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CAPITOLO 2 AREA DI STUDIO

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 2

AREA DI STUDIO

Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna si estende su un vasto territorio a cavallo tra Romagna e Toscana, tra le province di Forlì-Cesena, Arezzo e Firenze; il crinale appenninico oltre a segnare il confine geografico, segna anche una sorta di confine naturale tra il versante tirrenico e quello adriatico. Le valli del Tramezzo, del Montone, del Rabbi e del Bidente solcano il versante romagnolo; le valle del Bidente è, a sua volta, suddivisa nei tre rami di Campigna, Ridracoli e Pietrapazza che si congiungono poco sopra Santa Sofia.

Dallo sbarramento del fosso della Lama con un’imponente diga ad arco alta più di 100 m, costruita poco a monte del paese di Ridracoli, si è ottenuto il bacino artificiale di Ridracoli, lungo circa tre chilometri che dal 1987 è entrato in funzione come complesso sistema di distribuzione idrica, servendo, con i suoi oltre 30 milioni di m3 di acqua, 42 comuni della riviera romagnola - marchigiana e la

Repubblica di San Marino, oltre alle città di Forlì, Cesena e Ravenna. Il versante toscano comprende, oltre ad una piccola porzione del Mugello (provincia di Firenze), l’ampia valle del Casentino, ove, alle pendici del Monte Falterona (1654 m s.l.m.), si trova la sorgente del fiume Arno. Questo rilievo insieme al vicino Monte Falco (1658 m s.l.m.) costituisce il punto più elevato del tratto di crinale incluso nel

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Parco. Il versante toscano è solcato dalle valli dei torrenti Staggia, Fiumicello, Archiano e Corsalone, affluenti di sinistra dell’Arno. Il confine del Parco verso est è delimitato dal Monte Penna (1238 m s.l.m.) sede del celebre Santuario francescano de La Verna. Nel cuore del Parco, a cavallo del crinale tosco - romagnolo sono presenti due importanti Riserve Integrali, quella di Sasso Fratino, gestita direttamente dall’Ufficio Tutela Biodiversità – CFS di Pratovecchio, e quella della Pietra. Tali porzioni particolarmente protette di territorio sono in continuità con il sistema delle Riserva Naturali Statali Biogenetiche Casentinesi, ancora a gestione diretta dell’UTB di Pratovecchio: Camaldoli, Scodella, Campigna e Badia Prataglia.

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L’area interessata dal presente studio è rappresentata dalla valle Bidente di Pietrapazza (comune di Bagno di Romagna - Provincia di Forlì - Cesena), i rilievi standardizzati sono stati condotti dal paese di Poggio alla Lastra fino al crinale appenninico, interessando tutto il bacino idrografico del Bidente di Pietrapazza e dei suoi affluenti. La superficie dell’area di studio ammonta a 3240 ha, e presenta un perimetro di 31,64 Km. Lo studio è stato svolto su territorio protetto, incluso nel Demanio Regionale e Statale, ed in zone sottoposte ad attività venatoria. Struttura di appoggio e coordinamento, per quanto riguarda la raccolta e l’elaborazione dei dati, durante il periodo di ricerca, è stato il Centro di Educazione Ambientale del Mulino delle Cortine, gestito da Legambiente Foreste Casentinesi che, in accordo e collaborazione con l’Ente Parco Nazionale ed il Corpo Forestale dello Stato, ha avviato un’indagine ad ampio raggio sulla fauna vertebrata, in particolare nelle Riserve Naturali Casentinesi, al fine di conoscere i livelli di Biodiversità presenti su questo territorio.

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2.1 La Valle del Bidente di Pietrapazza

La valle del Bidente di Pietrapazza, la più meridionale delle valli romagnole incluse nel Parco Nazionale, mostra peculiarità naturalistiche particolari rispetto alle valli più a Nord e soprattutto, rispetto alla vallata Casentinese. Ha un andamento Nord-Sud ed è più estesa nella zona più prossima a S. Sofia, per poi restringersi da Poggio alla Lastra fino a Pietrapazza e ritornare ampia da Ridolmo alla Giogana (il crinale che separa Romagna e Toscana).

Bosco misto di abetina e faggio

Dal punto di vista idrografico il Bidente di Pietrapazza vede l’apporto di numerosi piccoli affluenti a carattere torrentizio che vanno a scavare valloni laterali sia sulla destra che sulla sinistra idrografica. Alla destra importanti valli sono nella parte mediana del corso del Bidente: Rio Salso che sbocca all’altezza di Ca’ di Veroli, ha un andamento parallelo alla valle principale, Rio Petroso, che sbocca all’altezza del Poggetto e Valcupa, la cui confluenza si trova sotto Poggio alla Lastra presso il Mulino di Culmolle. Sulla sinistra sono

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numerosi, ma di limitata portata, i torrenti che scendono dal crinale che divide la valle di Pietrapazza da quella dei Ridracoli (fosso del Castagnaccio, fosso di Cannetole tra i maggiori).

Le più elevate altitudini raggiunte nella valle di Pietrapazza sono il Monte Cucco (1331 m s.l.m.) ed il Poggio Rovino (1392 m s.l.m.), la comunicazione con il versante toscano è possibile tramite tre avvallamenti del crinale, il Passo dei Lupatti (1169 m s.l.m.), il Passo dei Cerrini (1264 m s.l.m.) ed il Passo della Crocina (1394 m s.l.m.) che mette anche in comunicazione con la valle dei Ridracoli. Nella parte medio-bassa della valle i rilievi più significativi sono il Monte Carpano (1130 m s.l.m.), il Monte Moricciona (1027 m s.l.m.) ed il Monte Marino (1065 m s.l.m.); nel vallone di Rio Petroso appariscente cima è quella del Turrione, o Monte delle Petrose, (683 m s.l.m.).

2.1.1 Geologia e paesaggio

La situazione geologica del Parco è, ad un’analisi generale, piuttosto omogenea, di fatto tutte le formazioni rocciose sono sedimentarie e disposte in fasce approssimativamente parallele alla linea di crinale. Dal punto di vista paesaggistico si possono notare delle notevoli differenze tra il versante romagnolo e quello toscano, dovute: dalla geologia, in parte all’andamento della stratificazione e in parte alla diversa tettonica (di tipo distensivo in Toscana e compressivo in Romagna). Gli strati verso la Romagna sono più verticali e affiorano secondo un modello geologico detto a “reggipoggio”, composti

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dall’alternanza di strati più compatti d’arenaria e di strati più erodibili di marna.

Da tale situazione deriva un paesaggio completamente diverso tra i due versanti: sul versante adriatico le pendenze medie sono maggiori; i torrenti toscani necessitano di 4-5 km di corso per arrivare dal crinale ai 600 m di quota; a quelli romagnoli, invece, bastano 3 km, così generando valli profonde ed incassate. Tali vallate, come la valle del Bidente di Pietrapazza, sono caratterizzate da pendici ripide ove la superficie boscata, derivata da rimboschimenti successivi al dopoguerra e dalla naturale tendenza all’evoluzione verso il bosco da parte dei terreni abbandonati dall’uomo, è alternata ad affioramenti rocciosi marnoso – arenacei dalla tipica conformazione a “strati”.

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Nei pressi dei crinali affiora la Scaglia toscana, formata da argille marnose policrome. Tutte le formazioni, ad eccezione della Scaglia hanno avuto origine in modo analogo a partire da un’era geologica collocabile attorno ai 27 milioni di anni fa. Una caratteristica morfologica interessante, seppur non molto diffusa, è la presenza di grandi fratture, ossia cavità di origine tettonica generate dalla rottura della rigida massa rocciosa. Da tutti i substrati presenti, escluse le argille, derivano suoli profondi e di buona fertilità favorevoli allo sviluppo del bosco. Sul versante romagnolo, ed in particolare nelle valli del Bidente, intensamente abitate fino a 40 – 50 anni fa, registriamo la presenza di terreni più poveri in quanto siamo passati da un uso del suolo di tipo agricolo – pascolivo, ad un completo abbandono di esso fino a giungere ai casi in cui il dilavamento delle acque su terreni sfruttati ha asportato completamento il suolo mettendo a nudo la matrice rocciosa sottostante. Gli estesi rimboschimenti del dopoguerra hanno in gran parte sanato questa situazione causata dall’abbandono delle attività agricole tradizionali, contribuendo ad un miglioramento qualitativo del terreno ancora in corso. Di fatto, con lo spopolamento della montagna (fenomeno comune a tutta la fascia appenninica settentrionale compresa tra i 500 ed i 1200 m di quota), la destinazione d’uso del suolo è completamente cambiata e con essa le componenti faunistiche e vegetazionali legate alla presenza di aree aperte e coltivate.

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2.1.2 Clima

Nella regione montuosa compresa nel Parco il clima è fresco ed umido, caratterizzato da abbondanti precipitazioni e durature nevicate distribuite nell'arco dell'anno. I mesi con le maggiori precipitazioni sono quelli che vanno da ottobre a maggio, in estate i periodi di siccità sono di breve durata. Le differenze tra i due versanti sono molto significative seppure non molto marcate: il versante romagnolo risente maggiormente dell’influenza adriatica e vi si registrano quindi umidità relativa e precipitazioni maggiori. Durante l’inverno l’innevamento della zona del Mulino delle Cortine a 480 m s.l.m. è paragonabile, come durata delle precipitazioni, permanenza della neve al suolo e spessore del manto nevoso, a quella presente sul versante casentinese a quote comprese tra 800 e 1000 m s.l.m..

Radura innevata

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In inverno assistiamo anche al ristagno di nebbie, provocate dalle masse nuvolose bloccate dall’Appennino. I venti sono frequenti solamente sul crinale. Spesso possiamo notare fenomeni quali la "galaverna" e il "gelicidio": la prima è provocata dalla condensazione di aghi di ghiaccio su oggetti e piante a fronte di elevata umidità relativa e temperature molto basse; il secondo si verifica con la caduta di una leggera pioggia su corpi gelati con formazione di spessori di ghiaccio di alcuni centimetri. Entrambi i fenomeni sono molto dannosi per la vegetazione, soprattutto se sopraggiunge un forte vento che facilmente spezza le piante. Nei ripidi e nascosti canali esposti a nord (Poggio Rovino, Poggio allo Spillo) la neve si mantiene anche alla fine della primavera.

2.1.3 Flora e vegetazione

La valle del Bidente di Pietrapazza, area in cui si è svolto il presente studio, ha subito nel corso del ‘900 un progressivo spopolamento. Precedentemente alla Seconda Guerra Mondiale tale territorio era caratterizzato da un’organizzazione a poderi isolati costituenti comunità facenti riferimento alla parrocchia più vicina. L’abbandono delle case (ora per la maggior parte in rovina) e delle attività tradizionali legate alla presenza umana (coltivazioni di sussistenza, allevamento ovino e bovino, regime di ceduo per le superfici boscate alle quote medio-basse), fenomeno occorso negli ultimi trenta-trentacinque anni (gli ultimi abitanti “storici” della alta valle hanno abbandonato le loro terre all’inizio degli anni ’70) ha portato a cambiamenti ambientali notevoli: si è passati da una situazione di

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agricoltura estensiva montana, con ampi spazi aperti, pascoli, essenze arboree da frutto (castagni, Rosacee), boschi naturali ceduati, sui crinali (cerrete) e sul fondo delle valli (vegetazione ripariale), a superfici quasi esclusivamente forestate in evoluzione verso la forma fustaia.

Cà di Giorgio

Attualmente dal punto di vista fito – geografico possiamo individuare due tipi di orizzonti vegetazionali: quello montano e quello submontano – collinare. Nella fascia montana, dai 1200 m s.l.m. fino alla cima dei poggi più elevati, è il faggio (Fagus sylvatica) che la fa da padrone, esso è infatti la specie arborea più adattata ai rigori delle zone di crinale, ai fenomeni meteorici invernali quali il gelicidio e la galaverna, ai venti che solitamente spirano alle altitudini maggiori. L’areale del faggio nella valle di Pietrapazza, è più o meno, lo stesso rispetto a quello che occupava prima dello spopolamento e dell’abbandono del territorio, di fatto le quote più elevate sono sempre state destinate a “Foresta” (per la produzione di materiale da costruzioni e legname industriale) dal Regio Corpo Forestale, prima

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della guerra, e dall’ASFD successivamente, in qualità di terreni appartenenti al Demanio Statale.

Sempre nell’orizzonte montano, sui versanti e delle vallette a più elevata umidità riscontriamo l’abeti – faggeta, una ricca fitocenosi dominata dall'abete bianco (Abies alba) al quale troviamo associato fondamentalmente il faggio. Tale associazione, nelle zone di foresta più strutturate e sviluppate, sta a mostrarci il tipico bosco misto originario della catena appenninica. Oltre al faggio registriamo la presenza di altre latifoglie: l'acero di monte (Acer pseudoplatanus), l'acero riccio (Acer platanoides), il tiglio (Tilia platyphyllis), il frassino (Fraxinus excelsior), l'olmo montano (Ulmus glabra), il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia) e l'agrifoglio (Ilex aquifolium). Comuni sono il salicone (Salix caprea), il maggiociondolo (Laburnum anagyroides), il nocciolo (Corylus avellana), il corniolo (Cornus mas), l’orniello (Fraxinus ornus). Presente anche il tasso (Taxus baccata), con esemplari vetusti sui versanti scoscesi. Le pratiche silvicolturali sono intervenute soprattutto sul secondo tipo di foresta, essa, tranne che per alcuni lembi, ha subito conversione ad abetina pura coetanea od a monotone fustaie monospecifiche di faggio nelle fasce altitudinali di crinale.

Nell’area di studio non esistono praterie primarie, cioè di origine completamente naturale, in quanto, data le modeste altitudini la foresta arriva anche sulle cime più alte. Le praterie esistenti sono il risultato di tagli del bosco e del seguente utilizzo come pascoli. L’azione di piantumazione di alberi autoctoni e di specie alloctone svolta dall’Azienda di Stato Foreste Demaniali fino agli anni ’60-’70 è

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ben evidente anche alle quote meno elevate della valle, nell’orizzonte sub - montano.

I paesaggi submontani e collinari non rappresentano i boschi mediterranei più tipici, in quanto hanno una composizione tale che li pone in una posizione di contatto con le foreste eurosiberiane e perciò viene chiamata vegetazione submediterranea. I boschi della Romagna, come quelli di gran parte dell'Appennino, hanno la particolarità di essere costituiti dalla mescolanza di un elevato numero di latifoglie decidue, soprattutto nei versanti freschi. Si trovano il cerro (Quercus cerris), il carpino nero e bianco (Ostrya carpinifolia e Carpinus betulus), l'orniello (Fraxinus ornus), il sorbo (Sorbus domestica) ed anche il tiglio (Tilia tormentosa) e la rovere (Quercus robur).

Il castagno (Castanea sativa) è associato in tutta l'area di studio a misti di latifoglie o cerrete. Esso è stato coltivato sul versante toscano fin dal tempo dei Medici, in piccoli appezzamenti è riscontrabile anche sul versante romagnolo ma, come associazione monospecifica, esso è praticamente scomparso, ciò in seguito al progressivo spopolamento delle zone montane e alle gravi patologie insorte nelle piante. Nell’orizzonte sub – montano sono molto frequenti i rimboschimenti, in prevalenza di pino nero (Pinus nigra), pino silvestre (Pinus silvestris) e abete di Douglas (Pseudotzuga menziiesi) che, insieme alle praterie post-colturali, indicano attività agricole da poco dismesse. Nella valle di Pietrapazza possiamo ammirare ottimi esempi di praterie originatesi per intervento antropico (Eremo Nuovo, Ca’ Morelli, Monte Pezzolo, Siepe dell’Orso) superfici più o meno estese

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classificabili come pascoli o ex pascoli. Nei coltivi e nei pascoli definitivamente abbandonati si instaura una vegetazione che prelude all'affermazione del bosco misto di querce ed altre latifoglie. In queste comunità preforestali si trovano pure esemplari di roverella (Quercus pubescens), orniello (Fraxinus ornus) ed altre specie aboree. Sui versanti erosi è diffusa una vegetazione erbacea, in genere molto rada, costituita da piante tenaci e resistenti alla siccità e allo sbriciolamento della friabile roccia marnoso-arenacea. Fra queste da segnalare la Sesleria italica, una graminacea calcicola endemica dell'Appennino tosco-romagnolo e di quello umbro-marchigiano settentrionale. Altre tipiche piante con portamento prevalentemente arbustivo, presenti in questi ambienti aridi ed esposti agli agenti atmosferici sono: il ginepro comune (Juniperus communis), la ginestra (Spartium junceum e Sarothammus scoparius), il rovo (Rubus sp.), il biancospino (Crataegus monogyna) e la rosa canina (Rosa canina).

2.1.4 Fauna

E’ evidente come i cambiamenti ambientali succedutisi negli ultimi trenta anni (dalla presenza all’assenza umana, dalla campagna al bosco ed alla foresta) abbiano influenzato anche le comunità animali della valle. Si è passati da habitat perfetti per la vita della cosiddetta “piccola selvaggina stanziale”: Galliformi autoctoni (starna italica, pernice rossa, coturnice e francolino) e lepre, ad habitat di elezione dei grandi Mammiferi erbivori, i Cervidi ed il cinghiale. Ripeto che proprio l’abbandono da parte dell’uomo, la mancanza del suo “presidio” sul territorio, ha rappresentato la parte fondamentale di

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questi cambiamenti. L’evoluzione dei pascoli verso il bosco ha sottratto zone di rifugio e riproduzione alla piccola selvaggina, fornendone invece agli schivi Ungulati, la mancata attività venatoria, dal dopo guerra in poi, ha paradossalmente portato alla scomparsa pressoché totale di importanti presenze faunistiche consentendo la crescita, fino a livelli elevati, delle specie di grossa taglia, e del cinghiale in particolare.

In generale il complesso forestale casentinese possiede una fauna ricca, con catene trofiche complete e diversificate. La valle del Bidente di Pietrapazza fornisce un ottimo spaccato delle presenze faunistiche dell’intero Parco Nazionale. Tra i mammiferi predatori originari il solo rimasto è il lupo (Canis lupus); lince ed orso sono scomparsi, con la loro presenza testimoniata da alcuni toponimi (es. Siepe dell’Orso). Nell'area delle Foreste Casentinesi il predatore non si è mai estinto. Le tracce della sua presenza sono sempre state costanti, in passato per i racconti dei pastori e per l’attività di sterminio portata avanti dall’uomo con le figure dei ”lupari”. Attualmente, studi più o meno recenti (Gambogi, 1999; Gazzola, 2000; Boscagli et al., 2001; Cicotti e Lucchesi, 2005), ci indicano come quest'area sia uno dei più importanti sub-areali italiani, un'ideale zona di transito fra l'Appennino centrale e quello settentrionale e tra questo e l’area alpina. Il 90% della dieta del lupo nelle Foreste casentinesi è costituita da ungulati (Mattioli et al., 1995): situazione del tutto inconsueta per l’Europa, tipica dei parchi meno antropizzati del grande nord. Il nucleo di lupi insediato nella valle di Pietrapazza è stato recentemente sottoposto a studio (Cicotti

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e Lucchesi, 2005): qui la specie trova condizioni ideali per una presenza stabile e continua, grazie alla elevata boscosità, e soprattutto all'alta densità di prede naturali, fattore risultato determinante.

Tratto caratteristico del Parco, e della nostra area di studio, è la presenza di 5 specie di Ungulati, di cui 2 autoctone (cervo e capriolo) e 3 alloctone (cinghiale, daino e muflone). Di queste, solo il capriolo (Capreolus capreolus) non si è mai estinto, dati accertati della sua presenza si hanno a partire dall’800 (Tramontani, 1800; Gabrielli e Settesoldi, 1977). Gli altri Ungulati sono stati reintrodotti, o introdotti, più volte nel complesso delle Foreste Demaniali Casentinesi. Le prime immissioni vennero effettuate dal boemo Karl Siemon per conto del granduca di Toscana, Leopoldo II, a partire dal 1832. Al fine di risanare l’area della “Reale Foresta Casentinese”, il Granduca gli affidò l’incarico di Amministratore ed Ispettore forestale. Siemon, attorno al 1840, introdusse in zona il cervo (Cervus elaphus), proveniente dalla Boemia, il muflone (Ovis aries), proveniente dalla Sardegna, e il daino (Dama dama). Per quest’ultimo non si hanno notizie di quale fosse la sua provenienza. Il capriolo, come detto già presente, non fu oggetto di ripopolamento.

Tutte le specie trovarono le condizioni adatte tranne il muflone, specie più adatta alle alture sassose e aride, non ai climi umido – oceanici presenti sul crinale appenninico. Durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale l’Appennino settentrionale subì un elevato sfruttamento da parte delle milizie, inoltre le fasi di “anarchia” predenti e successive i conflitti, oltre alle evidenti condizioni di miseria da parte delle popolazioni locali condussero alla distruzione

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di gran parte degli ecosistemi forestali. Le popolazioni di ungulati subirono forti decimazioni, tantoché nel periodo post-bellico degli anni ’50, si parlava di pochi cervi e caprioli rimasti.

Il ripopolamento successivo venne curato, dal 1950 al 1964, dall’Azienda di Stato per le Foreste Demaniali; in particolare, nel 1958, fu allestito un recinto di grandi dimensioni nella valle del Bidente di Ridracoli, in località “La Lama”, allo scopo di permettere l’acclimatazione dei mufloni, provenienti dalla Sardegna e dei daini prelevati dalla Tenuta Presidenziale di San Rossore.

Il daino ha rappresentato per molto tempo una delle specie più abbondanti soprattutto nel versante romagnolo. Negli anni '80 ha subito un notevole ridimensionamento probabilmente in seguito ad un insieme di fattori climatici (elevato innevamento invernale) e di competizione inter – specifica (in seguito all’espansione della popolazione di cervo). Non è pensabile un’influenza pesante causata della predazione operata dal lupo (Matteucci et al., 1995). Attualmente il daino occupa una vasta area del Parco alle quote inferiori (600-1000 m s.l.m.); esso è l’ungulato sicuramente più abbondante nell’area di studio.

Per il cervo le Foreste Casentinesi hanno rappresentato il centro di diffusione in tutto l'Appennino centrale, anche oltre i confini del Parco. L'attuale areale del cervo nell’area protetta comprende una superficie di quasi 28000 ettari in Toscana e di 16500 ettari in Romagna (Mattioli, Mazzarone et al., 2001). Negli ultimi 10 anni la popolazione di cervi ha subito un sensibile e costante aumento

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distributivo e numerico. Lo studio che andiamo a presentare è stato svolto per fornire dati nuovi circa l’espansione di areale di questa specie, espansione che vede le valli del Bidente come sicure direttrici.

Il capriolo occupa tutta la superficie del Parco ed è stato per molto tempo l’ungulato più abbondante; esso è distribuito uniformemente nell'intera area data l'assenza di barriere ecologiche. Le caratteristiche ambientali, la competizione con gli altri ungulati, la predazione da parte del lupo, e il clima selettivo, provocano fluttuazioni annuali della densità della sua popolazione. Negli ultimi 10 anni ad un aumento del cervo è corrisposto un calo, seppur limitato, del capriolo. Il cervo sembra essere favorito nella competizione spazio - alimentare per lo sfruttamento delle risorse ambientali dell'area protetta, caratterizzata da una crescente presenza di boschi ad alto fusto. Il capriolo, infatti, è un brucatore, invece il cervo è un pascolatore capace di cibarsi di corteccia negli inverni rigidi grazie ad un rumine più grande. Anche la maggiore mobilità del cervo, costituisce fattore che lo favorisce nel territorio del Parco, oltre al fatto che il cervo essendo più grande ha una migliore capacità di difesa dai predatori. Nella valle del Bidente di Pietrapazza sembra che la presenza del capriolo si attesti, con consistenze presumibilmente non elevate, nelle fasce altitudinali inferiori (parte Nord della valle) e nelle zone di crinale (parte Sud della valle).

Il cinghiale (Sus scrofa) è ricomparso in quest'ultimo trentennio dopo secoli di assenza dalle foreste del Parco, tantoché la sua presenza è da considerare alloctona. Principalmente la sua immissione è

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avvenuta, sui due versanti, per scopi venatori, anche se il primo rilascio di esemplari è avvenuto, negli anni ’70, ad opera dell’Amministrazione Provinciale di Arezzo, con esemplari provenienti dalla Maremma e dalla Sardegna. Attualmente troviamo un numero imprecisato di esemplari all’interno dell’area protetta (sicuramente più di un migliaio), ma il loro numero è assai variabile a causa degli spostamenti e dell'altissimo tasso riproduttivo di questa specie, oltre che per la gestione venatoria che se ne fa fuori dei confini del Parco. Il cinghiale è divenuto progressivamente un problema per l'agricoltura nelle aree limitrofe al Parco, un provvedimento dell’Ente gestore stesso, che ha suscitato non poche polemiche, ha previsto, oltre a catture periodiche, anche il ricorso alla caccia all’interno dell’area protetta col metodo della “girata”. Il cinghiale, inoltre, può essere un problema per il rinnovamento spontaneo del bosco a causa delle "arature" prodotte quando è alla ricerca di tuberi e radici. Non sembra, attualmente, che il prelievo venatorio nelle aree limitrofe e la predazione da parte del lupo, possano contenere l’espansione della popolazione di questo ungulato.

Il muflone, come detto in precedenza, è una specie che non è riuscita ad avere successo, a causa dell’ambiente non ottimale caratterizzato da inverni rigidi e innevamento eccessivo ed a causa della predazione da parte del lupo (Francisci e Mattioli, 1996, Apollonio com.pers.; Lucchesi et al., 2005). Probabilmente esso è destinato a scomparire da questo tratto di Appennino, ma, nel versante romagnolo, nelle valli del Bidente di Pietrapazza e di Ridracoli, oltre che nelle valli del

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Montone e del Rabbi, continuano a sopravvivere due piccolissime popolazioni che, secondo le ultime stime, non arrivano a raggiungere i 30 capi di consistenza (Lucchesi et al., 2005).

Fra le altre presenze faunistiche possiamo citare i predatori minori: la volpe (Vulpes vulpes), il carnivoro più comune nel Parco, la donnola (Mustela nivalis), la faina (Martes faina), la puzzola (Mustela putorius) e il tasso (Meles meles). Altri Mammiferi presenti sono la lepre (Lepus europaeus), i Roditori arboricoli: scoiattolo (Sciurus vulgaris) e Ghiro (Glys glys); numerosi micromammiferi Roditori ed Insettivori ed un gran numero di specie di Chirotteri dendrofili e non.

L'avifauna del Parco comprende più di 80 specie di uccelli nidificanti, stanziali e non. A questo numero vanno aggiunte le specie non nidificanti di passo, che transitano durante gli spostamenti migratori primaverili ed autunnali, e le specie svernanti. Molti di questi uccelli sono poco selettivi nella scelta dell'ambiente e perciò generalmente presenti in tutto l’Appennino; altri, invece, sono più specializzati e trovano nicchie ambientali specifiche, in particolare nei boschi di alto fusto maturi che costituiscono il cuore del Parco. Sto parlando in particolare del rampichino alpestre (Certhia familiaris) presente esclusivamente nell’abetina pura di Camaldoli (Zona di Protezione Speciale ai sensi delle Direttive CEE “Uccelli” ed “Habitat”). Altre comuni specie sono l'allocco (Strix aluco), varie cince (Parus sp.), il picchio muratore (Sitta europaea), la ghiandaia (Garrulus glandarius) varie specie di Turdidi e Picidi. Tra questi ultimi sicuramente da citare la presenza di una coppia accertata di picchio nero (Dryocopus

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martius). Tra rapaci diurni si registra una preziosa coppia di aquile reali (Aquila chrysaetos) tornate a nidificare nelle impervie balze rocciose del versante romagnolo dopo anni di non costante presenza, oltre a numerosi piccoli rapaci forestali, legati alle aree coltivate o più generalisti (gheppio, poiana, sparviere).

Nel Parco delle Foreste Casentinesi sono presenti 13 specie di anfibi e 11 di rettili, secondo gli ultimi studi. Gli Anfibi Anuri sono presenti con alcune rare specie: il rospo smeraldino (Bufo viridis), e l'ululone dal ventre giallo (Bombina variegata). Gli Urodeli annoverano il tritone punteggiato (Triturus vulgaris), quello carnefice (Triturus cornifex) e il tritone alpestre (Triturus alpestiris), presenti soprattutto nelle piccole e poco comuni raccolte d’acqua. Ancora tra gli Urodeli è possibile avvistare, dopo le piogge estive e primaverili, la salamandra pezzata (Salamandra salamandra) e la rara salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata), entrambe presenti e numerose sul versante romagnolo del Parco ed in particolare nelle valli del Bidente.

Il rettile più noto è la vipera (Vipera aspis), importante anello della catena alimentare in quando predatore di piccoli roditori. Fra i sauri sono presenti e comunemente visibili il ramarro (Lacerta bilineata), la lucertola muraiola (Podarcis muralis) e quella campestre (Podarcis sicula).

I torrenti delle valli romagnole, compreso il corso principale del Bidente, sono ideali per la riproduzione e la crescita di Salmonidi e

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Ciprinidi, favoriti dal regime di protezione stabilito dalla Regione Emilia-Romagna per tutte le acque del Parco.

L’alta qualità delle acque è dimostrata anche dall’abbondanza di Invertebrati: gamberi di fiume (Austropotamobius pallipes) e forse granchi di fiume (Potamon fluviatile fluviatile), la cui presenza è da verificare in qualche fosso laterale, oltre a diverse famiglie di macroesapodi (Plecotteri, Efemerotteri, Dermatteri, ecc..) e varie specie di Odonati.

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