuta dell’imperatore, tanto chè quest’ultimo potè entrare in città soltanto dopo un vero e proprio assedio, in cui i pisani furono aiutati nella difesa della città dagli stessi fiorentini. Si legge così nella Cronaca di Pisa “Nel ditto anno adinpiuto Castruccio e dimouti mallvaggi pisani, lo ditto Lodovico vietato

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VOLPE, “Pisa, Firenze, Impero al principio del Trecento e gli inizi della Signoria civile in Pisa, in "Studi Storici", XI

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venne a Pisa a dì sei di settenbre, e prese li ambasciatori che lli funno mandati da Pisa, e asediò Pisa da ogni lato d’intorno, e tteneli trentaquatro, 34, dì asediata. E a dì XJ, undici, d’ottobre entròe in Pisa a patti, e male li oservòe e cavòe più di settecento migliaia, 700000, di fiorini tra più volte di Pisa.”14

Il Comune pisano temeva probabilmente che Ludovico il Bavaro mettesse a rischio i buoni rapporti con Firenze ed effettivamente questo timore si concretizzò quando l’Imperatore sottopose Pisa alla signoria di Castruccio Castracani, irriducibile avversario dei Fiorentini. Dopo una serie di lotte e una guerra che portò alla rottura dei rapporti tra le due città e alla devastazione delle campagne, morto Castruccio nel 1330, i Pisani desiderosi ormai di pace, cacciarono il vicario imperiale e si preoccuparono solamente di concludere un accordo di pacificazione con Firenze, alla quale concessero agevolazioni e franchigie ancor più ampie rispetto all’accordo del 1317.

Cacciato il vicario imperiale, la famiglia della Gherardesca ebbe di nuovo il governo, anche se di fatto la gestione del potere era esercitata dal ceto mercantile. Si stava attuando infatti un momento di mutamento, in cui si determinava il passaggio di potere da una classe all’altra: le forme di governo antiche continuavano a permanere però soltanto a livello esteriore, in realtà si stava modificando la loro sostanza e stava avvenendo a tutti gli effetti un cambiamento al loro interno. La nobiltà pisana, ormai abbattuta e impoverita, non aveva più la forza di controbattere di fronte alla crescita del ceto mercantile. Si andavano così dissolvendo gli antichi partiti e perdendo in questo modo l’esatto significato delle antiche denominazioni: i Gherardesca, tradizionalmente guelfi, si dichiarano invece ghibellini, cacciando dalla città coloro che venivano da loro sospettati di guelfismo. Il comune pisano affrontava quindi al suo interno un modificarsi continuo di tendenze, un disfacimento dei vecchi partiti a favore della creazione di nuovi, nei quali

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cercavano di inserirsi le ultime forze in gioco. Si trattava di un periodo di rinnovamento e di faticosa elaborazione, che si concluderà con lo schieramento di due nuovi partiti definiti con nomi nuovi: il partito dei Bergolini, guidato dalla famiglia Gambacorta e dalla famiglia Alliata, il cui nucleo centrale era costituito da armatori e mercanti di mare favorevoli ai buoni rapporti con Firenze; e il partito dei Raspanti, capitanati dalla famiglia Della Rocca, portavoce di quanti erano stati danneggiati dallo sviluppo delle industrie di Firenze ed inclini all’adozione di un sistema protezionistico che almeno limitasse la penetrazione delle merci fiorentine in Porto Pisano e in Pisa stessa. In particolar modo erano stati danneggiati i rappresentanti di quella che era probabilmente l’industria pisana più importante in quel periodo, l’industria della lana. I lanaioli avevano notevolmente risentito dello sviluppo avvenuto nell’industria della lana fiorentina, ed era quindi naturale che si creasse una concorrenza molto accanita tra le due città e una politica volta al protezionismo da parte dei lanaioli pisani.

Gli avvenimenti fino ad ora ricordati riguardanti la situazione generale del comune di Pisa, prima della salita al potere di Pietro Gambacorta, rispecchiano la tesi di Gioacchino Volpe, poi seguita ed approfondita dagli studi dello storico Pietro Silva. Per approfondire e meglio comprendere il periodo in questione, è utile prenderlo in esame anche da un altro punto di vista, quello del già citato storico, più recente, Marco Tangheroni che nel suo precedentemente menzionato studio “Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel Trecento”15 si è occupato di sviluppare importanti e forti obiezioni alla tesi volpiana.

Come abbiamo visto, secondo tale tesi, il delinearsi dei due opposti partiti pisani, nasceva dal bisogno che Firenze aveva di Porto Pisano, unico naturale sbocco del fiume Arno, dato che Talamone e Motrone potevano essere solo secondarie soluzioni a cui riferirsi in momenti di emergenza.

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Secondo Tangheroni è opportuno riconsiderare tale tesi dalla prospettiva dei fiorentini. Pare infatti che l’utilizzo di Porto Pisano non fosse per Firenze così strettamente necessario come sostenuto dal Volpe: molte aziende commerciali fiorentine erano cresciute a tal punto da poter permettere alla città di usufruire dei porti più lontani di Talamone o di Motrone o addirittura dei porti adriatici, sostenendo senza difficoltà i costi maggiorati derivanti da questi spostamenti. Porto Pisano non era effettivamente l’unica alternativa praticabile almeno fino all’inizio del XV secolo. A partire da allora fu infatti la politica espansionistica di Gian Galeazzo Visconti a togliere ai fiorentini l’utilizzo del porto di Talamone causando loro disagi. Proprio in quel periodo un cronista fiorentino sottolineava l’importanza di Porto Pisano, definendo Pisa “bocca di Toscana”16. Ma è certo quindi che Porto Pisano non era per i fiorentini così indispensabile come fino agli inizi del Quattrocento.

Tangheroni si domanda poi quanto abbiano effettivamente influito sul commercio dei panni fiorentini le gabelle protezionistiche disposte dal partito raspante e non tarda a dimostrare quanto il loro effetto sia stato minimo: il protezionismo esercitato dai Raspanti era limitato e non ebbe conseguenze di gran peso. Secondo Tangheroni più che il problema della concorrenza dei panni di lana, la posizione fortemente anti-fiorentina del partito raspante va ricollegata alla generale tendenza di molte città italiane di costituirsi una solida base territoriale: questa era in quel periodo la causa maggiore dei conflitti tra i Comuni toscani. Non si può comunque negare il protezionismo nei confronti delle merci fiorentine, però sembra addirittura difficile confermare che ci fosse una effettiva concorrenza tra i panni fiorentini e quelli pisani.

Vari studi hanno infatti dimostrato la netta superiorità dei panni fiorentini, di qualità notevolmente migliore rispetto a quelli pisani: pare infatti che Firenze

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G. DATI, Istoria di Firenze, pag.84 in M. TANGHERONI, Politica,commercio, agricoltura a Pisa nel

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si stesse orientando verso la produzione di panni di buona o di eccellente qualità, mentre a Pisa i panni erano solitamente di qualità sufficiente o scadente. È evidente quindi come la produzione industriale delle due città rispondesse a due diversi tipi di domanda e quindi non era effettivamente possibile che ci fosse una reale concorrenza. Per questo motivo andrebbe, secondo il Tangheroni, riesaminata la storia dell’industria della lana in Pisa e dei provvedimenti presi in materia dal governo cittadino. In particolar modo, prendendo in considerazione gli ordinamenti del 1335, elaborati da una commissione di savi si nota come essi abbiano effettivamente motivazioni protezionistiche. Eppure se affianchiamo questi ordinamenti ad altri provvedimenti presi nel 1332, notiamo come ci sia un repentino capovolgimento di indirizzo. Se infatti nel 1332 l’accordo era proprio con Firenze per impedire l’importazione di panni francesi e provenzali, nel 1335 si è passati a una netta chiusura nei confronti di Firenze stessa. Ma è molto difficile pensare che Pisa si schierasse contro Firenze proprio nel momento in cui i loro panni stavano molto distanziandosi a livello qualitativo. È molto più probabile credere che questi provvedimenti avessero un’altra finalità: combattere non la concorrenza fiorentina, bensì quella di altre città che presentassero una produzione di qualità più simile a quella pisana e i cui mercanti non fossero in grado di sostenere da soli un’importante esportazione. Ciò sarebbe anche confermato dal fatto che tali ordinamenti negavano sì l’importazione da parte dei mercanti pisani di panni di Firenze, ma non proibivano ai fiorentini di importare invece panni pisani, cosa che avrebbe altrimenti violato gli accordi di pace siglati nel 1329.

Ulteriore obiezione alla tesi volpiana secondo la quale il partito raspante sarebbe stato l’espressione dei lanaioli pisani, è possibile ricavarla da una più approfondita analisi dei fatti. Supponendo che il partito dei lanaioli fosse così forte da imporre più volte nel corso del secolo il proprio programma politico-economico, sarebbe da pensare che l’industria della lana avesse ormai

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raggiunto livelli di sviluppo molto alti a livello quasi capitalistico industriale, come sostenuto dal Silva. Nei documenti analizzati dal Tangheroni per quanto riguarda Pisa non si trova però conferma di questo fatto nemmeno confrontandoli con l’analisi della documentazione di altri centri produttivi come Firenze, dove senza dubbio l’industria laniera aveva una forza e un peso maggiore che non in Pisa. La figura del “mercante-capitalista” non comparve infatti contemporaneamente alla nascita dell’industria della lana: per un certo periodo furono sempre gli artigiani a sovrintendere la lavorazione dei panni nel loro completo ciclo di produzione. Solo in un secondo momento si ebbe l’intervento del mercante, il quale controllava l’approvvigionamento della materia prima e in seguito si preoccupava di ricollocare sul mercato il prodotto finito. Se a Firenze la figura del “mercante-capitalista” si formò alla fine del XIII secolo con famiglie quali i Cerchi e i Bardi, per quanto riguarda Pisa dovremmo aspettare il pieno Trecento e il fenomeno fu comunque sempre limitato all’aspetto finanziario della produzione. Si può quindi affermare che in Pisa ci fu una sostanziale assenza della figura del mercante specializzato ed è da notare inoltre quanto effettivamente le aziende che producevano lana erano di dimensioni piuttosto limitate in paragone alle grandi aziende fiorentine.

Da quest’analisi si ha quindi un’ulteriore conferma che la tesi del Volpe e del Silva non può essere considerata valida, già che è abbastanza facile provare che, nel ceto dirigente pisano, non fossero presenti famiglie né persone che facessero dell’arte della lana la loro attività principale di lavoro e sostentamento e quindi difficilmente potessero rappresentare la forza motrice del partito raspante. Solo ad un livello sociale più basso si potevano invece trovare gli autentici lanaioli, anche se difficilmente le loro aziende riuscivano a mantenersi in maniera autonoma e indipendente e quasi sempre dovevano appoggiarsi a famiglie di rango sociale più elevato. Da notare è inoltre la scarsa partecipazione di questo ceto più basso alla lotta politica e la sua

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limitata adesione al partito raspante. Si può affermare che a livello generale nessuna delle Arti in Pisa ebbe un ruolo politico estremamente rilevante. Anche l’organo supremo di governo, il Collegio degli Anziani, ne limitava strettamente la partecipazione: i rappresentanti delle Arti erano soltanto quattro su dodici, cioè un rappresentante per quartiere cittadino. Era infatti volontà del ricco ceto mercantile concentrare sempre di più nelle proprie mani l’esercizio effettivo del potere, riserbando solo una porzione di autorità alle Sette Arti, così che non ci fosse un effettivo blocco tra queste e le arti minori. Ma le Sette Arti non giunsero mai a svolgere un ruolo politico autonomo di primo piano e questo spiegherebbe anche i fallimenti dei vari tentativi signorili che tentavano di appoggiarsi ad esse per resistere alla spinta del ceto mercantile. Così fecero il Conte Ugolino e Uguccione della Faggiola, il primo permettendo la partecipazione delle arti minori all’Anzianato, il secondo aumentando l’influenza delle Sette Arti nell’Anzianato stesso. Entrambi i tentativi di instaurare una signoria su queste basi si rivelarono però fallimentari.

Abbiamo quindi visto come la tesi volpiana, che vedeva a Pisa la netta contrapposizione tra i Bergolini, rappresentanti dei mercanti e armatori, e i Raspanti, portavoce degli industriali, sia effettivamente una tesi non convalidata da studi più recenti, come quelli di Marco Tangheroni, che ne hanno messo in luce lacune e debolezze, portando alla ribalta nuove interpretazioni più corrette e giustificate da un’analisi documentale più approfondita.

È interessante adesso approfondire un altro importante studio, già citato precedentemente nell’introduzione di questo lavoro e che è anch’esso frutto di teorie più recenti: il riferimento va alla studiosa pisana Alma Poloni che ha dedicato la sua tesi di dottorato, nell’anno 2004, allo studio del secolo XIII fino agli inizi del secolo successivo, andando a porre l’accento sulle trasformazioni avvenute a livello sociale e politico che hanno prodotto una

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sostanziale variazione all’interno dell’amministrazione comunale pisana. Pur riferendosi, tale studio, al secolo precedente rispetto a quello da me studiato per analizzare la figura di Pietro Gambacorta, è stato esso utile in quanto ha permesso di avere un quadro ben delineato di quella che era la situazione governativa pisana in quel periodo, evidenziandone i principali protagonisti e i basilari cambiamenti prodotti in quest’epoca molto dinamica e ricca di trasformazioni.

All’inizio del Duecento la città di Pisa risultava governata da un’élite aristocratica ristretta di stampo consolare - podestarile, composta da famiglie di diversa origine e provenienza territoriale, quindi eterogenea, ma tenuta saldamente insieme da alcuni valori condivisi, simbolo dell’appartenenza a questa classe ed emblema dello stile di vita aristocratico: erano questi l’esercizio delle armi, il comando militare - legato soprattutto alla cavalleria comunale - e la pratica del commercio marittimo, che cominciava, già dalla fine dell’XII secolo ad essere un’attività molto praticata a Pisa mostrando così, già da allora, il suo apporto fondamentale all’economia cittadina. Istituzionalmente, all’inizio del XIII secolo, stava concludendosi il trapasso dall’età consolare a quella podestarile: il Podestà forestiero si alternava a Podestà cittadini, che venivano affiancati da collegi consolari e da un organo consultivo che prendeva il nome di Senato. Vi era inoltre il primo embrione del Consiglio generale, composto da una rappresentanza della comunità cittadina cooptata su base topografica in base alle quattro principali porte della città: quest’ultimo raggiungerà poi il suo completo sviluppo alla metà del XIII secolo. Se questa era dunque la situazione del Comune pisano all’inizio del Duecento, non si può non provare un certo stupore osservando lo stato di cose alla fine dello stesso secolo. Il quadro è infatti totalmente mutato in quanto mostra un ceto dirigente sostanzialmente nuovo rispetto al precedente. Appartengono adesso alla classe di governo individui e famiglie che non presentano più alcun tipo di legame familiare con i gruppi dirigenti di inizio

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secolo: sono essi nuclei familiari di origine recente con una diversa fisionomia, in quanto appaiono legati soprattutto all’attività commerciale e non più all’élite podestarile e consolare legata soprattutto all’esercizio delle armi e all’attività di mercante - armatore. La figura centrale diviene adesso il mercante -banchiere, dotato di una mentalità nuova, dedita all’organizzazione degli affari e ricca di un più sviluppato patrimonio di competenze finanziarie e commerciali. Tale mutamento prende parte a tutti gli effetti a quel movimento del XIII secolo che viene solitamente definito a partire dagli studi di Raymond De Roover,17 “rivoluzione commerciale”, secondo una teoria poi ripresa da Peter Spufford nel testo “Money and its use in medieval Europe” (1988). Si può parlare di “rivoluzione commerciale” nel Duecento nel momento in cui da iniziative commerciali avventurose, guidate sostanzialmente da un imprenditore - armatore che metteva a disposizione la propria nave e i propri mezzi economici per sostenere un singolo viaggio commerciale mirato al rifornimento di un particolare prodotto, si passa alla nascita delle “Compagnie commerciali”, ovvero società costituite da più affiliati che mettevano insieme le proprie risorse per costituire associazioni durature che effettuassero frequenti viaggi commerciali, e di cui i sostenitori dividevano poi i guadagni o le eventuali perdite. Questo nuovo tipo di commercio poteva rispondere alla crescente domanda di un determinato tipo di beni che, durante la complessiva crescita economica duecentesca, era sempre più costante. Tali compagnie commerciali portarono notevoli trasformazioni all’interno dei sistemi di mercanzia: poiché venivano mosse adesso grandi partite di merci e valori elevati di denaro, era necessario che la gestione di tutti i beni avvenisse in maniera ferma ed ordinata, e per questo motivo, le compagnie commerciali cominciarono a stabilire proprie filiali nelle città più importanti, dove alcuni soci risiedevano per amministrare correttamente gli affari. Dal punto di vista

17

R. DE ROOVER, The Commercial Revolution of the Thirteenth Century, in Bulletin of the Business Historical Society, 16 (1942), pp. 34 – 39.

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strettamente finanziario svilupparono tecniche contabili e finanziarie nuove, inizialmente ricorrendo ai notai che registravano i debiti e i crediti in alcuni libri appositi e, in un secondo momento, sviluppando la “lettera di cambio”, antenata degli assegni e prima forma di cambiale. Inoltre fu inserita la partita doppia, che permetteva un calcolo contabile più pratico e veloce. Tutte queste tecniche venivano tramandate di generazione in generazione all’interno di un gruppo ristretto e privilegiato e la penisola italiana presentò subito un netto vantaggio all’interno di questo ambito commerciale, giacché la sua posizione geografica, centrale nel mediterraneo, e facilmente raggiungibile sia via terra che, soprattutto, via mare, permetteva di mantenere preziosi contatti con i maggiori centri commerciali europei, prime fra tutte le fiere del nord Europa. Pisa non mancò di mostrare presto la sua potenza in questo ambito ed è in questo contesto che possiamo osservare la formazione di quella figura di mercante - banchiere centralissima a fine Duecento. Avvenne in quest’epoca un radicale cambiamento: la vecchia élite commerciale cittadina non seppe adattarsi ai cambiamenti in atto nel corso del Duecento, quando il nucleo dei traffici europei andò sempre di più a indirizzarsi verso il nord Europa e soprattutto verso le fiere della Champagne, abbandonando sempre di più la zona mediterranea cui invece questo gruppo sociale era molto legato. Proprio per questa mancata versatilità, i mercanti di vecchia generazione dovettero lentamente cedere il passo a nuovi e più intraprendenti investitori. Questi nuovi personaggi, quindi molto distanti dal mondo dei loro predecessori di inizio secolo, riuscirono ad adeguarsi ai tempi e ad inserirsi a tutti gli effetti in questa rinnovata rete commerciale. Contemporaneamente Pisa rafforzava la sua posizione come porto, mostrandosi come snodo commerciale e base di appoggio per tutti quegli imprenditori che provenivano dalle zone interne: in questo modo andò a formarsi un gruppo sempre più consistente di banchieri - cambiatori, che traeva guadagno dalla presenza in città di mercanti stranieri. Questo rinnovato gruppo di intraprendenti mercanti e banchieri cittadini, vide

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in questo periodo ricco di cambiamenti, la possibilità di conquistare una nuova visibilità politica: così finì per sostituire letteralmente la vecchia classe governativa, e il tutto nel giro di un brevissimo lasso di tempo, ovvero tra la fine degli anni Quarante e l’inizio degli anni Sessanta del XIII secolo. Proprio all’interno del generale sviluppo economico avvenuto in questo secolo, tale gruppo andò sempre di più aumentando sia quantitativamente che qualitativamente, e man mano che prendeva consapevolezza del proprio ruolo e della propria forza all’interno dell’ambito cittadino, reclamava una maggiore partecipazione alla gestione delle cosa pubblica. Fu così che i protagonisti di questo gruppo diedero vita ad una nuova forma di organizzazione, il Popolo, inserendolo a tutti gli effetti nella vita politica cittadina. In questo modo infatti, tali nuove forze, acquistato maggiore peso all’interno del Comune, finirono per modificarlo anche a livello istituzionale andando a costituire un quadro governativo sicuramente più complesso e sviluppato del precedente. Alla figura del Podestà si andò infatti ad aggiungere quella del Capitano del Popolo, un altro ufficiale forestiero. Un nuovo ordine collegiale, gli Anziani del Popolo, costituito da dodici membri cooptati su base geografica questa volta non più in base alle porte cittadine, bensì in base alla nuova suddivisione topografica in quartieri, esercitava le principali funzioni di governo. Accanto ad esso, un sistema articolato di Consigli, ai quali partecipavano le rappresentanze delle corporazioni e un numero variabile di uomini scelti in base topografica, interveniva nella gestione governativa. Come possiamo notare, il nuovo assetto istituzionale di fine secolo mostrava un livello di partecipazione popolare assai più alto rispetto all’inizio del Duecento. Questi nuovi personaggi furono capaci di conquistare nel giro di poco tempo un ruolo politico così forte anche grazie al potere economico e sociale, ottenuto attraverso la pratica della mercatura: in effetti i primi Anziani del Popolo pisani, provenivano in larga parte dal gruppo dei mercanti -banchieri. C’è da specificare però, che le prime famiglie che si espressero nell’Anzianato, non

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furono tuttavia le stesse che presero poi parte alla politica del Trecento: negli ultimi decenni del XIII secolo ed esattamente a partire dal 1288, quando cadde la Signoria di Ugolino della Gherardesca e Nino Visconti, si attuò infatti un secondo ricambio politico. Con la venuta infatti di Guido da Montefeltro, si assistette tra il 1288 e l’inizio degli anni ’90, a una totale riconfigurazione del panorama politico che portò ad un’ulteriore apertura negli spazi di affermazione. Si presentarono dunque in questo momento ulteriori famiglie, sempre legate all’attività mercantile, ma di stampo nuovo e maggiormente inserite nel contesto commerciale internazionale e che soprattutto avevano preso parte a pieno a quel processo di “acculturazione”18 mercantile che aveva portato a un notevole miglioramento delle tecniche finanziarie e a una diversa gestione dell’attività commerciale. Erano quindi personaggi a pieno titolo inseriti in quel contesto precedentemente definito come “rivoluzione commerciale”: presenziavano in compagnie commerciali che lavoravano su contesto internazionale, allontanandosi da quel contesto di scambi locali che invece i protagonisti del primo periodo popolare stentavano ancora ad abbandonare. Era un gruppo di uomini d’affari nuovo e ulteriormente rafforzato, che potremmo definire “rampante” 19 e che approfittò degli avvenimenti degli anni Ottanta del Duecento per avvalorare ulteriormente la posizione politica di quello che possiamo così definire Secondo Popolo. Furono queste nuove famiglie a partecipare poi a pieno agli avvenimenti del secolo seguente, accompagnando il Comune di Popolo fino alla conquista di Pisa da parte di Firenze nel 1406.

Vediamo quindi come a Pisa, dalla metà del Duecento, il Popolo si presentasse come una formazione politica organizzata, stabile e in grado di aspirare al controllo del Comune. Contribuirono a ciò alcuni fattori, prima di tutto la debolezza della nobiltà cittadina: come abbiamo già esaminato

18

A. POLONI, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche, p. 18.

19

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quest’ultima non seppe adeguarsi ai tempi e, mentre Pisa andava collocandosi in un contesto commerciale internazionale sempre più ampio, la vecchia élite consolare - podestarile restava legata a rotte commerciali di limitate dimensioni e al suo contesto ristretto di scambi, lasciando spazio alla venuta di nuove e più intraprendenti famiglie. Inoltre la nobiltà non fu capace di rispondere militarmente ai ripetuti attacchi della sempre più invadente Firenze e fu così che nell’estate del 1254, quando una coalizione fiorentina era entrata in terra pisana e gli allora attuali organi governativi non seppero reagire prontamente, il Popolo assunse il controllo del Comune decidendo in maniera autonoma di fermare le ostilità e raggiungere la pace con i fiorentini.

Un altro importante fattore favorevole a una nuova riconfigurazione politico -istituzionale del Comune incline alla stabilizzazione del Popolo nei ranghi di governo cittadini, fu un elemento ideologico: la salda e forte fede ghibellina dei pisani. Questa impedì alle varie fazioni locali di inserirsi nel generale e sovracittadino conflitto tra pars imperii e pars ecclesiae. In questo modo Pisa non conobbe la fase in cui le fazioni cittadine si trasformarono, come in altre città, in Parti assumendo una forma organizzata con proprie istituzioni: a Pisa le fazioni aristocratiche rimasero sostanzialmente coalizioni tenute insieme da interessi comuni, vincoli di parentela e di fidelitas. Qui il Popolo non era una Parte tra le Parti, bensì era l’unica formazione politica stabile e istituzionalmente organizzata capace di contrapporsi alla nobiltà indebolita e priva di quell’appoggio che avrebbe potuto dargli invece l’inserimento in quel sistema di alleanza sovracittadine che erano appunto le Parti. Il forte ghibellinismo pisano si rivelò quindi un fattore decisamente favorevole poiché semplificò il quadro istituzionale e contribuì a consolidare la posizione del Popolo ai vertici del comando. Ulteriore elemento che differenziò la situazione pisana da quella di altre realtà contemporanee, fu il forte ritardo nell’istituzione di un unico patriziato cittadino, costituito dalle potenti domus aristocratiche e dalla famiglie più importanti del Popolo. I Popolari più

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eminenti mantennero, almeno fino alle seconda metà del Trecento, una forte consapevolezza della loro diversità politica rispetto agli aristocratici, tanto che i nobili risultarono discriminati e rilegati nella gestione di determinate aree di potere, come per esempio quella del contado cittadino, rimanendo esclusi dall’Anzianato che era, a tutti gli effetti, il centro decisionale del Comune. A riprova di ciò, come ha analizzato la studiosa Poloni, non viene rilevata nei documenti pisani la parola magnates, che stava a indicare, in altre realtà comunali, una categoria nuova in cui erano andati a fondersi l’aristocrazia delle domus nobiliari e i nuovi mercanti - banchieri inseriti nei commerci internazionali. A Pisa venivano ancora utilizzati i termini nobiles e milites per riferirsi all’aristocrazia consolare di vecchio stampo e che indicavano, a tutti gli effetti, uno stile di vita e una cultura politica differenti rispetto a quelli del nuovo gruppo popolare. È da notare infatti come i Popolari pisani non cercarono mai di assimilarsi alla nobiltà cittadina anzi, se ne mantennero distanti, non dimostrando nemmeno particolare attrazione per lo stile di vita aristocratico: già dalla fine del Duecento i ricchi mercanti abbandonarono per esempio l’idea di possedere una torre o una prestigiosa élite di fideles per dimostrare l’aderenza a quelli che erano status symbol di questo gruppo. Essi preferivano invece altre forme di espressione della loro eminenza politica e sociale. Come vedremo più avanti famiglie di ricchi mercanti come quella dei Gambacorta, posero notevole attenzione all’edilizia privata: la costruzione di residenze facoltose o la realizzazione di opere di edilizia pubblica erano espressioni della loro posizione sociale.

Era quindi una situazione molto particolare quella pisana, dove il Popolo non si trovò di fronte formazioni politiche concorrenti: l’aristocrazia di vecchio stampo aveva perso in attrattiva giacché non presentava più alcun vantaggio dal punto di vista politico. Ormai l’ascesa delle nuove famiglie passava solo ed esclusivamente per le istituzioni popolari, prima fra tutte quella dell’Anzianato.

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Attraverso l’analisi, qui riportata piuttosto sommariamente, effettuata dalla storica Alma Poloni, è stato quindi possibile ricostruire un quadro esatto di quella che era la situazione politico – sociale a Pisa nel XIII secolo, anche grazie all’analisi prosopografica da lei effettuata che ha permesso di chiarire la fisionomia sociale e professionale dei protagonisti di questo grande ricambio politico che ha portato alla costituzione del Comune popolare a Pisa. Pur essendo, il lavoro della studiosa, concentrato sull’analisi del secolo XIII, è stato allo stesso modo utile per comprendere quali fossero le forze in gioco anche nel secolo successivo.

Tornando appunto adesso all’analisi del periodo trecentesco, secolo centrale per questo lavoro, possiamo dirci più consapevoli e informati su quale fosse la costituzione del ceto dirigente, costituito da mercanti e banchieri come abbiamo visto, e di cui la famiglia Gambacorta sarà poi una delle maggiori esponenti.

Avendo ripercorso l’analisi della Poloni e le critiche mosse dal Tangheroni alla tesi volpiana, è lecito adesso domandarsi in quale altro modo vada interpretata la società pisana del periodo trecentesco, nei suoi movimenti politici e sociali. Se il Tangheroni ha evidenziato gravi obiezioni al tentativo volpiano di vedere la causa di tali scontri e lotte politiche nel contrasto tra nobiltà e popolo e tra industriali e mercanti e armatori, è lo stesso Tangheroni a fornire una soluzione nuova alla questione.

Secondo lo storico bisogna effettuare un cambiamento di prospettiva e sostituire a quella che finora era stata un’analisi orizzontale della società, quella che adesso poteva essere definita analisi “verticale”, intendendo con essa che i contrasti a Pisa non fossero tra i due ceti presumibilmente contrapposti di industriali e mercanti, bensì fossero all’interno dell’oligarchia cittadina e nella rivalità esistente nelle varie famiglie che la componevano:

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non era quindi una lotta tra ceti, ma una lotta in seno ad un ceto, quello definito da Le Goff 20 come “borghesia mercantile”.

Quest’ultimo mantenne un atteggiamento comune di fronte alle pressioni esercitate dai ceti inferiori, pur affrontando essa stessa al suo interno conflitti e lotte intestine. Per questo motivo si può affermare che l’oligarchia fu sostanzialmente l’unica vera protagonista della lotta politica a Pisa in questo periodo.

In sostanza la comparsa della “borghesia mercantile” o borghesia d’affari, determinò una situazione del tutto nuova, che causò la rottura di quelli che erano stati gli schemi portanti dei rapporti sociali, economici, politici e anche mentali fino a quel momento alla base della società tutta.

Si può affermare che essa portò un radicale vento di cambiamento e innovazione con lo sviluppo di nuove tendenze, sia nel pensiero politico che nella politica pratica, così come nel pensiero filosofico, nell’educazione, nell’arte, nella religione, insomma nell’atteggiamento generale nei confronti della società.

È determinante quindi cercare di comprendere la mentalità dell’epoca e in che modo essa influisse nei rapporti sociali e nelle lotte di classe. Sostanzialmente le contese ruotavano intorno all’opposizione tra alcune famiglie, le cui ostilità erano costantemente caratterizzate dall’importanza data ai legami personali, dall’esistenza ancora della faida, della giustizia privata e del rancore reciproco; tutti elementi che rendevano notevolmente frequente il cambiamento degli schieramenti opposti. Come ha osservato in un suo studio lo storico Cristiani21, si è cercato troppo spesso di vedere necessariamente nelle lotte di fazione un contrasto netto tra l’una e l’altra classe, ricollegando tali opposizioni ai conflitti ufficialmente dichiarati: Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, Bergolini e Raspanti. Ma tali contrapposizioni non esprimono

20

J. LE GOFF, Marchands et banquiers au Moyen Age, p. 55, in M. TANGHERONI, cfr. nota 4.

21

E. CRISTIANI, Nobiltà e popolo nel comune di Pisa: dalle origini del podestariato alla signoria dei

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in maniera adeguata il mutevole andamento delle rivalità interne: errore sarebbe appunto pensare che le singole famiglie restassero durevolmente legate alle aspirazioni di questi raggruppamenti. Più corretto è invece affermare quanto fossero frequenti i cambiamenti di schieramento, basati, come si è già fatto notare sopra, sulle alleanze o rivalità del momento, sulle forme di clientela e di dipendenza individuale. Utilizzando le parole del Cristiani, “Nei loro multiformi aspetti sociali ed economici le lotte di fazione sono specialmente opera delle consorterie, fortissime nell’ambito delle famiglie magnatizie e nobiliari, e presenti in misura notevole anche presso le famiglie di popolo.” È facile comprendere quindi come le lotte di fazione ruotassero intorno alle rivalità di alcune famiglie e ciò viene confermato dagli stessi atti documentali quando, nella cancelleria comunale, i Bergolini non vengono registrati con questo nome, bensì come sequaces Gambacurtarum o pars Gambacurtarum.

Limitato è il numero delle famiglie che mantennero uno stesso atteggiamento politico nel corso dei vari decenni: governava appunto il cambiamento, la mutevolezza. Ma non è lecito parlare di incoerenza o di opportunismo, dato che, come abbiamo visto, i “partiti” non erano portatori di ideologie definite o di precisi programmi politici: ciò che muoveva tutto, altro non era che la rivalità tra alcune famiglie. E’ importante a questo punto, approfondire sommariamente il significato che assumeva al tempo il termine “partito”, del tutto estraneo a quello inteso nei tempi moderni e del quale vanno espressi i limiti concettuali affinchè non risulti un concetto aprioristico e ambiguo. Innanzitutto, come detto, non può questa parola essere interpretata utilizzando il giudizio che noi lettori moderni abbiamo del termine; in secondo luogo il concetto che ne abbiamo ora, risulta completamente estraneo alla mentalità dell’epoca, già che il termine pars, allora usato, aveva un uso oggettivo idealmente diverso da quello moderno. È più corretto quindi, per l’interpretazione dei fatti storici pisani del XIV secolo, parlare di contrasto tra

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due tendenze ugualmente molto forti: il conservatorismo politico della classe dirigente, il quale rifletteva uno stato di tipo oligarchico e la tendenza alla signoria, indirizzata appunto a uno stato signorile. Come si è visto in precedenza, nel corso di questo secolo la classe dirigente cercò sempre più di riservare a se stessa soltanto l’esercizio effettivo del potere, soprattutto attraverso il controllo della magistratura degli Anziani, già a partire dalla citata riforma del 1307. Nell’aprile di quell’anno infatti, dopo quasi un ventennio passato a cercare di consolidare la propria posizione al governo del Comune, l’élite popolare compieva un grande passo portando all’attuazione una riforma fondamentale che andava a modificare il sistema di elezione degli Anziani. Come spiegato nel solenne prologo di questa rubrica, inserita nel breve del Popolo di quell’anno, tale riforma fu motivata con la necessità di porre fine ai brogli elettorali di cui spesso si era avuta denuncia negli anni precedenti. Tali denunce di irregolarità andavano a minare notevolmente il potere popolare che era pur sempre giovane, e quindi non ancora del tutto stabilizzato, ed erano forse espressione di un malcontento diffuso che era meglio mettere a tacere. La riforma del 1307 ebbe dunque il pregio di rendere il sistema di elezione degli Anziani più stabile e sicuro, ma non ebbe invece il merito di allargare la base sociale dell’Anzianato: la conseguenza principale di questa riforma fu infatti il restringimento della base elettorale. Secondo le nuove procedure infatti, la scelta degli Anziani era affidata a dodici persone, i Savi, che erano a loro volta scelti dagli Anziani uscenti: questi Savi avevano il compito di designare un numero di uomini sufficienti a coprire gli Anziani di un intero anno. I nomi di tali persone venivano raccolti in tasche divise per quartiere e, dieci giorni prima della scadenza di ogni collegio bimestrale, il Capitano del Popolo convocava il Consiglio del Popolo e di fronte ad esso si procedeva all’estrazione dei nomi dalle tasche. La riforma sottraeva quindi al Consiglio del Popolo qualsiasi tipo di ruolo nell’elezione degli Anziani giacché esso non sceglieva più, come avveniva prima del 1307, le procedure

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elettorali, bensì veniva convocato solo per assistere passivamente all’estrazione dei nomi dalle tasche: aveva quindi una semplice funzione di controllo e, in questo modo, le nuove regole eliminavano la possibilità che le elezioni degli Anziani potessero essere influenzate da alleanze interne al Consiglio del Popolo. In sostanza la nuova procedura consisteva in una cooptazione indiretta dei successori da parte degli Anziani uscenti, mediata dai Savi scelti da loro stessi. Inoltre il periodo obbligatorio di vacanza degli Anziani veniva innalzato da un anno a diciotto mesi: questo fatto colpiva soprattutto le ascese individuali e le carriere di personaggi non sostenuti da una solida rete di relazioni familiari. Un altro aspetto essenziale fu che i Savi nominati dagli Anziani uscenti dovevano eleggere i componenti dei sei collegi successivi e, in questo modo, per un anno i posti nell’Anzianato sarebbero stati occupati da persone politicamente concordi con la politica degli Anziani uscenti di carica: veniva così assicurata una maggiore continuità politica. Vediamo quindi come la riforma del 1307 portò al restringimento della base elettorale: difatti la scelta degli Anziani era affidata alla discrezione di dodici persone soltanto, nominate per giunta dagli ufficiali uscenti. Proprio per questo motivo possiamo vedere nella riforma del 1307, una notevole chiusura di stampo oligarchico dell’élite popolare, studiata per far permanere al potere un determinato gruppo di eminenti famiglie appartenenti a tale élite.

Da un’osservazione attenta delle liste dei membri chiamati a ricoprire la magistratura degli Anziani durante il Trecento, salta subito agli occhi quanto la maggior parte di essi appartenesse ad un numero sempre più ristretto di famiglie. La ricca borghesia tendeva così a difendere un ordine costituzionale fissato una volta per sempre e con questo spirito si faceva portavoce della resistenza contro ogni spinta proveniente dal basso. Si proclamava portabandiera delle tradizioni comunali, ancorandosi alla formazione da cui questa stessa classe proveniva, che concepiva l’ “amor di patria” come un sentimento di servizio, ma allo stesso tempo anche di difesa dello stato.

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