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4. IL COMUNE SIGNORILE DI PIETRO GAMBACORTA E LA

4.2 Il rapporto con la civitas

4.2.2 Le opere edilizie

Data la grave situazione economica in cui versava il Comune nel periodo gambacortiano, non può che stupire il fatto che, seppur in così grame condizioni, il governo non rinunciasse a intraprendere costosissime opere edilizie di abbellimento della città. Come è stato già in precedenza notato nell’introduzione di questo lavoro, uno dei principali problemi per lo storico che voglia addentrarsi nello studio del Trecento pisano, è la sostanziale scarsezza di documentazione archivistica. Già sono state evidenziate le cause di questa problematica, basti qui sottolineare che questa complicazione andava a toccare anche la questione dell’edilizia: sostanzialmente non vi è la

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Le informazioni riguardanti questo argomento sono state principalmente tratte dal saggio di G. CICCAGLIONI, “ Note sui rapporti tra i signori pisani e il patrimonio culturale cittadino nel Trecento.”

possibilità di venire a conoscenza di quale fosse l’attività dei signori in campo edilizio attraverso la conoscenza dei documenti d’archivio. Come ha giustamente fatto notare lo storico Giovanni Ciccaglioni, è però possibile ricostruire, seppur in parte, la trama del rapporto tra la civitas pisana, di cui i signori furono l’elemento centrale, e ciò che veniva inteso come “patrimonio culturale” nel corso del Trecento, andando ad analizzare il modo in cui i signori si inserirono volta volta nel tessuto istituzionale ed edilizio cittadino. Costruire opere edilizie per il Comune significava, al tempo, proporle come elementi identificativi del patrimonio culturale della civitas: far innalzare un palazzo, un ponte o sostenere la ricostruzione di una chiesa, permise ad alcuni signori di inserirsi nella trama delle istituzioni politiche locali, conferendo un alto grado di legittimità al proprio potere. Quello che interessa indagare è quindi il modo in cui l’uso di determinati elementi architettonici, artistici ed urbanistici, permise ad un soggetto politico, i signori pisani, di ancorarsi alla società cittadina, assumendo una determinata fisionomia istituzionale, riconoscibile e quindi totalmente accettabile dagli abitanti.

Già prima di Pietro Gambacorta, precedenti signori pisani avevano usufruito delle opere edilizie per esprimere la propria autorità politica e manifestare in maniera simbolica il proprio potere: in questa sede mi sembra interessante sottolineare, prima di passare all’analisi dell’attività edilizia nel periodo gambacortiano, in quale modo si cercò di cancellare l’operato del Doge Dell’Agnello in questo senso, giacché, al Comune premeva eliminare il più velocemente possibile quelli che erano gli edifici o luoghi – simbolo del suo dominio. L’incidente subito dal Doge Dell’Agnello nei pressi di Lucca, con la conseguente rottura di una gamba, segnò l’inizio della sua fine: la debolezza fisica del Doge, si tradusse immediatamente in debolezza del suo regime. Quando il suo potere ormai decadde nel 1368, e ancora prima dell’assunzione di Pietro Gambacorta a Defensor populi nel 1370, fu fatta un’opera di ricostruzione e rimodellazione del patrimonio documentario e

monumentale: per prima cosa il quadriennio 1364 – 1368, che aveva visto il predominio del Doge sulla città di Pisa, fu indicato come periodo di tirannide. In secondo luogo il Comune, soprattutto tramite i suoi maggiori magistrati, gli Anziani, espresse la sua volontà di non voler più tollerare un potere dispotico di questo tipo e mosse verso un processo di decostruzione dell’immagine del Doge Dell’Agnello: l’intento era di eliminare non solo ciò che egli aveva costruito di nuovo in Pisa, ma anche ciò che egli aveva intenzione di costruire o modificare, all’interno del patrimonio culturale cittadino. Il Comune era determinato a cancellare quei quattro anni di governo dittatoriale, eliminandone i ricordi fisici e visivi e costruendo un’aurea di negatività intorno al ricordo di Giovanni Dell’Agnello. Mi sembra importante sottolineare questo fatto a riprova della potenza che possedevano in quel periodo gli edifici pubblici, alcuni luoghi in particolare, come una piazza o un ponte e le opere d’arte, nell’immaginario cittadino: l’impatto visivo di una determinata costruzione era molto forte e colpiva direttamente le coscienze dei cives dando loro una diretta rappresentazione del potere governativo. Perciò, eliminando i residui materiali e visivi di un periodo particolarmente negativo, era probabile che anche questo venisse lentamente dimenticato. I vecchi luoghi – simbolo, le vecchie strutture, andavano eliminate e sostituite con altri elementi raffiguranti la rinnovata situazione governativa. Perciò, appena due mesi dopo la caduta del governo di Dell’Agnello, gli Anziani decisero di far rimuovere le sue insegne, sostituendole con quelle del Comune tornato a nuova libertà. Un fatto del tutto degno di nota e per noi particolarmente interessante, in quanto riguarda da vicino anche Pietro Gambacorta, è che quest’ultimo fu autorizzato a prelevare dal palazzo posto nella cappella di San Sebastiano, a pochi passi dalla residenza degli Anziani del Popolo che era, al momento della caduta del Doge, in fase di costruzione, tutti i materiali necessari per la ristrutturazione della propria abitazione. La particolarità di questa circostanza sta nel fatto che anni prima, proprio Giovanni Dell’Agnello

era stato il responsabile della distruzione della casa del Gambacorta: quindi, di fatto, prelevando tali materiali Pietro Gambacorta altro non faceva che riappropriarsi dei resti della propria precedente abitazione. È questo un fatto di grande valenza politica ed emblematica perché simboleggiava che la costituzione del nuovo regime gambacortiano, passava anche dalla distruzione totale del periodo dispotico di Giovanni Dell’Agnello e che Pietro Gambacorta tornava ad occupare quel posto che anni prima era stato costretto ad abbandonare: distruggere il palazzo che il Dell’Agnello stava facendo costruire, significava eliminare completamente il suo ricordo e utilizzare i suoi stessi materiali per la ricostruzione della domus gambacortiana significava, simbolicamente, costruire anche una nuova giurisdizione, distante da quella precedente.

Dato che abbiamo appena parlato di domus gambacortiana, ritengo sia interessante effettuare una breve analisi della storia delle abitazioni della famiglia Gambacorta per cercare di evidenziare quale sia stato il ruolo da esse svolto nella vicende di questo nucleo familiare. Innanzitutto è necessario fare un appunto sulla differenza che vi è tra una domus e un palazzo: sono esse due tipologia abitative dissimili, la seconda, con una struttura più complessa e articolata, è sostanzialmente lo sviluppo della prima, che è invece più semplice e lineare. Per quanto riguarda, tanto la domus della famiglia gambacorta, quando il successivo palazzo, erano essi collocati nella stessa zona, ovvero nel quartiere di Kinzica, nell’area meridionale della città. Possiamo affermare che corrispondono essi a due stagioni politiche differenti della famiglia: la domus apparteneva infatti alla fase più antica, dove il nonno e il padre di Pietro, Gherardo e Andrea, concorrevano per il governo della città insieme alle altre famiglie del ceto dirigente popolare. Il palazzo Gambacorta, situato sul Lungarno ed oggi sede dell’amministrazione comunale, ebbe origine invece nel periodo di dominio signorile di Pietro Gambacorta negli anni Settanta del Trecento.

La centralità della domus gambacortiana già dagli inizi del secolo può essere messa in evidenza da un episodio in particolare: nel 1310 – 1311 Gherardo, nonno di Pietro, e suo fratello Bonaccorso, ospitarono qui l’imperatore Enrico VII durante la sua permanenza a Pisa. Si può immaginare la concorrenza che doveva essersi creata tra le varie famiglie cittadine per avere l’onore di ospitare una personalità di questo calibro: far alloggiare presso la propria abitazione l’imperatore in persona sottolineava infatti, in maniera immediata, l’importanza della famiglia e dava ad essa un riconoscimento repentino della sua potenza. Il fatto che Enrico VII avesse scelto proprio la residenza dei Gambacorta in carraia Sant’Egidio, era con tutta probabilità legato alle vicende politiche di quegli anni: proprio in quel periodo infatti, erano iniziate le trattative tra l’imperatore e Roberto d’Angiò, capo dello schieramento guelfo della penisola, onde evitare un aperto scontro tra questo e l’impero. Bonaccorso e Gherado Gambacorta avevano legami diretti con la corta angioina, e proprio per questo l’imperatore scelse di risiedere da loro, che erano sicuramente, nel contesto pisano, i più informati sulla questione che da lì a poco l’imperatore avrebbe dovuto fronteggiare. Inoltre, la compagnia dei Gambacorta aveva contatti anche a Palermo, città di Federico III d’Aragona, e aveva quindi buoni rapporti con i siculo - aragonesi fedeli all’imperatore. Bonaccorso e Gherardo rappresentavano, agli occhi di Enrico VII, un collegamento diretto tra la fazione ghibellina e quella guelfa e per questo motivo scelse di risiedere da loro.

Non fu però questa l’unica volta in cui la residenza Gambacorta venne scelta come alloggio temporaneo da un imperatore. Circa quarant’anni dopo Enrico VII, Carlo IV di Boemia, aspirante alla corona imperiale, discese in Italia: il 18 gennaio 1355 entrava in Pisa e si recò anch’egli presso la dimora Gambacorta in carraia Sant’Egidio. La Cronaca di Pisa ricorda dettagliatamente il fasto e la grandiosità dell’abitazione dei Gambacorta che ormai era stata divisa in diverse unità e ampliata per far fronte alla crescita del

nucleo familiare. Questa volta, il fatto che l’imperatore decidesse di risiedere nella domus gambacortiana, non era dettato da motivazioni diplomatico – politiche esterne, bensì era provocato dalla situazione direttamente interna al Comune: anche se mancava un riconoscimento formale infatti, la famiglia Gambacorta, dopo la morte di Ranieri Novello, deteneva il potere a Pisa ormai da otto anni, quindi, preferire la loro residenza per il periodo di permanenza a Pisa, era una scelta quasi del tutto ovvia per l’imperatore. Così facendo inoltre, Carlo IV implicitamente legittimava il potere informale di questa famiglia e, oltre a ciò, consacrava anche il luogo fisico dove questa risiedeva. La situazione cambiò però notevolmente nei quattro mesi seguenti: quando infatti il 6 maggio 1355 Carlo IV fece ritorno da Roma, dove era stato incoronato, trovò il potere della famiglia Gambacorta fortemente indebolito tanto che, egli decise di risiedere questa volta presso il palazzo degli Anziani, e non più presso la loro dimora. Così, la domus di carraia Sant’Egidio, che solamente pochi mesi prima aveva ricevuto la legittimazione formale a simbolo della preminenza della famiglia Gambacorta su Pisa, in quel momento tornò ad essere una semplice sontuosa dimora di una ricca famiglia di mercanti.

Passando adesso ad analizzare l’altro tipo di dimora che abbiamo in precedenza definito palazzo, possiamo a tutti gli effetti vedere nella sua costruzione uno dei maggiori effetti della capacità comunicativa dell’edilizia sull’opinione pubblica pisana.

Innanzitutto noteremo come esso differisca in maniera sostanziale dalla domus di carraia Sant’Egidio: il palazzo Gambacorta fu voluto da Pietro e la sua costruzione iniziò nel 1386; si trovava sempre nel quartiere di Kinzica ma spostato più a nord, sul Lungarno, affacciando direttamente sul fiume. Si collocava in un contesto già di per sé aristocratico, dato che andava a situarsi all’interno di una numerosa serie di residenze aristocratiche che davano anch’esse sull’Arno. Proprio per questo, come è stato giustamente notato dallo storico Giovanni Ciccaglioni, possiamo osservare in questo spostamento di

residenza il palesarsi di un netto fenomeno di “imitazione” dello stile di vita aristocratico tipico della tradizionale nobiltà cittadina, da parte di quella nuova e più recente nobiltà di origine popolare. Anche se, più che a una sistematica imitazione e completa adesione agli stili di vita aristocratici possiamo, nel caso di Pietro, parlare di recupero e reinvenzione di questi valori. Innanzitutto infatti, la scelta di risiedere lungo il fiume Arno, non era una predilezione esclusiva delle consorterie aristocratiche pisane, o meglio, non tutte alloggiavano lì. In secondo luogo, il palazzo era una tipologia abitativa nuova anche per le più eminenti famiglie pisane che, sostanzialmente, continuavano a risiedere in domus. Va aggiunto che i Gambacorta si erano già distinti in fatto di originalità nella tipologia di abitazione: già Bonaccorso e Gherardo a inizio Trecento, avevano preferito dotarsi di una domus ricca di giardini interni e loggiati, piuttosto che di una scomoda torre elevata in altezza per sottolineare la potenza della propria consorteria. I popolari in ascesa in quel periodo portavano avanti scelte, anche edilizie, diverse, per distinguersi dall’aristocrazia tradizionale. Così, sulle orme dei suoi predecessori, anche Pietro si differenziò in materia edilizia: scegliendo di collocare il suo palatium lungo il fiume Arno, implicitamente posizionava il simbolo del suo potere in una zona centrale, vicina a molte residenze aristocratiche e ben visibile a tutti i cittadini. Inoltre non è da sottovalutare l’importanza che ebbe il fiume Arno in questo spostamento di residenza: dal suo palazzo infatti Pietro ebbe modo di controllare il rifacimento del Ponte di mezzo, iniziato nel 1382, e collocato più o meno di fronte alla sua dimora. Questo ponte era per Pietro, un altro intervento urbanistico di notevole importanza dato che l’opera andava a dotarsi di significati non poco decisivi. Per intenderli a pieno è necessario fare un passo indietro e ricordare il significato politico ed ideologico che assunse la costruzione di questo ponte, inizialmente detto Ponte Nuovo, cominciata nel 1182. La sua realizzazione aveva al tempo rappresentato il punto di massima contrapposizione politica tra alcune delle più importanti consorterie

aristocratiche cittadine, che avevano usato il controllo del passaggio sul ponte come uno dei tratti fondamentali per distinguersi dal resto della popolazione cittadina. La costruzione del ponte aveva quindi avuto un profondo significato politico perché aveva permesso ad alcune famiglie aristocratiche di sottolineare la propria preminenza. Se il rifacimento di tale ponte fu effettivamente voluto da Pietro, come afferma la Cronaca di Pisa, l’opera assunse un forte significato politico per i suoi contemporanei. Infatti, come in passato avevano fatto le antiche consorterie aristocratiche, anche Pietro voleva lasciare il segno a Pisa: egli andava a modificare parzialmente l’assetto fino ad allora costituito nel centro città, toccando un elemento fondamentale quale era il ponte, poiché era ben consapevole dell’importanza che questo assumeva nella coscienza ideologica pisana. In questo modo infatti, attingeva a quel serbatoio di memorie usato dai pisani per costituire la propria identità di cives. Il rifacimento del ponte veniva fatto da Pietro con la motivazione di abbellimento della città perché di fatto esso “era tutto di legname, ’cietto che llo fondamento di sotto ch’era di pietre. Ed èravi suso dimoute botteghe di legname, cioè mercciai e coltellinai, borsai, calsulai […]. Però che ’l ponte si dè’ rifare tutto di pietre e non botteghe nessuna suso, acciò che ’l ponte fusse che chie montasse susso vedesseno lo dilungharno apertamente e non acupasse la veduta dell’Arno e lle chase del dilungarno, il bello di Pisa, però che ’l ditto ponte si è in del mezzo della cità de l’Arno di Pisa. […]. E questo rifacimento si fu, che ’ll ditto messe Piero Ganbacorta volse si faciesse lo ponte tutto di pietre ed archivolte, cioè tre archi, per più bellessa.”83 Ma, dietro questa motivazione di abbellimento della città, stava la volontà di Pietro Gambacorta di legare il suo nome e il suo ricordo a uno dei maggiori interventi architettonici del Comune.

Si occupò quindi di smantellare tutte quelle botteghe che il ponte ospitava, e che fece poi ricostruire in parte alle estremità del ponte stesso, e si prodigò in

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ben precise indicazioni su quella che doveva essere la nuova fattura del ponte, in pietra e con archivolte appunto. Modificando uno dei punti cardinali dell’edilizia civica pisana, Pietro legava per sempre il suo nome alla storia architettonica della città, tant’è vero che, questo intervento assunse un significato politico anche più profondo di quello della costruzione del suo palatium. Quest’ultimo infatti, una volta concluso il periodo di governo gambacortiano, andò incontro a un percorso di emarginazione rispetto alla topografia del potere locale; il Ponte di Mezzo invece, rimase sempre tra i simboli cittadini più importanti e i cives pisani potevano sempre ricordare l’intervento architettonico promosso dal Gambacorta su di esso.

Sono stati quindi sottolineati quelli che furono i maggiori interventi di Pietro Gambacorta in tema di edilizia cittadina, quelle iniziative cioè, che contribuirono a fissare nell’identità comunale pisana la figura del dominus e del suo potere. L’edilizia contribuiva in maniera essenziale a dotare la cittadinanza di simboli e luoghi di riferimento attorno ai quali circoscriversi per dotarsi di una comune identità. Interventi come quelli del Gambacorta di posizionare il proprio palazzo in una nuova e strategica posizione, o di modificare l’aspetto del principale ponte cittadino, contribuirono a dotare Pietro di visibilità e credibilità politica, ancorandosi alla società cittadina assumendo una fisionomia istituzionale riconoscibile e accettabile da tutti i cives.

4.2.3 La ricerca del consenso. Due esempi: Il ciclo pittorico di San Ranieri