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Tutta l’area dell’Italia centro – settentrionale vide il sorgere ed il proliferare, a partire dal XII secolo, delle autonomie cittadine. Come è stato giustamente notato dallo storico Gian Maria Varanini22, vi è un sostanziale accordo tra gli studiosi sul fatto che sia possibile rintracciare una certa uniformità di sviluppo delle istituzioni comunali sino al periodo podestarile incluso. I podestà “professionali” esprimevano a tutti gli effetti una profonda omogeneità di cultura politica tra i vari comuni, erano il simbolo di una cultura amministrativa condivisa: con la figura del podestà si superava di fatto quella dimensione di rappresentatività delle tradizionali élites cittadine che era stata il perno del periodo consolare del Comune. Un ulteriore fattore di unificazione era poi in questo periodo la diffusione generalizzata di una omogenea cultura giuridica: nacquero in questo momento i giuristi e si svilupparono le loro delegazioni organizzate. Il XIII secolo vide inoltre, il sorgere del popolo come istituzione politica in cerca di rappresentanza ben definita, e possiamo riconoscere in questo elemento un ulteriore fattore di sincronia tra i vari Comuni. Nei decenni centrali del Duecento, sotto la spinta di determinati fattori, le diverse società comunali si orientarono in differenti casi, o verso forme oligarchiche o verso regimi personali, oppure rimodellando i governi popolari. Attuarono quindi fondamentali modifiche al loro interno ma, è fondamentale sottolinearlo, i Comuni non persero mai definitivamente quei tratti caratteristici che fin dall’inizio li avevano distinti. La “rivoluzione” comunale duecentesca mantenne ancora una forza dentro di sé molto viva, persistente in maniera dinamica, e, a prescindere dalla

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G. M. VARANINI, Aristoocrazie e poteri nell’Italia centro – settentrionale dalla crisi comunale alle

guerre d’Italia, pp. 122 - 193 in R. BORDONE, G. CASTELNUOVO, G. M. VARANINI, Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, (2004).

definizione dei vari tipi di governo che si attuarono poi in ogni singola autonomia cittadina, l’imprinting iniziale non andò perduto.

Il fatto che alcuni Comuni da fine Duecento – inizio Trecento, abbiano imboccato una strada tendente alla formazione di un Comune di tipo “signorile”, come appunto nel caso pisano, non significa che essi abbiano perso le tendenze precedenti che erano cominciate nel corso del pieno Duecento col periodo consolare e podestarile dell’epoca comunale. Anche se cominciò a farsi strada un solo partito o, altre volte, una sola persona col suo regime personale, il Comune non perse mai definitivamente i suoi tratti distintivi di “pubblicità”. La “rivoluzione” comunale nata nel Duecento rimase attiva e, a dimostrazione di ciò, è utile fare un breve accenno a tre fattori. In primo luogo la documentazione scritta. È fondamentale il fortissimo legame tra sviluppo istituzionale del Comune e l’organizzazione del sistema documentario. L’ambito della documentazione scritta è forse quello più rinnovato e sviluppato nel corso del Duecento. In particolar modo si creava un legame ben preciso tra il Comune e i pubblici uffici: man mano che questi ultimi, insieme alle loro pratiche documentarie si consolidavano, acquistava maggior stabilità anche il Comune. Una volta scritto e definito uno statuto comunale, esso non perdeva d’importanza nemmeno quando un regime di tipo signorile si imponeva col suo arbitrium; lo stesso avveniva per i libri contenenti raccolte di leggi o procedute estimali e catastali. L’imporsi di un regime di tipo signorile non faceva perdere al Comune coscienza di sé, né a livello documentario né a livello istituzionale.

Il secondo punto riguarda la definizione e l’organizzazione dei distretti cittadini. Nell’Italia del centro – nord, e soprattutto in Toscana, ciascun Comune si era costituito un proprio distretto territoriale gravitante intorno alla città e delimitato da una precisa “frontiera” che per lungo tempo rimase invalicabile. La situazione era leggermente diversa in altre aree, come per esempio in quella lombarda o piemontese, dove l’assetto territoriale rimase più

a lungo aperto e indefinito a causa della presenza di forti poteri signorili che le città non riuscivano a metabolizzare, o anche per le intromissioni da parte di forze politiche esterne all’area che provocano lotte di fazione interne alla città. Nonostante ciò, comunque, anche in questi casi, continuavano a essere presenti tendenze di fondo inesorabili poiché il mondo urbano continuava ad esercitare una fortissima attrazione sulle famiglie signorili, che tendevano in ogni modo a gravitare intorno alla città. Furono ben pochi, entro il Duecento, i Comuni cittadini che riuscirono ad azzerare o ridurre ai minimi termini la presenza signorile, ad esempio di due grandi Comuni popolari Bologna e Firenze, o anche Verona e Perugia. per il resto, erano ben numerosi i distretti dove prosperarono robuste signorie territoriali alcune create ex novo, altre ricostituite e rinvigorite da alcune famiglie. Pur non potendo generalizzare, visti i differenti percorsi intrapresi da ogni esperienza comunale, è fondamentale sottolineare che, anche in questo ambito, nella seconda metà del Duecento, periodo di “crisi” delle istituzioni comunali urbane, non ci fu una sostanziale inversione di tendenza e le spinte comunali iniziali continuavano a sussistere: persisteva come elemento fondamentale il legame della città col proprio distretto territoriale.

Terzo fondamentale elemento condiviso dalle varie esperienze comunali in questo periodo, fu il rapporto da esse intrecciato con le istituzioni ecclesiastiche cittadine. Già dal periodo consolare i Comuni manifestarono la volontà di assoggettare tali istituzioni a forme di controllo politico, puntando soprattutto al governo dei grandi patrimoni monastici, cospicui sia per diritti giurisdizionali che per estensione territoriale, e si posero pure il delicato problema della loro tassazione. Quando i Comuni giunsero al periodo signorile, il fatto che il signore avesse amicizie tra i più alti ranghi ecclesiastici, era cosa più che normale, se non quasi la regola. Talvolta erano proprio i vescovi a porsi come leader della politica cittadina e a svolgere un ruolo di fondamentale importanza, a prescindere dalle forme del regime politico in atto.

Questi tre elementi provano insomma che quei fenomeni che spesso la storiografia passata, aveva presentato come elementi degenerativi del Comune – la nascita delle fazioni ad esempio e lo svilupparsi di regimi signorili – non comportarono di fatto l’arresto definitivo di quella spinta “rivoluzionaria” che il primo periodo comunale aveva portato con sé. Spesso queste forti opposizioni tra il primo periodo comunale e il suo svilupparsi in regimi di tipo signorile, sottolineate da molti storici, altro non sono che proiezioni storiografiche: di fatto è lecito pensare che molti contemporanei del tempo non avessero la consapevolezza di star passando dal regime comunale a quello signorile e vivessero senza tutte quelle difficoltà che spesso, per errore, lo storico tende a visualizzare.

Analizzando nello specifico la situazione pisana è qui doveroso accennare almeno, al particolare assetto politico – istituzionale che rese il Pisa un caso pressoché unico. Era infatti un Comune dove, nel corso del Trecento, sulle robustissime magistrature degli Anziani del Popolo e dei Savi, si innestarono forme di potere “signorile”: i Donoratico delle Gherardesca prima, poi Giovanni Dell’Agnello, Pietro Gambacorta e infine Jacopo d’Appiano. Le motivazioni che spinsero la città tirrenica a ricorrere a regimi di tipo signorile, furono indotte da esigenze di diverso tipo. Da una parte vi era il contrasto tra famiglie e il prevalere di una famiglia sull’altra con i suoi aggregati consortili all’interno delle lotte di parte; dall’altra vi era la necessità di un forte potere stabile che portasse con sé una pacifica situazione di concordia urbana; ancora, vi era la forte esigenza di una politica più incisiva, anche a livello militare, soprattutto in un periodo dove frequenti erano le lotte e i contrasti sia interni che esterni e dove Pisa aveva ormai assunto una posizione si sostanziale perifericità, almeno rispetto all’immagine di grande potenza marinara che aveva avuto in passato.

Ciò che maggiormente caratterizzò questi regimi di tipo signorile a Pisa, fu il fatto che essi si ritrovarono fin da subito a scontrarsi con le inossidabili

istituzioni comunali esistenti. Queste ultime erano consolidate, mature e ben radicate in profondità ed era perciò impossibile che venissero sradicate solo con l’instaurazione di un regime signorile. Per questo motivo le esperienze signorili a Pisa furono sempre in bilico tra il mantenimento dei più antichi assetti istituzionali e la realizzazione di forme politiche nuove. Per questo motivo si può affermare che a Pisa, i regimi signorili mantennero sempre e comunque intatto un lato “perfettamente comunale”23.

Altro dato peculiare che mostrarono i regimi signorili a Pisa fu che si presentarono come signorie monocittadine sorte all’interno della città di origine del dominus: fu un elemento questo che permise di esaltare l’importanza di valori condivisi tra colui che governava e la città, poiché il signore risultava legato ai cives da tradizioni comuni, senso di appartenenza e di identità condivisa. Più avanti nel corso di questo lavoro, sarà sviluppata più dettagliatamente la descrizione dell’esperienza signorile di Pietro Gambacorta e delle sue fondamentali caratteristiche grazie alle quali è possibile appunto definire il suo, un governo di tipo signorile.

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