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Centro sociale A.14 n.74-75. La guerra contro la povertà

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74.75

“Centro Sociale”

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Centro Sociale

P eriodico b im e stra le del C en tro di E ducazione P ro fe ssio n a le p e r A ssiste n ti S ociali (CEPAS) - U n iv e rsità d i R om a

C om itato scientifico

A. Ardigò, Istituto di Sociologia, Università di Bologna — \V. Baker, Center for Community Stu- dies, University of Saskatchewan - G. Balandier, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - R. Bauer, Società Umanitaria, Milano - L. Benevolo, Facoltà di Architettura, Università di Venezia - M. Berry, International Federation of Settlements, New York - F. Botts, FAO, Roma - G. Calogero, Istituto di Filosofia, Università di Roma - M. Calogero Comandini, CEPAS, Roma - V. Casaro, Ministero Pubblica Istruzione, Roma - G. Cigliana, Istituto Sviluppo Edilizia Sociale, Roma - E. Clunies-Ross. Institute of Education, University of London - H. Desroche,

Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - /. Dumazedier, Centre National de

la Recherche Scientifique, Paris - A. Dunham, School of Social Work (Emeritus), University of Michigan - M. Fichera, Fondazione « A. Olivetti », Roma - E. Hytten, Stockholm University - F. Lombardi, Istituto di Filosofia, Università di Roma - E. Lopes Cardozo, State University of Utrecht - A. Meister, Sorbonne, Ecole Pratique des Hautes Etudes, Paris - L. Miniclier, Inter­

national Cooperation Administration, Washington - G. Molino, Amministrazione Attività Assi­

stenziali Italiane e Internazionali, Roma — G. Motta, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - R. Nisbet, Dept. of Sociology, University of California - C. Pellizzi, Istituto di Sociologia, Università di Firenze - E. Pusic, Faculty of Law, University of Zagreb - L. Quaroni, Facoltà di Architet­ tura, Università di Roma - M.G. Ross, University of Toronto - M. Rossi-Doria, Osservato- rio di Economia Agraria, Università di Napoli - V. Serafini, Presidenza Consiglio Comuni d ’Europa, Roma - M. Smith, London Council of Social Service - /. Spencer, Dept. of Social Work, University of Bristol - A. Todisco, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea - A. Visalberghi,

Istituto di Filosofia, Università di Roma - P. Volponi, Fondazione « A. Olivetti », Ivrea

-E. de Vries, Institute of Social Studies (Emeritus), The Hague - A. Zucconi, CEPAS, Roma.

C om itato d i red azio n e

Adele Antonangeli Marino — Elisa Calzavara — Teresa Ciolfi Ossicini — Egisto Fatarella — Velelia Massaccesi — Giuliana Milana Lisa — Ernesta Rogers Vacca — Lausa Sasso Calogero.

Direttore responsabile: Anna Maria Levi - Direzione, redazione, amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - 00153 Roma - tei. 573.455

Abbonamento a 6 numeri annuì L. 3.000 — estero L. 4.000 ($ 6,50) — un numero L. 650; arretrati il doppio — spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c.c. postale n. 1/20100 —

Prezzo di questo fascieolo L. 1.300.

Una volta all’anno Centro Sociale pubblica un volume in edizione internazionale dedicato a pro­

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Centro Sociale

scienze sociali - servizio sociale - educazione degli adulti sviluppo di comunità

anno XIV, n. 74-75, 1967

L a g u e r ra co n tro la p o v ertà (T e s ti scelti a cura di E. B. H ill)

Som m ario Ellen B. Hill I I I Oscar Lewis 1 Alvin L. Schorr 12 Lewis A. Coser 21 Peter Townsend 33 Martin Rein 49 e S. M. Miller Richard A. Cloward e Frances Fox Piven

Martin Rein e Frank Riessman

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Introduzione

La cultura della povertà La non cultura della povertà La sociologia della povertà

Il nuovo concetto di povertà in riferimento a società in via di svi­ luppo e a società industrialmente progredite

Povertà, politica, intenzioni: il problema dello scelte

Le burocrazie professionali: il sistema assistenziale come sistema di influenza

98 Programmi di azione oomnnitorin contro In povertà

Bertram M. Beck 112 Teoria e pratica nelPamminietracione di an programma contro la povertà

121 Recensioni

Aurelia Fiorea, L’assistente sociale: analisi di una profes­ sione (T Ciolfi Ossicini); Oscar Lewis, I figli di Sanchez; Oscar Lewis, La vida (A. Rossi); Wilbur Schramm Mass Media and National Development (E Calzavara); Glen H. Beyer e F. H. Nierstrasz, Housing the Aged in Western Countries (A. Florea).

135 Segnalazioni

A cura di Elisa Calzavara, Teresa Ciolfi, Oscar e M, Pia Mussoni, Ernesta Rogers, Mario Zucconi.

193 Documenti

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Introduzione

di E lle n B . H ill

Dobbiamo a George Simmel le prime riflessioni moderne e approfondite sulla condizione dei poveri — e moderne non semplicemente perché scritte all’inizio di questo secolo — le quali, per quanto possa sembrare strano, non sono mai state tradotte dall’originale tedesco in altra lingua.1 Moderne anzitutto per la terminologia sociologica, e per la maniera sociologica di affrontare il proble­ ma, che rappresenta un importante passo avanti rispetto a quella filosofia sociale che nel passato era stata la sola disciplina con cui veniva trattato quest’argomento. Riflettendo sulla condizione dei poveri nella società del suo tempo, cioè nelle nazioni centro-europee di industrializzazione recente, in cui la povertà veniva considerata unicamente come mancanza di denaro cui rime­ diare mediante sistemi di sicurezza sociale (che a loro volta, se sufficientemente perfezionati, avrebbero dovuto eliminare completamente la povertà), Simmel dice:

Voglio illustrare da un nuovo punto di vista ciò che già prima avevo sottolineato, e cioè che il rapporto della collettività con i poveri che fanno parte di essa è una funzione associativa altret­ tanto formale quanto il rapporto del cittadino con il pubblico funzionario, o quello che il contribuente ha con il fisco. In precedenza ho paragonato il povero allo straniero, che e pari- menti contrapposto al gruppo; solo che questa contrapposizione equivale ad una ben determinata relazione la quale lo include nella vita del gruppo come un suo elemento. Il povero sta sì al di fuori del gruppo, essendo un puro oggetto rispetto alla collettività, ma questa estraneità è soltanto una particolare forma di appartenenza.

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azioni e situazioni che determinano il rapporto. Questa duplice posizione che sul piano logico sembra contraddittoria, è un fatto sociologico elementarissimo... La classe dei poveri, special- mente nella società moderna, è un fenomeno sociologico vera­ mente singolare. Se consideriamo la sua importanza e la sua localizzazione nel corpo sociale, essa dovrebbe possedere una grande omogeneità, che però (...) non compare affatto come caratteristica degli elementi che la compongono. Essa è il punto d’arrivo comune ai destini più diversi; le persone vi conflui­ scono da ogni parte della società, e non vi è mutamento, svi­ luppo, miglioramento o deterioramento della vita sociale che non lasci una traccia anche nello strato dei poveri, così come sul fondo di un serbatoio si depositano le sostanze in eccesso. Ciò che vi è di tremendo in questa povertà (a differenza del mero fatto di essere infelici, fatto che ognuno deve decidere da se stesso e che è dolo un aspetto di tutta una situazione individuale) è che ci sono uomini che per la loro posizione sociale sono poveri e niente altro. Ne è una prova particolarmente chiara e, sicura l’abitudine largamente diffusa di distribuire elemosine senza particolari criteri come avveniva nel Medioevo cristiano e islamico: ma proprio in quanto l’elemosina era accettata volen­ tieri come un fatto di obbligo sociale non modificabile non si aveva quel senso di amarezza o meglio di rancore che sono invece presenti in una classe che nell’era moderna viene stimo­ lata a svilupparsi e ad essere più attiva. Il fondamento dell’unità di questa classe è invece una caratteristica puramente passiva, e cioè la circostanza che la società si comporta ed agisce nei suoi confronti in un determinato modo. Quando vengono negati i diritti politici a chi riceve elemosina, questa è la semplice espres­ sione del fatto che sul piano sociale egli non è nulla, eccetto che un povero.

Questa mancanza di una caratteristica positiva propria deter­ mina ciò cui abbiamo accennato sopra, e cioè che lo strato dei poveri, nonostante la eguaglianza delle situazioni individuali, non rappresenta, né all’interno dello strato né all esterno di esso, una forza sociologicamente unificante. Così la povertà offre un quadro sociologico del tutto unico: un certo numero di indi­ vidui — in ragione di un fato puramente personale — viene ad assumere all’interno della collettività una posizione specifica; tuttavia questa posizione è determinata non da quel fato o quello stato proprio ad essi, ma dal fatto che altri individui, associa­ zioni, collettività cercano di correggerlo, cosicché non è l’indi­ genza a fare il povero, ma da un punto di vista sociologico è povero soltanto chi viene soccorso a causa della sua indigenza.2 Il passo che abbiamo citato non ebbe molta eco quando apparve per la prima volta, anzi, possiamo dire che non ne ebbe alcuna. Eppure, mezzo se­ colo più tardi ed in una cultura completamente diversa, si è venuta svilup­ pando una scuola di pensiero che parte da un punto di vista assai simile.

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Benché non sia purtroppo possibile sostenere che la povertà è un fenomeno recente, per fortuna non è neppure recente la preoccupazione per le sofferenze che la povertà porta con sè. Non pensiamo, quindi, che un lettore informato non possa imparare niente di nuovo da un volume che consiste principal­ mente di scritti recenti sugli aspetti teorici e pratici della povertà. A meno che il lettore non si sia tenuto al corrente di questo argomento « » l e t t u r e specializzate e difficilmente a portata di mano, non è molto probabile che abbia già incontrato gli articoli che qui presentiamo.

Questi si possono dividere in due gruppi principali: in uno di questi si cerca di definire la povertà e descriverne gli effetti al giorno d’oggi, o almeno si avanzano proposte per definirla. Nell’altro gruppo, invece, si presentano pro­ poste di azione per alleviare la povertà così come questa appare nelle società tecnicamente più progredite e quindi nel mondo occidentale, se non oggi, almeno in un prossimo avvenire. Quest’ultimo può sembrare che lappresen i un fenomeno piuttosto sorprendente, poiché il progredire della >ndustna .z- zazione è sempre stato ritenuto il principale fattore dello « sviluppo », termine moderno che sta per «abolizione della povertà».

I nostri autori giungono alla conclusione che il miglioramento del hvello di vita di una società, per quanto reale, non conduce necessariamente alla scom­ parsa della povertà sia oggettiva che relativa. In linea teorica la pover a nei paesi progrediti è passata dall’essere un bisogno di maggiori

gno (così sentito) di una migliore distribuzione di risorse sufficienti. Potrebbe sembrare che la soluzione di quest’ultimo problema sia molto piu facile, ma è qui che alcuni dei nostri autori hanno scoperto difficolta, nelle posiztom assunte dalle parti in causa, altrettanto gravi quanto quelle derivanti dalla de­ ficienza di risorse economiche nell’epoca pre-tecnologica.

La scelta degli articoli è stata in parte determinata dal fatto che per la prima volta l’eliminazione della povertà viene intrapresa accettando come condizione sine qua non la necessità di un cambiamento delle strutture sociali; e questo sotto gli auspici governativi di un paese che quasi rappresenta il sistema del libero scambio e del neo capitalismo, cioè gli USA. Il mutamento sociale eh viene prospettato è basato deliberatamente sui principi della partecipazione dei cittadini e quelli della democrazia.

Naturalmente il rendersi conto di un problema è il primo passo verso la realizione di un programma per risolverlo, ma altrettanto importante e il comprendere i poveri stessi; cioè imparare come essi stessi vedano la propria situazione e cosa vorrebbero fare per rimediarvi. Oramai abbiamo sufficiente esperienza nel campo degli aiuti su scala nazionale e internazionale per avere ap­ preso che non si raggiungono modifiche strutturali, e quindi di carattere per­ manente con il semplice mezzo di elargire indiscriminatamente programmi di

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aiuto. D’altro canto, dobbiamo ancora scoprire quali ne siano i motivi prò- fondi, cioè quelli a livello di atteggiamenti e sentimenti. E’ per questo che negli scritti che seguono si sostiene che è altrettanto importante comprendere i poveri in senso profondo quanto l’individuarli, contarli e distribuirli in precise categorie socio-economiche. Un’azione fruttuosa verrà a dipendere, in ultima analisi, da quanto si sia compreso della loro situazione presente e delle vie che vogliono seguire. Soltanto se si sarà in possesso di questo tipo di co­ noscenza diventerà possibile incanalare le loro aspirazioni nella corrente del­ l’azione politica, ed insieme utilizzare la loro comparsa sulla scena per appog­ giare le loro rivendicazioni nei confronti della suddivisione delle risorse della nuova società industriale. In quale misura sia possibile raggiungere questo obiet­ tivo e quali ne siano le condizioni eventuali, seppure esse esistano, è del più grande interesse per i pianificatori sociali in tutto il mondo. Un altro problema è poi quello di vedere quanto di quel processo di provare e riprovare ora in corso negli Stati Uniti sarà applicabile al di fuori di quella società. A causa del­ l’enorme estensione del problema, riteniamo che osservazioni di prima mano su esperimenti che tentano di risolverlo o almeno di attenuarlo debbano essere presentati al maggior numero possibile di persone.

Ciò detto circa le ragioni e la tempestività della nostra monografia, tor­ niamo ora al passato non troppo remoto e cerchiamo di mostrare in qual modo la situazione si sia sviluppata e come essa sia stata considerata dal momento in cui cominciò ad attrarre l’attenzione. Il fatto che essa nacque dalla delu­ sione per il mancato miracolo che ci si attendeva dalla tecnica e dalla razio­ nalità umana, trova anche le sue radici negli atteggiamenti, incoraggiati dalla scienza e dalle sue applicazioni, che portavano a credere l’uomo capace di risolvere ogni problema purché vi si dedicasse con tutta la sua mente; cioè a credere che uno sforzo collettivo per sradicare la povertà ad un livello generale anziché caso per caso è necessariamente il risultato di quella stessa tecnolo­ gia che — per quanto possa aver dato delusioni in questo come in altri campi — tuttavia ci promette gli strumenti per modificare l’ambiente in cui l’uomo vive e ci suscita il desiderio di fame uso.

Non conosciamo gruppi umani che non abbiano sentito la responsabilità per il benessere dei propri membri; storicamente, questi gruppi sono divenuti sem­ pre più grandi col migliorare delle comunicazioni, che hanno superato la li­ mitazione del rapporto fra individui vicini, anche se l’identificazione di ciascun individuo con gli altri è divenuta più tenue proprio in ragione del crescente numero di persone da prendere in considerazione.

Con il crescere del gruppo, un senso del dovere veniva a prevalere sull’im­ pulso spontaneo a dividere le proprie risorse con gli altri, finché la grandezza stessa delle comunità non giunse a richiedere che l ’assistenza di coloro che non erano in grado di provvedere a se stessi fosse presa in mano dalla pubblica amministrazione. Mano a mano che i gruppi aumentavano di entità con il

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crescere della popolazione e dei metodi di comunicazione, di conseguenza cresceva anche la coscienza dei bisogni esistenti; e l’avvento dell’epoca industriale produceva una prima ondata di rapidi mutamenti sociali assai più rapidi che nel passato e quindi più facilmente evidenti per tutti — ma produceva anche le condizioni di una povertà più dura di quanto non fosse esistita in passato, perché concentrata nelle nuove zone industriali. Secondo i principi dei regimi parlamentari che si stavano sviluppando, il governo, anziché i pri­ vati, si assunse, tramite le sue leggi, di provvedere alla regolazione temporanea della situazione, fino a che il « progresso », cioè il reddito reale in continua crescita, non avesse automaticamente eliminato condizioni di lavoro e di vita così basse.

Tuttavia, in pratica, coloro che per incapacità fisica o mentale o per ambe­ due non potevano essere coinvolti nel processo di produzione venivano tra­ scurati: cioè i giovanissimi, i vecchi, i disadattati socialmente, le famiglie nu­ merose nei grandi centri urbani, i deficitari, i malati fisici e mentali e in tem­ pi più recenti coloro le cui capacità tecniche originarie non sono più richieste e che per una ragione o l’altra non riescono più ad acquistarne altre adeguate alle richieste del mercato del lavoro.

Mentre tutto questo ha luogo nei paesi industrializzati, è possibile osservare uno sviluppo parallelo a livello internazionale.3 I paesi che oggi chiamiamo in via di sviluppo, e cioè praticamente tutti quelli al di fuori dell Europa e dell’America del Nord (eccetto il Giappone), non sono realmente divenuti più poveri se non nell’ultimo decennio, e soprattutto in seguito ad una espan­ sione improvvisa della popolazione. Sono sempre stati poveri, ma in modo non sempre chiaramente visibile agli occhi dell’osservatore occidentale, in parte perché quando vennero esplorati non erano considerati parte del mondo del­ l’esploratore, in parte perché essi stessi non si consideravano poveri fino a che non ebbero un termine di paragone, con l’arrivo delle radio dei colonizzatori e infine tramite gli schermi televisivi. Anche per loro l’idea che tutto è possi­ bile e non necessariamente immodificabile è un risultato della rivoluzione industriale vista in altri paesi, e anche della commovente speranza che con l’educazione di una nuova classe dirigente saranno possibili veri miracoli di trasformazione a beneficio di tutti. Come nei paesi industriali solamente co­ loro che sono stati coinvolti nel processo di produzione hanno realmente innal­ zato il loro livello economico, così nei paesi in via di sviluppo solamente co­ loro che hanno avuto accesso alla vita occidentale hanno veramente fatto dei passi avanti. Tuttavia questi ultimi sono una piccolissima minoranza, non so­ lo perché le circostanze hanno offerto questa possibilità solamente a pochi, ma anche perché paesi ad uno stadio pre-industriale non potevano e non pos­ sono mantenere un gran numero di persone a quel livello di vita che le società

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A livello intemazionale, la lotta contro la povertà è stata affrontata in parte mediante mezzi economici — cioè principalmente con investimenti di capi­ tale e crediti a lunga scadenza, ma anche con l’esportazione di conoscenze tecniche verso i paesi poveri, i quali dovrebbero in teoria procedere a solle­ varsi da soli con l’aiuto di queste nuove tecniche. I limiti di questo modo di procedere sono già stati sottolineati da chi scrive in un recente articolo, Rifles­ sioni sull’assistenza tecnica, in cui si sono indicate le ragioni del ritardo nelle trasformazioni sociali, ragioni in genere sottovalutate, sia da chi fornisce che da chi riceve gli aiuti.4

Il Congresso mondiale di Sociologia di Evian del 1966 ebbe un primo seminario su quest’argomento, con contributi provenienti da paesi sia progre­ diti che in via di sviluppo. Quanto i risultati siano stati incerti si può dedurre dal « Sommario interpretativo delle sedute » redatto da Peter Morris, in cui si diceva:

Le discussioni del gruppo di studio hanno mostrato come la concezione della povertà tendeva a trasformarsi in funzione di quell’aspetto della società o dei rapporti intemazionali di cui il relatore si occupava in particolare. Tutti si dono trovati d’accordo nel collegare la povertà con ineguaglianza ed ingiustizia, benché a quanto sembra non è stato possibile trovare un modo unico di integrare questi concetti, rendendoli applicabili in ogni con­ testo. Quando gli studi della povertà sono in correlazione con una politica di sicurezza sociale, misure oggettive del reddito relativo possono essere più importanti che non ricerche sul tenore di vita; quando invece sono in correlazione con gli osta­ coli educativi e culturali che si frappongono al raggiungimento della piena espressione della potenzialità individuale, l’analisi del tenore di vita è assai più decisiva; l’influenza politica della povertà dipende probabilmente in grado elevato dal senso di priva­ zione — e così via.

Malgrado le differenze fra questi punti di vista, tutti hanno però considerato la povertà come una caratteristica della distri­ buzione di risorse e soddisfacimenti all’interno di una totale struttura di rapporti, nazionali o intemazionali. La discussione delle misure per alleviare la povertà ha dimostrato come le direttive falliscano quando ignorano questo concetto... Per ciò che riguarda linee direttive politiche, forse la conclusione più importante che si può ricavare dalle nostre discussioni è la necessità di comprendere la povertà in questo senso: come carat­ teristica non di certi gruppi alTinterno della società, ma del sistema che determina come le risorse vengano distribuite. Forse è possibile essere alquanto più ottimisti a livello nazionale. Non sol­ tanto perché a tale livello il problema ha dimensioni più accessibili, ma anche perché l’aiuto internazionale deve, a lungo termine, almeno comparire come un investimento che non comporta perdite economiche; posto che l’umanità fino ad oggi non viene realmente considerata come un gruppo unico all’interno del quale ciascuno dei membri è responsabile per gli altri, se l’aiuto su base

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intemazionale non dimostra di essere un buon investimento, se non economico almeno politico, verrà necessariamente a cessare. Invece l’aiuto dato all’interno di un gruppo entro il quale esiste un senso genuino di responsabilità per gli altri, non soffre di queste limitazioni. Su scala nazionale, i vecchi, i giovanis­ simi, i malati vengono assistiti: la questione è in quale misura e con quale metodo, ma il principio in sè è stato assimilato in tutte le nazioni occidentali. Di nuovo però, parallelamente alle aspettative che si erano create su scala internazionale, anche qui ci si aspettava che i poveri fossero diminuiti, se non praticamente scomparsi, mentre si ebbe la sgradevole sopresa di consta­ tare che essi erano ricomparsi sulla scena.

Questo riemergere dei poveri è stato sentito maggiormente negli Stati Uniti, paese in cui l’ottimismo nazionale e quindi la capacità di delusione sono estremi, e in cui la fiducia nella possibilità di risolvere i problemi umani in modo efficiente è alta. Forse anche il fatto che la povertà ha maggiori pro­ babilità di presentarsi con un volto negro, ha contribuito — in un epoca di rivolte razziali — a risvegliare l’interesse, anche se, d ’altra parte, le più re­ centi esplosioni di violenza nei ghetti hanno prodotto nella maggioranza bianca una reazione delle quale non conosciamo ancora gli ultimi effetti.

La nostra ricerca di scritti recentissimi sulla povertà ha rivelato infatti che essi per la maggioranza sono americani, benché uno dei più importanti spe­ cialisti, Peter Townsend, sia inglese; e naturalmente non ignoriamo il lavoro

dell’Istituto danese di ricerche sociali, e quello del Bureau des recherches sociales in Francia, che ha pubblicato di recente una serie di studi teorici __derivati dal lavoro sociale svolto nelle zone di baraccati intorno a Parigi

sulle cause ed effetti delle condizioni di vita dei poveri in tali agglomerati, in cui si avanzano delle generalizzazioni sui risultati .*■

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Il concetto di povertà in alcuni scritti recenti

Per quanto possa sembrar strano una sola persona è stata soprattutto respon­ sabile della scoperta dei poveri nella società in continuo sviluppo econo­ mico del ventesimo secolo: Michael Harrington. Quale che possa essere la sorte dei programmi attuali, gli americani non potranno più ritornare indietro ai giorni in cui la loro coscienza era tranquilla, prima della pubblicazione de L ’altra America,8 Se esaminiamo questo volumetto, stampato nel 1962, vediamo che esso già conteneva tutte quelle idee che scrittori più sofisticati elaborarono in seguito, e che compaiono nel libro sotto forma di affermazioni senza il corredo di prove che fu poi presentato. Nel libro di Harrington echeggia l’indignazione per l’esistenza di un gruppo di poveri in una terra d’abbondanza; egli descrive con sensibilità gli effetti della povertà sul com­ portamento individuale, prevede gli effetti dell’automazione sul tasso d’im­ piego, descrive i casi speciali dei negri e dei vecchi, e tenta perfino una prima definizione operativa della povertà in senso moderno. Senza dubbio è grazie a Harrington, giornalista di professione che scriveva principalmente per un senso di giustizia e senza nessuna qualifica accademica, che il Congresso degli Stati Uniti, mediante la sua Commissione per l’educazione e il lavoro, stese nell’aprile del 1964 un rapporto sulla « Povertà negli Stati Uniti », per per­ mettere alla legislatura di formulare dei provvedimenti adeguati, dopo aver trovato una risposta ai quesiti « Chi sono i poveri? », « Dove vivono? », « Come vivono? ». Tale rapporto servì anche come preparazione di fondo al- VEconomic Opportunity Act dello stesso anno. Nell’introduzione ad esso troviamo l’affermazione che la povertà « non è soltanto mancanza di dena­ ro, è una maniera di vivere »9. Il riconoscimento che esiste una « cultura della povertà » risale a Harrington, insieme con Oscar Lewis: ambedue possono infatti dichiararsene autori. (Le più recenti considerazioni di Lewis sull’argo­ mento si possono trovare a pagina 1 di questo volume).

La discussione iniziata da Harrington trovò una vasta eco di cui vorrem­ mo ricordare gli sviluppi principali, in modo che il lettore possa collocare i contributi della nostra antologia nel quadro delle pubblicazioni relative a questo argomento. In breve tempo si è passati da denunce giornalistiche e basate su impressioni, nella tradizione dei movimenti sociali riformisti, a studi scien­ tifici esatti che descrivono un problema sociale, ne esplorano le cause e le conseguenze per raccomandare programmi di intervento, se non un’azione sociale che conduca alla sua prevenzione ed abolizione. Una volta riscoperto l’argomento grazie alla stampa non professionale, esso diventò la preoccupa­ zione e l’occupazione a pieno tempo di antropologi, economisti, sociologi, assi­ stenti sociali e gruppi di pressione politici, portandoli tutti — conservatori, liberali e progressisti — su strade diverse da quelle che avrebbero preso nel

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XIX secolo o agli inizi del XX. Non soltanto il considerare la povertà un fatto ingiusto è diventato cosa accettata, come abbiamo già detto, ma anche il con­ cetto che sia necessario affrontare il problema totale da un punto di vista operativo e globale è ormai acquisito, grazie al lavoro di équipe fra diverse discipline nei campi della medicina, educazione ed urbanistica. In modo si­ gnificativo, la Camera di Commercio degli Stati Uniti, che si può dire rap­ presenti le forze dirigenti, affidò nel 1965 a docenti delle Università di Harvard e di Chicago uno studio di vasta portata sul concetto di povertà, e ne giustifi­ cava così le ragioni:

La nostra migliore speranza per l’avvenire consiste nell’esten- dere all’organizzazione sociale quei metodi che già adoperiamo nei nostri campi d’azione specifici più progressisti. Nella scienza e nell’industria non aspettiamo che accadano delle catastrofi per imparare nuovi modi di agire. Ci basiamo, e con successo, su analisi quantitative per individuare la strada; e progrediamo perché cerchiamo continuamente di affinare ed applicare tali analisi.

Questo volume fu seguito da un altro che trattava specificatamente delle applicazioni di tale concetto ai malati, ai minorati e agli anziani, e faceva dettagliate proposte e raccomandazioni per la loro assistenza.

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media.11 Fatto abbastanza interessante, nessuno di questi autori considera altra' media, se non quella relativa alla società in cui essi stessi vivono.

L’anno 1966 vide la pubblicazione di due scritti americani che segnalavano il pericolo di misurazioni soggettive e non qualificate. Catherine S. Chilman, del Dipartimento per la sanità, educazione e assistenza, nella sua pubblicazione Crescere poveri ha limitato il suo interesse ad uno studio completo ed esau­ riente degli effetti della povertà sui bambini, compreso il loro tenore di vita da adulti in quanto risultato di una infanzia povera. La Chilman dimostra quanto scarse siano le conoscenze che finora sono state ricavate da ricerche fonda- mentali, quali programmi di azione siano già in corso ma non ancora valutati; il suo più valido contributo consiste forse nella sua discussione dei traboc­ chetti metodologici in una ricerca — pur necessaria — nel campo dell’assi­ stenza, che nel passato hanno spesso falsificato molti programmi d’azione per tutta una serie di problemi sociali.12

Proprio in ragione delle difficoltà metodologiche di ricerche sulla povertà, a causa della mancanza di definizioni precise, di campionamenti adeguati, della difficoltà pratica di compiere studi longitudinali — che pure sono essen­ ziali se si aderisce all’idea di una « cultura della povertà » — questo tipo di ricerche è stato affidato sempre di più alle università. Il più sottile di questi studi è, secondo noi quello di Oscar Ornati, Povertà nell’opulenza, che è stato condotto a termine nel 1965-66 dalla New Scliool for Social Research di New York.13 Poiché Ornati è ben conscio che il suo concetto di povertà è relativo alle aspirazioni presenti in una data società, e che quando il tenore di vita migliora ai livelli più alti crescono le aspirazioni ai livelli inferiori,, egli ha costruito un modello per la sua analisi dei redditi standard, la cosid­ detta « fascia della povertà ». Essa rappresenta una popolazione composta da tre diversi livelli di povertà; il livello minimo di sussistenza, (cioè il minimo reddito necessario ad una persona o a una famiglia per sopravvivere fisica- mente); il minimo reddito adeguato (cioè il reddito necessario a sopravvivere usufruendo di quelle necessità che sono fissate dal contesto sociale di appar­ tenenza) e il minimo reddito confortevole (cioè quel livello in cui si raggiunge, sia pur nella misura minima, il tenore di vita prevalente). Egli giunge alla conclusione che negli Stati Uniti sarebbe possibile che tutti raggiungessero, il livello minimo di sussistenza senza che l’economia nazionale ne venisse a risentire troppo, e che si potrebbe intanto incominciare con lo stabilire un sistema tributario che non prelevasse tasse affatto dai redditi a livello minimo; mentre attualmente si verifica il fatto che un gran numero di persone in effetti finanziano quella stessa assistenza che viene loro elargita. Per ciò che con­ cerne dati di fatto, il rapporto di Ornati contiene le più ampie tabelle descrit­ tive sui poveri in relazione a caratteristiche personali, sociali ed economiche,, che sia possibile trovare nella letteratura corrente.

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Azione e programmi di azione

L’Economie Opportunity A d del 1964 stabiliva la cosiddetta « guerra contro ,ja povertà ». 1 fini della Legge 88-452 erano ufficialmente descritti come segue:

Questa Legge non intende semplicemente espandere vecchi programmi o migliorare quanto già viene fatto. Essa si propone di iniziare un nuovo corso di eventi. Vuole colpire le cause, non gli effetti della povertà. Può essere una pietra miliare nei nostri cento e ottant anni di sforzi per dare al nostro popolo una vita migliore. Questa legge prevede che debbano essere offerte le cinque seguenti, nuove e basilari possibilità.^ _

Dare a quasi mezzo milione di giovani americani in condi­ zioni di svantaggio la possibilità di sviluppare le loro capacita, continuare la loro istruzione e trovare un lavoro utile.

Dare ad ogni comunità americana la possibilità di sviluppare un progetto estensivo per combattere la povertà locale — e l’aiuto per condurre a termine tale progetto.

Dare agli americani che abbiano senso di dedizione la possi­ bilità di arruolarsi volontari nella guerra contro la povertà.

Dare a molti lavoratori e agricoltori la possibilità di superare quelle barriere che finora hanno impedito loro di sfuggire alla

P°DaK a tutta la nazione la possibilità di sferrare un attacco globale contro la povertà tramite il nuovo Office of Economie Opportunity che diventerà il quartiere generale della guerra con­ tro la povertà.14

Divenne evidente che non erano più sufficienti discorsi accademici su tutti gli aspetti della povertà, ma che erano necessari programmi pratici, i quali a loro volta dovevano esser provvisti di personale adatto. Molte sono state le critiche sulla quantità di denaro speso nei programmi — quantità tanto piu rilevante in quanto erano già alte le spese per finanziare la guerra in Vietnam e per aiuti internazionali - ma le critiche più serie sono state quelle rivolte alla prassi e al personale dei programmi. Una delle maggiori difficolta e stata l’enorme dimensione di un programma nazionale in cui si usavano tecniche che non erano state mai sperimentate neanche a livelli ristretti. Il progetto piu facilmente apprezzabile, ad es„ chiamato Headstart (vantaggio iniziale) consiste nella creazione di centri per bambini in età pre-scolare, destinati a diminuire quegli svantaggi iniziali che i bambini delle classi povere hanno in confronto ai bambini della classe media, in modo che i primi possano iniziare a seno a ad un livello culturale paragonabile a quello dei loro compagni piu fortunati, e possibilmente restare nella scuola, invece di abbandonarla prematuramente a causa delle difficoltà incontrate nello svolgere il normale programma scola­ stico Il problema più grosso è stato quello organizzativo, poiché vennero aperti 13 000 centri, senza che vi fosse un numero corrispondente di persone quali­

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ficaie come insegnanti di scuole materne. Un altro programma doveva occu­ parsi della preparazione professionale di giovani fra i 16 e i 22 anni in 40 centri, ma qui gravi difficoltà di carattere disciplinare insorsero per il semplice fatto che ragazzi con adattamento normale e scolarità normale non erano compresi per definizione. Inoltre, di necessità, le qualifiche conferite generalmente erano fra le meno pagate sul mercato del lavoro; e spesso anche i giovani che si erano qualificati con successo non riuscivano a trovare occupazione, se quel partico­ lare tipo di lavoro appreso non era richiesto nella zona in cui risiedevano. Questo portò come conseguenza una violenta opposizione da parte dei ragazzi stessi, che avevano la sensazione di essere stati ingannati, e da parte dell’opinione pubblica che cominciò a calcolare il costo astronomico pro capite dei giovani che finalmente riuscivano ad ottenere un lavoro.

Fondamentalmente vi è tutta una serie di difficoltà per ciascuno di questi programmi: la cultura della povertà, cioè lo stile di vita dei poveri (che ha come caratteristica la resistenza a cambiamenti rapidi), la mancanza di perso­ nale qualificato, l’aspetto politico (cioè chi debba avere il potere di distribuire i fondi e quindi in ultima analisi il potere di decidere nei limiti dettati dalla legge). La legge prevede che almeno un terzo dei seggi di ciascun comitato contro la povertà debba essere riservato a rappresentanti dei poveri. Le diffi­ coltà pratiche di questa clausola si possono facilmente immaginare: esse vanno dalla difficoltà di trovare gli individui che siano allo stesso tempo disposti ad assumersi questo onere e capaci di farlo, a quella di assicurare che in un comitato in cui gli altri membri sono i leaders politici locali e i rappresentanti degli enti assistenziali, tutti abbiano eguale voce e peso, cosa assai difficile da ottenere.

In vista di tutte queste esperienze il Council for Social Work Education nel 1967 pubblicò un volumetto sul personale da impiegare nei programmi contro la povertà e le implicazioni che ne risultano per l’educazione al servizio sociale. E’ il primo tentativo sistematico di porre i programmi contro la povertà entro un discorso a carattere professionale, togliendoli alle discussioni di carattere politico. Può sembrare assurdo che alcuni degli scritti di questo volume abbiano come argomento la speciale preparazione necessaria agli assistenti sociali per trattare con i poveri, ma bisogna ricordare che per anni in America gli assi­ stenti sociali trattavano principalmente con elementi appartenenti alle classi medie, in quanto questi erano più facilmente in grado di assumere il ruolo di cliente, e venivano quindi considerati « trattabili ». Nel volume citato Francis Fox-Piven (uno degli autori dell’articolo a p. 82) tratta della professiona- lizzazione dell’azione politica, che in ultima analisi è il contributo portato dalla scienza alla pianificazione sociale e ai cambiamenti sociali. Naturalmente questi ultimi possono avvenire solamente se la formazione degli assistenti sociali insiste sulla cooperazione del servizio sociale con le forze sociali esistenti, e

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se i problemi sociali presi in considerazione non sono più quelli limitati ad una attività tradizionale caso per caso, che giudica la struttura della società come immodificabile. Quando si accetti che per definizione la povertà si può alleviare soltanto mediante la ristrutturazione della situazione economica esi­ stente, allora gli assistenti sociali nel campo della lotta contro la povertà debbono essere addestrati a manipolare le realtà sociali, purché naturalmente questo obiettivo sia stato da loro accettato come parte del bagaglio ideologico professionale. M a poiché il servizio sociale finora ha avuto una impostazione tradizionale p ro p ria della classe media, sia come punti di vista che come aspi­ razioni del suo personale (il quale anche se non proviene necessariamente da famiglie della classe media, ha però aspirazioni tipiche di quella classe), esso dovrà passare attraverso sostanziali trasformazioni di pensiero per poter essere efficiente nei nuovi programmi.

G li a r tic o li s c e l t i p e r questa racco lta

Tracciate le lin ee di sviluppo del nuovo interesse per l’argomento, ci sembra ora giunto il m om ento di considerare le posizioni degli autori scelti per questo volume. Da u n punto di vista ideale, un’antologia di questo tipo dovrebbe dare un quadrp della situazione economica attuale nel mondo, ponendo 1 ac­ cento sulla distribuzione delle risorse fra le nazioni e all’interno delle nazioni. Il Dipartimento degli affari sociali ed economici delle Nazioni Unite prepara regolarmente ra p p o rti che descrivono l’andamento sociale ad un livello mon­ diale. Quanto essi siano accurati nei particolari è difficile dire, poiché in molti paesi in via di sviluppo certi dati sono spesso carenti. Non vi può essere tuttavia alcun dubbio che la povertà nei paesi in via di sviluppo tende a crescere anziché a diminuire, e di conseguenza che l’ineguaglianza fra le nazioni aumenta.

Studi sistem atici a carattere nazionale sulla povertà sono appena iniziati, in parte a ca u sa di quelle difficoltà metodologiche indicate dalla Chilman (v. pagina X II) e in maniera assai convincente da Mencher,1' in parte perché è così recente la scomparsa di quell’ottimismo che aveva fatto sperare in una eliminazione spontanea della povertà.

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trasfor-mato in gran parte la sua politica di scambi culturali in una campagna per l’alfabetizzazione e per l’educazione superiore specializzata, come mezzi per accrescere la produttività umana.

A livello nazionale i governi delle nazioni più progredite hanno in genere usato il sistema fiscale per ridistribuire la ricchezza, sperando di eliminare così la povertà all’interno dei loro confini, e istituito centri di educazione tecnica e di ricerca principalmente per lo stesso scopo. Questo è vero tanto per i paesi del blocco occidentale, che di quello orientale.

La nostra raccolta inizia con le più recenti osservazioni di Oscar Lewis sul concetto di cultura della povertà. Lewis, un antropologo allievo di Redfield, formatosi alla scuola di Chicago, diventò noto con il suo studio di una stessa comunità messicana che il suo maestro aveva studiato una generazione prima. Il suo interesse, che si era portato prima sui fenomeni di trasformazione sociale, si rivolse in seguito allo stato mentale delle popolazioni che vivono in condizioni di estrema privazione, sia culturale che economica. Divenne famoso con il libro I figli di Sánchez, che presenta la vita giornaliera del proletariato urbano nel Messico, usando narrazioni biografiche registrate su nastro da parte degli stessi protagonisti.16 Naturalmente sia il metodo che le interpretazioni date da Lewis al materiale, che era pur stato filtrato attra­ verso la personalità dell’antropologo, dettero origine a lunghe discussioni sulla loro validità scientifica. Senza prender partito per l’uno o l’altro, dobbiamo certamente dire che l’idea della povertà non era mai stata resa così vivida­ mente come da Lewis, neppure nei capolavori di Zola o di Dickens. E’ vero che nel passato sarebbe stato difficile parlare dei poveri come di una sub-cultura, poiché essi erano la maggioranza, ed è anche vero che nello scritto che presen­ tiamo Lewis stesso chiarifica che non tutti i poveri del mondo vivono nella cultura della povertà; la sua scoperta che la povertà può generare uno stile di vita particolare e che la natura stessa della vita di comunità e della vita di famiglia negli slums dà ai poveri un sistema di riferimento che li aiuta a vivere, è di primaria importanza. Quel comportamento dei poveri, che un tempo era giudicato da un punto di vista morale e in seguito da un punto di vista psichiatrico, grazie a Lewis ci si rivela oggi nel suo significato profondo.

Alvin L. Schorr, noto assistente sociale ed amministratore di servizi sociali, è d’accordo con i risultati descrittivi di Lewis, ma dubita tuttavia che l’abi­ tante degli slums sia così intrinsecamente convinto dei valori appresi nello slum stesso. Questo significa, dal punto di vista del pianificatore sociale, che l’individuo può in effetti essere aiutato tramite i servizi sociali, poiché anche indipendentemente dalla struttura nella quale crebbe il suo problema, è in grado di essere aiutato a sviluppare la sua personalità. Con questo non inten­ diamo dire che Schorr sia contrario a trasformare le strutture; ma egli ritiene

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che, mostrandosi l’effetto delle privazioni in molti casi come reazione imme­ diata, esso possa anche essere passibile di rimedio mediante misure individuali dirette. Riteniamo che la maggior parte degli assistenti sociali sia d ’accordo con Schorr.

Lewis Coser, docente di sociologia alla Brandeis University, e autore di nume­ rosi scritti su argomenti di carattere socio-politico, applica le idee di George Simmel che abbiamo citato all’inizio di questa introduzione, alla odierna ammi­ nistrazione dei servizi sociali, che non raggiunge il suo scopo « nella misura in cui la povertà oggettiva diverge dalla privazione come è sentita dal soggetto ».

In effetti egli va più in là di Simmel: il povero non solamente non esiste da un punto di vista sociologico perché privo di potere, ma è degradato dal fatto stesso di ricevere l’assistenza. L’aiuto che gli viene dato lo priva in genere del diritto ad avere una vita privata e a prendere decisioni indipendenti nella sua vita personale, e lo riduce in stato di servilità, cioè non soltanto egli non è un membro di un gruppo, ma non è realmente un Uomo. Coser pensa che le proposte contenute nella legislazione per la « guerra contro la povertà », le quali si pongono l’obiettivo di dare ai poveri un certo status, potrebbero essere un modo per combattere con successo la passività dei poveri stessi.

Peter Townsend, forse lo specialista meglio conosciuto nel mondo per 1 suoi studi sulla povertà, specie per ciò che riguarda gli anziani in Inghilterra, e ben cosciente del fatto che il concetto di povertà si è recentemente trasformato in modo significativo. Come individuare chiaramente queste trasformazioni, cioè le difficoltà relative alle definizioni e alle misure, sono gli argomenti che più lo interessano nel saggio a carattere teorico che abbiamo incluso nella nostra raccolta. Le sue riflessioni hanno tanto maggior valore in quanto deri­ vano dalle sue esperienze personali di studi applicati fra i pochissimi deg 1

ultimi anni — che hanno avuto un considerevole effetto sulla pianificazione sociale ed influenzato visibilmente la politica sociale inglese. Come direttore del Dipartimento di sociologia dell’Università dell’Essex, il prof. Townsend si sta attualmente occupando di uno studio comparato della povertà a livelli nazionali, in cui convalidare alcune delle idee contenute nel suo articolo. Egli ha quantificato alcune delle caratteristiche della povertà, in modo da poter arrivaTe a correlazioni statistiche, che se non possono indicare relazioni causali, tuttavia indicano situazioni di associazione costante fra un certo numero variabili. Questo tipo di lavoro è naturalmente d’importanza fondamentale se si vuole giungere a poter trattare la povertà in tipi di società differenti.

Problemi di natura molto diversa sono discussi nella seconda parte della monografia. Gli ultimi quattro articoli trattano infatti dei problemi pratici incontrati negli Stati Uniti quando si è trattato di alleviare la povertà, e c. sembra che essi possano essere di interesse anche per programmi simili in altri

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paesi. Benché sia ancora troppo presto per valutare gli effettivi risultati di questi piani, alcune delle difficoltà pratiche sono già venute alla luce a questo primo stadio. Esse sono sia di natura politica che di natura organizzativa. Rein (del Bryn Mawr College) e Miller (della Università di New York e della Fondazione Ford) dimostrano nel loro articolo le difficoltà che sorgono quando si voglia stabilire un programma, per il fatto che scelte razionali, possibilità politiche di attuazione e scelte di valori sono sempre presenti e commiste. La loro analisi, orientata in senso operativo, ha come centro di interesse la valutazione di strategie che in teoria sembrano porre l’accento più su servizi sociali che su misure economiche, più su investimenti in capitale umano che su provvedimenti di riabilitazione, e danno speciale importanza alla parteci­ pazione dei cittadini per mobilitare i poveri stessi. Strategie ed obiettivi sono necessariamente interdipendenti, cosicché la decisione di incoraggiare la stabi­ lità anziché la mobilità, o l’eguaglianza anziché un minimo di decoro sociale significheranno anche una scelta di provvedimenti. Gli autori sono pienamente consapevoli dell’esistenza di conflitti di valore, poiché in effetti determinati interventi possono anche essere incompatibili con le scelte personali del piani­ ficatore. Per questa ragione la via d ’uscita dal dilemma può essere solo quella di analisi multiple del costo in relazione ai vantaggi che tengano conto della pluralità di valori che sta alla base delle decisioni politiche. Il contributo significativo di Rein e Miller consiste nel portare a livello di coscienza ciò che resta nascosto in genere in modo alquanto ingenuo, e cioè il fatto che nella burocrazia moderna il pianificatore non si può solo considerare efficiente o inefficiente nelle sue decisioni, ma in ultima analisi, per il semplice fatto di agire, viene a rappresentare una serie di valori. Si tratta quindi di sincerarsi se i valori accettati siano quelli che trovano espressione positiva nelle strategie scelte.

Con il crescere degli istituti burocratici nel campo dell’assistenza, il loro effetto sulla situazione dei poveri è diventato estremamente importante e, a giudizio di Cloward e Fox-Piven (ambedue della Columbia University di New York), spesso veramente pericoloso. Mentre, per opinione comune, il welfare state, con il provvedere come diritto ai poveri ciò che prima era atto di carità da parte dei ricchi, è stato considerato di indiscutibile vantaggio ai suoi citta­ dini, Cloward e Fow Piven ritengono che le enormi burocrazie che esso ha creato hanno una tendenza a manipolare anziché aiutare. Ciò dipende in gran parte dal fatto che il personale di questi enti, come in tutte le burocrazie, può sopravvivere soltanto con l’allargare il proprio campo di potere, ed anche perché nel campo del servizio sociale la professionalizzazione ha reso il con­ trollo da parte di estranei praticamente impossibile. Ancora più nefasto, comun­ que, è l’effetto delle burocrazie su larga scala sulla vitalità politica dei poveri, — di per sé già minima — in quanto tendono a soffocare ogni reale opposi­ zione alle strutture esistenti con il fatto stesso di offrire possibilità di socializ­

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zazione già formalizzate (come ad esempio i seggi nei comitati contro la povertà) che non perseguono affatto obiettivi propri alle classi povere e quindi non hanno alcuna efficacia rispetto ai loro fini reali.

Ancora Rein con Frank Riessman, dell’Università di New York, nell’articolo successivo propongono una strategia per i programmi di azione comunitaria (CAP) che miri ad accrescere le richieste dei poveri stessi, cioè ad assisterli a raggiungere quella vitalità politica spesso minacciata dalle burocrazie, e allo stesso tempo ad assistere gli enti già esistenti ad essere più sensibili nel rispon­ dere alle richieste, e quindi a provvedere servizi realmente necessari. Gli autori, quindi, vedono la necessità di una specie di intermediario che funzioni in ambedue le direzioni indicate; come i CAP possano in effetti assumersi questo tipo di intervento è dimostrato in dettaglio da esempi derivati da recenti espe­ riènze. Essi ritengono che il maggior pericolo sia la possibilità che un programma di questo genere possa sostituirsi ai vecchi enti anziché trasformarli, e quindi a sua volta diventare conservatore e difendere lo sta tu quo. Tuttavia essi non vedono nessun’altra alternativa in una società che a causa delle sue dimensioni non può evitare di produrre burocrazie che hanno una predisposizione naturale a sclerotizzarsi. La cosa più importante è che i CAP non dimentichino che i loro clienti sono allo stesso tempo sia gli enti che i poveri, poiché la loro efficienza dipende dall’essere veramente una terza forza.

Ancor più direttamente legata all’esperienza è la discussione di Bertram Beck su « Teoria e pratica nell’amministrazione di un programma contro la povertà ». Beck, che fu per molti anni dirigente della National Association of Social Workers, è ora direttore del programma Mobilization for Youth — il primo e più vasto piano di organizzazione di comunità istituito per combat­ tere la delinquenza minorile in una vasta zona di slums a New York, con un bilancio di parecchi milioni di dollari votato dal governo federale ed egli descrive le qualità che occorrono ad assistenti sociali professionali in veste di amministratori di tali programmi. La combinazione richiesta da questo tipo di lavoro consiste in una conoscenza delle strutture organizzative, una capacita di servire gli individui in modo che essi a loro volta possano funzionare in programmi d’azione politica, e quelle abilità politiche che aiutino realmente ì membri di una comunità a tradurre i loro obiettivi in una efficiente forza politica. L’educazione degli assistenti sociali nel passato non li addestrava nelle tecniche della trasformazione sociale. Egli sostiene anche che una delle funzioni dell’assistente sociale professionale è quella di creare lavoro all’interno degli enti per membri della comunità, che in questo modo possono trovare la loro via fuori del ghetto della povertà con l’associarsi come partecipanti alla trasfor­ mazione, anziché diventare oggetti di aiuto.

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povertà e al tentativo di alleviarla si intrecciano con i problemi della società che si sta studiano. Sembra quindi giustificato asserire che mentre le discus­ sioni sui concetti e sulle misurazioni sono universali, quelle che trattano delle cause e degli effetti della povertà, sono valide soltanto alFintemo di una certa struttura sociale. Tuttavia, se ne può sempre imparare qualcosa: i metodi scientifici di investigare le cause e gli effetti, e le difficoltà di applicare pro­ grammi, che in situazioni diverse avranno forse altre caratteristiche, ma che dovunque dimostreranno la propria natura prevalentemente politica. Le espe­ rienze straniere possono quindi sempre servire come una casistica offerta allo studioso.

Ellen B. Hill

CEPAS, Roma

Note

1 Rimandiamo tuttavia il lettore ad una opinione contemporanea dell’analisi di Simmel, fatta da un eminente sociologo americano, a pp. 21-23 di questo volume.

2 Georg Sim m e l, Die Soziologie, Berlin, 1901 (ristampato nel 1958, pp. 367-8

e 373-4).

3 A questo proposito ricordiamo che S. M. Miller aveva elaborato una serie di categorie della situazione di povertà nel suo « Poverty in an International Context », comunicazione al Gruppo di studio sulla Povertà, Congresso mondiale di sociologia, Evian, settembre 1966 (ciclost.):

« Nelle società più ricche la povertà è essenzialmente un fenomeno di minoranza, in quanto si suppone che la maggioranza dei cittadini vivano al di sopra della linea della povertà. Per la maggior parte delle società tuttavia, la lotta è per passare da una situazione di povertà dominante a una situazione di povertà minoritaria. In che modo cambia la povertà quando si trova nella posizione di maggioranza o di minoranza?

Possiamo formulare diverse categorie di povertà: a) Povertà dominante

1. La maggior parte delle persone sono povere eccetto una piccola minoranza molto ricca; la proporzione è forse di 90-10.

2. I poveri sono in maggioranza, ma c’è un certo numero di non poveri nella nazione; la proporzione fra i poveri e i non poveri è di 70-30 o 60-40. Cioè, si è formato un discreto gruppo a reddito medio.

b) Povertà minoritaria

3. Benché la maggioranza della popolazione non sia povera, esiste un notevole numero di poveri; la proporzione è 30-70.

I poveri possono essere costituiti almeno in massima parte da un gruppo a red­ dito scarso (es. classe contadina) o un gruppo di casta (es. negri negli Stati Uniti). 4. La maggioranza della popolazione non è povera, eccetto per gruppi speciali che dipendono da fondi particolari (es. i vecchi) o che soffrono di decadenza economica (es. zone regionali cronicamente depresse). La proporzione dei poveri è forse 15-85.

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4 International Review of Community Development, n. 15-16, 1956, pp. 43-54, 5 Cfr. Koji Taira, International Tracie Union Seminar on Low Income Groups and Methods on Dealing with Their Problems, « Country Reports: 6, Japan », OECD, Parigi, 1965 (ciclost. p. 1): « ...la povertà diventa visibile e misurabile mano a mano che una parte crescente della popolazione raggiunge un più alto livello di vita, e la povertà della minoranza è allora messa in rilievo come una vergogna per una’ società in progresso. La povertà diventa un problema politico quando è stata ridotta a proporzioni trattabili ad un certo stadio di sviluppo socioeconomico».

6 Vedi in particolare: Jean Labbens, La condition sous-prolétarienne, Cahiers Science et Service, n. 1, Parigi, 1965. Nella introduzione, «La Science, parente pauvre de la charité», si espone la richiesta per una investigazione scientifica, cioè per una moderna ricerca operativa, nel quadro di programmi assistenziali ispi­ rati dalla Chiesa.

7 Cfr. International Herald Tribune del 14 agosto 1967: «La guerra contro la guerra alla povertà aveva all’inizio di quest’estate preso un ottimo andamento, così che, quando si sono verificate le rivolte, seguite dalle accuse che gli operatori dei programmi contro la povertà le avevano fomentate e vi avevano preso parte, nessuno avrebbe detto che i programmi stessi sarebbero sopravvissuti. Adesso, invece l’avvenire dell’0//ice of Economie Opportunity appare notevolmente miglio­ rato... ’anche se non è detto che si sia del tutto salvato: i Repubblicani vogliono una nuova impostazione dei programmi, ma accettano di discutere una sostituzione nei comitati parlamentari, cosa che in passato avevano rifiutato».

8 Michael Harrington, The Other America, Macmillan, New York, 1962. Ed.

italiana, L’altra America, Il Saggiatore, Milano, 1963.

8 La descrizione dei poveri e degli atteggiamenti nei loro confronti sono impor- tanti per la formazione di decisioni politiche. Vedi «The Dilemma of Choice», Social Welfare Assembly, 1966; S. M. Miller e Frank Riessman «The Working- Class Subculture: A New View» in Social Problems, 1961; S. M. Miller, Frank

Riessm an e Arthur Seagul, «Poverty and Indulgence: A Critique of the Deferred Gratification Pattern », in Poverty in America (a cura di L. Ferman, J. Kornblush e A. Haber), University of Michigan Press, Ann Arbor, 1965; S. M. Miller, « The American Lower Classes: A Typological Approach », in Blue Collar World (a cura di A. Shostak e W. Gomberg), Prentice Hall, Englewood Cliffs, N.J., 1964.

i« Robert Lam pman, Prognosis for Poverty, Industrial Relations Research Institute, reprint series n. 74, University of Wisconsin, Madison, 1964, pp. 73; Income Distribution and Poverty (comunicazione al Congresso nazionale « Poverty in me- rica », Berkeley, 1965).

11 R ,chard Tit m u s s, Essays on the Welfare State, Yale University Press, New Haven 1958, e Income Distribution and Social Change, Allen and Unwin, Londra, 1962; Brian Abel-Sm it h, « Whose Welfare State? » in Conviction (a cura di Norman

Mackenzie), McGibbon and Kee, Londra, 1959; Peter Townsend, « The Meaning of Poverty » in British Journal of Sociology, vol. XIII, 3, 1962.

I8 Catherine S. Chilman, Crowing Up Poor, U.S. Department of Health, Educa­ tion, and Welfare, Washington, 1966.

is Oscar Ornati, Poverty Amid Affluence, The Twenthieth Century Fund, New York, 1966.

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15 Cfr. S. Mencher, « The Problem of Measuring Poverty », in British Journal of Sociology, voi. XVIII, 1, 1967. La sua trattazione è particolarmente pertinente ai problemi concettuali relativi alla determinazione della povertà con standards assoluti e relativi, e all’insufficenza dei servizi sociali come mezzo per eguagliare i redditi. Esclusivamente metodologico è lo scritto di C. H. We is s, « Interviewing Low Income Respondents », in Welfare Review, 4 (8), 1966, pp. 1-9, Bureau of Applied Social Research, Columbia University, New York, che riferisce sui risultati di un lavoro sperimentale quali i seguenti: 1) è difficile individuare i poveri trà­ mite campionamento; 2) i poveri sono sinceri nelle loro risposte, ma scettici sullo scopo dello studio; 3) non sempre afferrano le domande e i concetti che stanno aua Dase della formulazione delle domande stesse.

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La cultura della povertà

d i O s c a r L e w is

Uno dei principali temi del programma politico interno del presente governo americano è la povertà, e la cosiddetta « guerra alla povertà ». Nel cuore di una popolazione che gode di un tenore di vita di altezza senza precedenti con reddito medio annuo per famiglia di 7.000 dollari — viene riconosciuta uffi­ cialmente 1’esistenza di circa 18 milioni di famiglie, per un totale di circa 50 milioni di individui, che vivono al disotto della « linea di povertà », cioè al disotto di un reddito annuo di 3.000 dollari. Circa 1.600 milioni di dollari del fondo federale vengono stanziati direttamente tramite l’Office of Economie Opportunity per migliorare la sorte di queste persone e varie altre centinaia di milioni di dollari vengono indirettamente in loro aiuto tramite un aumento delle spese federali nei campi della sanità pubblica, istruzione, assistenza ed affari urbani.

Parallelamente all’aumento di attività a favore dei poveri indicato da queste cifre, vi è stata anche una fioritura di pubblicazioni sulla povertà nel campo delle scienze sociali. Questi nuovi scritti offrono le due valutazioni opposte del povero che possiamo ritrovare nella letteratura, proverbi e detti popolari di ogni tempo. Come in passato si è detto che i poveri sono beati, virtuosi, moralmente sani, sereni, indipendenti ed onesti, di buon cuore e felici, cosi studiosi contemporanei sottolineano la grande e trascurata capacita dei poveri ad aiutarsi da sé, a guidarsi da sé, ad organizzarsi su di un piano comunitario. E inversamente, come in passato si è detto che i poveri sono instabili, di menta­ lità ristretta e ingenerosa, corrotti, violenti, criminali e cattivi, così oggi altri studiosi ci fanno notare i deleteri e irreversibili effetti della povertà sulla formazione della personalità individuale. In corrispondenza, quindi, questi autori sottolineano l’importanza di garantire una guida ed un controllo ai programmi di assistenza in favore dei poveri, col trattenerne la direzione nelle mani delle autorità debitamente costituite. Questi punti di vista cosi contra­ stanti riflettono in parte la lotta interna che esiste fra le autorità federali e quelle locali per ottenere il controllo politico dei programmi di assistenza. Ma una certa confusione dipende anche dalla tendenza a dirigere l’attenzione e le ricerche sulla personalità individuale delle vittime della povertà, anziché sulla comunità e sulle famiglie degli slums e quindi da una mancata distinzione fra la povertà e quella che io ho chiamato la « cultura della povertà ».

Articolo pubblicato in Scientific Costituisce parte dell’introduzione in altra parte di questo fascicolo.

American, n. 4, 1966 (« The Culture of Poverty >>). al recente libro dello stesso A., La Vida, recensito

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Questa è una frase che ha avuto successo, e che quindi è stata usata sia propriamente che impropriamente nella letteratura corrente. Nei miei scritti, la frase vuole indicare un modello concettuale specifico per descrivere in termini positivi una subcultura della civiltà occidentale, subcultura che ha una propria struttura e una propria ragione d’essere, un modo di vivere tra­ mandato di generazione in generazione attraverso la famiglia. La cultura della povertà non e semplicemente un fatto di privazione o di disorganizzazione, termini tutti che significano la carenza di qualche cosa. E’ una cultura nel vero senso antropologico tradizionale della parola in quanto offre ad esseri umani un modello di vita, un insieme di soluzioni pre-costituite di problemi umani, ed ha quindi una funzione significativa di adattamento. Questo stile di vita trascende i confini nazionali e regionali e le differenze urbano-rurali all interno delle nazioni. Dovunque si manifesti, i suoi portatori mostrano notevoli somiglianze nella struttura familiare, nei rapporti interpersonali, nel modo di spendere, nei sistemi di valori e nell’orientamento temporale.

Non si conosce veramente abbastanza questo importante complesso di com­ portamenti umani. La mia stessa teoria si sta evolvendo col progredire del mio lavoro e sarà probabilmente modificata da lavori successivi sia miei che di altri. La scarsezza di studi sulla cultura della povertà ci dà la misura della grande difficoltà di comunicazione che sussiste fra i poverissimi ed il personale (appartenente ai ceti medi) che dovrebbe attuare i programmi di lotta contro la povertà — studiosi di scienze sociali, assistenti sociali, insegnanti, medici, sacerdoti ed altri. Buona parte del comportamento che è accettato ed accettabile nella cultura della povertà è invece considerato incompatibile con gli ideali cari alla società più vasta in cui questa è inserita. Quando gli scienziati sociali descrivono le famiglie « affette da molteplici problemi » spesso ne sottolineano la instabilità, la mancanza di ordine, la mancanza di orientamento sociale e di organizzazione. Eppure, per quanto a me consta dall’osservazione diretta, il loro comportamento segue delle modalità caratteristiche ed è in gran parte prevedibile. Al contrario quello che più mi colpisce è la inesorabile ripetizione e la ferrea stabilità del loro modo di vivere. Il concetto di una cultura della povertà dovrebbe aiutarci a correggere quegli equivoci che ci hanno condotti a classificare certi modelli di comportamento di gruppi etnici, regionali o nazionali come loro caratteristiche distintive. A esempio, un’alta incidenza di unioni non legalizzate e di gruppi familiari con donne come capi-famiglia sono state ritenute caratteristiche della vita familiare dei negri ed attribuite alle loro esperienze storiche di schiavitù. In realtà si viene a scoprire che questo tipo di famiglia è uno dei tratti essenziali della cultura della povertà, e si ritrova fra popoli diversi in molte parti del mondo, comprese popolazioni che non hanno mai avuto esperienze di schiavitù. Benché sia ora possibile sostenere alcune di queste generalizzazioni, tuttavia c’è ancora molto da imparare su questo argomento così vitale e difficile. Uno dei più gravi scogli alla formu­

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