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3. PIETRO GAMBACORTA: DALL’ESILIO ALLA SIGNORIA

3.2. Il Dogato di Giovanni dell’Agnello

La responsabilità del momento fu quindi affidata nel 1365 ad un uomo soltanto: Giovanni dell’Agnello, appartenente al partito Raspante. Si tratta di un episodio particolare per la storia di Pisa, dato che tutto il potere fu concentrato nelle mani di quest’uomo, mentre rimasero in disparte, quasi in secondo piano, i naturali capi del partito, come i Della Rocca. Egli pareva avere la personalità giusta per affrontare tutti i gravi problemi del momento: era infatti originario di una famiglia di mercanti e mercante egli stesso e quindi avrebbe favorito il tranquillizzarsi delle questioni che preoccupavano i commercianti e gli armatori, riattivando il traffico dei Fiorentini su Porto Pisano; era già esperto nella diplomazia dato che in passato aveva sostenuto diverse ambascerie; infine era favorevole al ristabilirsi di buone relazioni con Firenze e già precedentemente era stato tra quelli che nel 1361 si erano schierati a favore della pace con questa città, e poteva in questo modo pacificare gli animi delle classi popolari che desideravano la riconciliazione con i fiorentini.

La creazione del Dogato è il risultato quasi necessario della posizione interna del partito raspante e degli avvenimenti della politica estera pisana negli anni 1355-1364, anni in cui il Comune pisano assunse un nuovo aspetto. Nel maggio 1355, l’imperatore Carlo IV di Lussemburgo abbandonò Pisa lasciando qui come suo vicario Marquardo di Randeck, nominato “capitaneus imperatoris” e dotato di poteri di suprema giurisdizione e comando delle milizie. Quest’ultimo si trattenne a Pisa due anni e lasciò poi l’incarico al nipote Gualtieri di Hochschlitz.33 Bisogna ricordare che, i Raspanti, nel periodo in cui lottavano con i Bergolini per assicurarsi il favore imperiale,

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Per questo capitolo sono stati utilizzati i lavori di P. SILVA, Il governo di Pietro gambacorta in Pisa (1911) e di N. CATUREGLI, La Signoria di Giovanni dell’Agnello in Pisa e in Lucca e le sue relazioni con Firenze

e Milano (1364-1368), Pisa (1921).

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Cronica di Pisa, a cura di C. IANNELLA, pp. 172, nota (275) e N. CATUREGLI, La Signoria di Giovanni

finirono per destinare all’Imperatore la signoria di Pisa: fu questo un atto probabilmente non spontaneo e volontario, bensì dettato dalle circostanze. Come abbiamo visto i Raspanti avevano cominciato a rafforzare la propria posizione in città e miravano a un ritorno al potere, per questo motivo cercavano in ogni modo di aggiudicarsi il favore dell’Imperatore, il cui appoggio avrebbe fatto loro molto comodo. Abbiamo detto che riuscirono nel loro intento e nominarono Carlo IV signore di Pisa, ma è necessario fare alcune considerazioni sul carattere di tale signoria: è infatti errato considerarla a pieno titolo come tale dato che, nell’Imperatore e poi nel suo vicario, non si riscontrano quei poteri che sono normalmente propri di un signore. Mancano per esempio, il potere ordinario di nominare gli ufficiali del Comune, il potere finanziario e il potere di dirigere la politica interna ed esterna del Comune. Inoltre, perché l’Imperatore e il vicario imperiale potessero a tutti gli effetti considerarsi signori, avrebbero dovuto esserlo anche della città di Lucca, dato che questa era interamente soggetta a Pisa, e ciò non avvenne, dato che a Lucca non avevano essi alcun potere. Il signore aveva invece potere, come abbiamo visto, di suprema giurisdizione e comando delle milizie, ma la sua autorità era massima solo per quanto riguardava la difesa interna e il mantenimento del partito raspante al potere. Per tutto il resto egli non aveva mansioni determinate e fisse, ma la sua facoltà era limitata ad assistere a certi atti importanti, come al giuramento del nuovo Podestà e del nuovo Capitano del Popolo. Gli antichi poteri direttivi e supremi restavano invece in mano all’Anzianato, che era diretto dai Raspanti: non si può infatti in nessun modo parlare di una soggezione dell’Anzianato al signore. Come sostiene lo storico Caturegli, si potrebbe ipotizzare, per questi anni, l’esistenza di una forma di diarchia per Pisa: da una parte infatti vi era l’Imperatore o il vicario imperiale, eletto capitano e difensore del Comune, che aveva il comando delle milizie e il massimo potere giudiziario per quanto si riferiva al mantenimento del partito raspante al potere, dall’altra vi era invece ancora del tutto intatta

l’organizzazione politica comunale, guidata dalla magistratura degli Anziani che mantenevano immutata la loro autorità, senza la minima intromissione esterna. I Raspanti dunque riuscirono a mantenersi al potere grazie a questa abilità di ordinare così bene il governo da farlo apparire una signoria imperiale, quando in realtà era una signoria raspante: all’esterno appariva un governo neutro, mentre era a tutti gli effetti un governo di partito. Fuori Pisa in realtà non si è informati su quale fosse lo stato delle cose tanto che, ritenuti prima Marquardo poi Gualtieri, i vicari imperiali, tutta la corrispondenza e le ambascerie venivano ufficialmente indirizzate a loro, in quanto rappresentanti del Comune pisano. È spontaneo pensare che una situazione governativa di questo tipo non fosse in realtà del tutto gradita al partito Raspante, ma che fosse benevolmente accettata viste le necessità del momento. Probabilmente i Raspanti aspettavano il giorno a loro favorevole che avrebbe tolto dalla scena politica il partito Bergolino e a quel punto, un solido e stabile governo raspante, avrebbe potuto fare a meno del vicario imperiale.

Abbiamo già osservato che, una volta venuti al potere, i Raspanti si dedicarono a portare avanti una guerra contro Firenze: essi si mostrarono così fermi e decisi nelle loro posizioni, da pensare che l’unica via salutare per Pisa fosse appunto la lotta contro Firenze e i suoi industriali. Questa dimostrò però ben presto arrecare più danni che vantaggi e così non tardarono a sorgere malumori e malcontenti cittadini, che minacciavano di trasformarsi in vera e propria rivolta contro i governanti. La definitiva sconfitta nella battaglia di Cascina del 1364, risultò essere non soltanto un forte insuccesso militare, ma anche la disfatta politica del gruppo raspante. I Raspanti si trovavano adesso in una posizione disperata, dato che le perdite erano state molto gravi e potevano essere imputate loro molte colpe. Nonostante tale sfavorevole posizione, i Raspanti non vollero abbandonare il governo, dato che abbandonarlo avrebbe significato essere banditi dalla città, vedersi confiscare i beni e distruggere le case, cadendo definitivamente in miseria. Per cercare allora di salvare la

situazione e rimediare allo stato di cose senza rinunciare al potere, si fece strada tra loro, un’idea insolita: affidare ad un solo membro del loro partito, il governo della città tutta. In realtà non sappiamo esattamente da chi e in quale modo fosse originata questa idea, probabilmente fu il frutto di un accordo preliminare tra un circoscritto numero di persone e non pienamente condivisa all’unanimità da tutto il partito. Secondo Caturegli, possiamo attenerci a quello che scrivono cronisti contemporanei come il Villani e Sozomeno Pistoiese34, i quali pongono all’origine del Dogato di Dell’Agnello un accordo stretto tra quest’ultimo e Bernabò Visconti: pare infatti che Dell’Agnello avesse promesso di essere fedele alleato di Bernabò, ricevendo in cambio da questi una cospicua somma di denaro. Si trattava di una grande vittoria per la politica estera viscontea, dato che da questo momento, Pisa sarebbe diventata una solida base di appoggio nella lotta contro Firenze, potente nemica dei Visconti. A confermare l’ipotesi che fosse stato stretto tale accordo, vi è anche il fatto che, alcuni anni più tardi, nel 1369, quando Giovanni Dell’Agnello aveva ormai perso il suo potere e veniva cacciato da Pisa, cercò aiuto proprio in Bernabò Visconti con un nuovo trattato per il quale il Visconti si impegnava a fornire all’ex-Doge tutti gli aiuti necessari per riprendere Pisa. Ulteriore riprova che l’ipotesi di tale accordo può essere ritenuta veritiera, è la condotta che mantenne Firenze in questi anni. Dopo la vittoria di Cascina nel 1364 infatti, vista la situazione in cui versava Pisa, debilitata dalla guerra e pervasa da malcontenti diffusi contro il partito raspante, sarebbe stato facile per Firenze continuare l’offensiva e giungere, forse, alla conquista del Comune pisano, anticipandola così di mezzo secolo rispetto a quando poi realmente avvenne. C’è da pensare quindi che i Fiorentini fossero a conoscenza, o per lo meno sospettassero, l’accordo tra Pisa e i Visconti e perciò, a un rinnovarsi della minaccia viscontea, preferirono stipulare la pace. I Fiorentini infatti non

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fecero nemmeno tentare l’entrata in città a Pietro Gambacorta35, che sembra fosse nell’esercito fiorentino, e che, vista la situazione allora attuale, non avrebbe probabilmente avuto molte difficoltà a ristabilire un governo bergolino. I Fiorentini continuavano così nei confronti dei signori di Milano questa politica di deferenza e riguardo, cercando di sfuggire ogni contrasto con i Visconti dei quali, in effetti, avevano timore. Secondo lo storico Caturegli è quindi possibile ritenere valida l’ipotesi di questo accordo tra il Dell’Agnello e Bernabò Visconti.

È utile però cercare di comprendere a fondo le cause che portarono alla nascita del Dogato. Innanzitutto, come abbiamo precedentemente osservato, vi era la posizione disperata del partito raspante che, pur di non cedere all’avversario e perdere il potere, preferì indirizzarsi verso questa nuova forma di governo. In secondo luogo fu complice anche l’accortezza dello stesso Dell’Agnello che, molto astutamente, seppe approfittare del momento mostrandosi come la personalità giusta nel momento giusto. Da ultimo non bisogna dimenticare l’intenso desiderio di pace e tranquillità che regnava tra i cittadini di Pisa in quel periodo, ed è giusto ipotizzare che l’elezione del Dell’Agnello fosse sì voluta dal partito raspante, ma con la cooperazione e il consenso di alcuni bergolini che altro non desideravano che il ritorno della quiete e dell’ordine in Pisa.

Il Dogato di Giovanni Dell’Agnello ebbe una caratteristica fondamentale: la temporaneità, ovvero la durata della carica limitata a un anno. In questo arco di tempo egli avrebbe dovuto aggiustare la situazione e rinsaldare il pericolante predominio del partito Raspante.

Una volta eletto, il 13 agosto 1364, egli si preoccupò subito di riconciliare le relazioni con Firenze e riuscì in pochi giorni, il 30 agosto, a firmare con la città un trattato di pace. Realizzò in questo modo il desiderio della classi

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ASF. Consigli Maggiori, 50, c.37 r t in N. CATUREGLI, La signoria di Giovanni Dell’Agnello in Pisa e in

popolari che erano desiderose di ristabilire relazioni pacifiche con Firenze, ma non soddisfò invece gli armatori e i mercanti, dato che il trattato stipulato non comprendeva nessun tipo di clausola commerciale: i fiorentini non vollero ritornare ad usare Porto Pisano anzi, rinnovarono con Siena gli accordi per continuare a usare il porto di Talamone.

La mancata realizzazione di uno dei punti fondamentali del suo programma politico, fu subito causa di debolezza e instabilità per il potere del Dell’Agnello, già che non riuscì in pratica a far risollevare la città da quel ristagno commerciale in cui era affondata.

Inoltre la successiva condotta di Giovanni dell’Agnello aggravò la situazione: nel suo comportamento si presentarono ben presto i tratti di un atteggiamento di tipo signorile. Prima di tutto il suo tentativo di preparare la successione ereditaria del suo dogato nella persona del figlio, finì per rendergli avversi molti del suo partito; in secondo luogo egli mostrò ben presto la predisposizione a praticare una politica del terrore che, unita alle sue manifestazioni di sfarzo e potenza legate al lusso, alle feste solenni e costose, disgustarono il ceto medio operoso e modesto e il popolo stesso che vedeva in lui l’attuazione di una politica dello spreco. Infine, tenne così di poco conto la magistratura degli Anziani, quasi sottomettendola alla sua volontà, che finì per turbare i sentimenti di tutti i pisani, che vedevano in questa magistratura il simbolo dell’autorità cittadina e della volontà popolare.

Con tale politica Dell’Agnello accumulava sempre più disagio e malcontento e a precipitare le cose contribuì una seconda discesa dell’Imperatore Carlo IV in Toscana: in questa occasione tutti coloro che erano stati in qualche modo danneggiati dalla politica del Doge o che vedevano in lui un pericolo che avrebbe potuto intaccare le tradizionali istituzioni comunali, si rivolsero all’Imperatore affinché si recasse a Pisa e desse una svolta al governo. Ormai il potere del Doge barcollava da tutti i lati e bastò un fatto banale come un incidente avvenuto nei pressi di Lucca, con la

conseguente rottura di una gamba, a far scoppiare a Pisa i tumulti che portarono alla fine del suo dogato nel 1368. Possiamo leggere in questo fatto l’opposizione dell’oligarchia cittadina all’instaurarsi di una signoria permanente, anche se poi, come già anticipato, anche l’esperienza di Pietro Gambacorta si rivelò essere un tentativo di signoria.

L’8 settembre 1368, quando il Dogato di Giovanni dell’Agnello fu dichiarato decaduto, vennero eletti nuovi Anziani e tornarono in città gli esiliati Bergolini, ad eccezione di Pietro Gambacorta il quale, non potendo rientrare a Pisa, entrò a Calcinaia, che era lontana una decina di miglia.

Ritornati dall’esilio i Bergolini, grazie anche all’appoggio dei mercanti e degli armatori, che erano rimasti insoddisfatti dalla politica raspante, riacquistarono il predominio in città, pur condividendo ancora l’esercizio effettivo del potere coi Raspanti. Effettivamente questa convivenza e ripartizione delle cariche pubbliche, invece di acquietare gli animi, finì per esacerbare i conflitti, dato che da una parte i Bergolini si sentivano ormai rafforzati dal loro ritorno in Pisa, da quell’altra i Raspanti volevano riacquistare il potere perduto e non era loro intenzione abdicare dalla scena politica. Tutto ciò peggiorava sempre di più la situazione degli armatori e dei mercanti che già si trovavano in una congiuntura sfavorevole, così come degli artigiani, categorie queste che per il miglior svolgimento delle loro funzioni avevano bisogno di uno stato di quiete e tranquillità. Per il raggiungimento di questo scopo nacque allora una specie di associazione giurata: la Compagnia di San Michele che repentinamente cacciò sia i Bergolini che i Raspanti e, in accordo con l’imperatore, pose al governo effettivo della città la magistratura degli Anziani, sui cui atti la Compagnia stessa cominciò ad esercitare una stretta sorveglianza. Come riporta il cronista Anonimo infatti, la Compagnia controllava in modo incisivo l’operato degli Anziani:“E di dì e di notte faceano grandissime guardie per la cità, e sempre li Consiglieri della ditta Compagna stavano dentro nel rifettoro de’ frati di Santo Michele a governar Pisa. E li Anziani di Pisa non poteano

far nulla senza licenza della ditta Compagna. E dato per cenno se fusso romore o nulla cosa di suonar lecampane di San Michele, e ognuno debbia traggere e mettere a disfasione chie sucitasse romore.”36

Ritrovata la pace e la concordia cittadina, le funzioni potevano riprendere serenamente se non fosse che ancora doveva essere aggiustato un punto focale: il ricongiungimento con Firenze e la ripresa delle relazioni commerciali che vedessero l’utilizzo da parte dei fiorentini di Porto Pisano. La Compagnia di San Michele sapeva bene che tale compito poteva essere raggiunto soltanto dalla famiglia Gambacorta, che sempre aveva avuto buoni rapporti coi fiorentini e su cui questi riponevano la massima fiducia: infatti, come vedremo più avanti, Pietro Gambacorta trascorse gran parte del suo esilio proprio a Firenze.

Fu quindi la Compagnia di San Michele a volere il rientro dei Gambacorta in città e a insistere con l’imperatore Carlo IV, prima tanto ostile, affinché desse il suo assenso al loro rientro. Fu così che il 24 febbraio 1369 Pietro, Gherardo e le loro famiglie, dopo quindici anni di esilio, rientrarono a Pisa, dove furono accolti con gioia sia dal popolo che dalla Compagnia di San Michele.

I Gambacorta erano visti come l’unica possibilità di recupero per la città che con gli anni di governo raspante era sprofondata in una rigida congiuntura economica, dovuta soprattutto alla perdita delle buone relazioni commerciali con Firenze, le quali avevano portato mercanti ed armatori a indebolirsi notevolmente e avevano causato la perdita della stabilità che permetteva il regolare svolgimento delle funzioni cittadine, sia a livello produttivo - economico che a livello politico.

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3.3 Il rientro di Pietro Gambacorta a Pisa nel 1369 e la situazione