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Povertà, politica, intenzioni: il problema delle scelte

d i M a r t i n R e i n e S . M . M i l l e r

Per giungere a stabilire una regola, o un complesso di regole, in base alle quali distribuire le risorse esistenti fra una gamma di possibili interventi intesi a ridurre la povertà, si possono seguire almeno tre procedimenti. Si può, anzitutto, esaminare quali siano le caratteristiche dei poveri nella persuasio­ ne che, riuscendo a identificare chi è povero, o ha la probabilità di divenirlo, Sia possibile rendersi esattamente conto del genere di programmi sui quali puntare per raggiungere il fine ultimo dell’eliminazione della povertà. Si pos­ sono, in secondo luogo, ricercare le cause della povertà confidando, in tal modo, di poter attaccare il problema alle sue stesse radici. E si può, infine, soppesare il diverso contributo delle strategie d’intervento adottabili per com­ battere la povertà, per cercare di scegliere quelle che presumibilmente risul­ teranno più efficaci.

Tutti e tre questi procedimenti sono utili e necessari. Ma tutti e tre ci pon­ gono di fronte ad uno stesso dilemma — come conciliare 1 opportunità, in termini razionali, di un intervento con la sua attuabilità sul terreno politico e con tutti gli altri valori e motivazioni che ci inducono a preferirlo^ ad un altro? Esamineremo brevemente questi problemi, quali emergono in un’analisi, eseguita a scopo pratico, delle caratteristiche e delle cause della povertà.

Chi sia da considerarsi povero è una questione che dipende, in parte, da come viene definita la povertà. Può sembrare a prima vista che, per delineare le caratteristiche della povertà non ci si debba affidare che alla pura e sem­ plice analisi razionale. Invece, molti problemi di valore sorgono quando ci si accinge a questo compito. Se, per esempio, accettiamo una concezione della povertà basata sulla così detta « borsa della spesa » (market-basket), la linea di povertà dipenderà, in questo caso, dal numero, dal tipo e dalla qualità dei prodotti acquistati, dal prezzo che essi hanno sul mercato e dalla loro incidenza sul bilancio familiare. Ovviamente, più alto è il costo di questa « borsa della spesa » convenzionale, maggiore sarà il numero delle persone che ¡definiremo povere e più queste tenderanno a costituire un gruppo che quasi coinciderà, nelle sue caratteristiche, con quello della popolazione nel

Saggio pubblicato in Le o n a r d A. Go o d m a n (a cura di), Economic Progress and Social Welfare, Columbia University Press, New York, 1966 («Poverty, Policy, and Purpose: The Dilemmas of Choice »).

suo complesso. Una linea di povertà situata più in basso farà naturalmente classificare come povere un minor numero di persone e le caratteristiche di queste ultime differiranno maggiormente da quelle del resto della popola­ zione. Tuttavia, anche senza modificare il livello al disotto del quale è il caso di parlare di povertà, le caratteristiche dei poveri possono risultare diverse a seconda che si faccia uso o meno di uno standard di misurazione assoluto. Uno standard assoluto mantiene ferma una determinata linea di povertà. Uno standard variabile può venire invece adattato tenendo conto delle dimen­ sioni del nucleo familiare, dell’età e del sesso del capofamiglia, e delle diffe­ renze tra ambiente rurale e ambiente urbano. Il secondo tende a sottolineare la gravità dei problemi delle famiglie numerose, dell’infanzia in stato di po­ vertà, delle persone con piena occupazione ma stipendio inadeguato, e dei capifamiglia negri con prole; e a minimizzare invece l’importanza relativa, come gruppo in stato di povertà, degli individui anziani e senza famiglia.

Di conseguenza, ogni nostra analisi delle caratteristiche della povertà ri­ sentirà non soltanto del livello al quale fisseremo la linea di povertà, ma an­ che dei criteri di misurazione che adotteremo. Queste decisioni di carattere apparentemente tecnico sono invece in parte di natura politica (più in alto, infatti, si troverà la linea di povertà, maggiore sarà il numero delle persone definite povere) e in parte ancora dipendono da modi soggettivi di conside­ rare il problema (la povertà può essere concepita in termini di bilancio fami­ liare, di reddito pro-capite dei poveri, o del rapporto di quest’ultimo col red­ dito pro-capite medio).

Un secondo problema riguarda non la definizione della povertà ma le ca­ tegorie che scegliamo per classificare le caratteristiche connesse con la po­ vertà. Molte classificazioni non prendono in considerazione « le persone con piena occupazione », le « famiglie con bambini » e « chi usufruisce della sicurezza sociale ». Le attuali trattazioni e discussioni, ad esempio, trascurano per lo più la situazione delle persone con piena occupazione che tuttavia rappresentano circa il 30% della popolazione povera. Smolensky, preoccupato di questa diffusa indifferenza verso i problemi della persona occupata ma ugualmente in condizioni di povertà, domanda: « In che misura i dati rac­ colti indicano che il persistere della povertà è dovuto a... deficienze del mer­ cato e in che misura, invece, a lacune sociali e politiche? ».* Una deficienza del mercato è data da una situazione in cui un’alta percentuale della popo­ lazione povera sia costituita da persone appartenenti alle forze lavorative ma che percepiscono stipendi troppo bassi; un gran numero di poveri che vivano col solo sostegno della sicurezza sociale riflette invece le manchevolezze del sistema politico; un’alta incidenza della povertà tra i negri e le famiglie nu­ merose con bambini rivela una situazione economica e politica critica e, so­ stengono alcuni, anche delle deficienze personali e sociali.

I vari schemi di classificazione nascondono sottili e tuttavia importanti im­ plicazioni per la scelta della linea d’azione da seguire. Per esempio, un’analisi che menzioni la categoria dei « bambini in stato di povertà » vuole proba­ bilmente indicare che i bambini dei poveri possono essere soccorsi mediante programmi educativi e di riabilitazione; mentre la categoria delle « famiglie povere con bambini » sembra piuttosto mettere l’accento sull’importanza della pianificazione delle nascite e suggerire che oggetto di un intervento debba es­ sere un gruppo meno numeroso, quello delle unità familiari, anziché la gran­ de massa dell’infanzia. Schemi diversi suggeriscono differenti linee d ’azione. Nessun sistema di classificazione può comunque andare disgiunto dalle idee personali e dal giudizio politico del ricercatore in merito al problema delle dimensioni della povertà da prendere in considerazione. Gli inglesi, per esem­ pio, si basano soprattutto sulle seguenti caratteristiche, conseguenze, tutte, di insufficienze del reddito: deficienze nell’alimentazione; altezza e peso dei bambini; persone aventi diritto all’assistenza pubblica ma che non la ricevo­ no; disadattati e asociali.

II terzo problema da considerare riguarda le possibili limitazioni del no­ stro modo di classificare l’eterogenea popolazione che definiamo povera. Mol­ ti schemi di classificazione contengono categorie che in più punti si sovrap­ pongono, col risultato che individui con molteplici caratteristiche vi possono risultare classificati più di una volta. Il tentativo di Morgan di elencare solo le caratteristiche che non si accavallino produce il discutibile risultato che la categoria residua è d’ampiezza decisamente abnorme, raggruppando il 20% di tutte le unità povere. Inoltre, circa « il 40% dei poveri... non presenta caratteristiche socio-economiche tali da apparire ovviamente debilitanti », in termini delle caratteristiche connesse con la povertà indicate da Morgan e dai suoi collaboratori. Smolensky interpreta il dato in questione come dovuto ad « un fattore non identificato che è in grado di provocare la povertà negli slums delle grandi città ».2

Se, come abbiamo visto, criteri razionali e preferenze di valore sono alla base delle nostre definizioni, misurazioni e scelta delle categorie descrittive, le decisioni operative ci mettono di fronte anche alle dure realtà della attuabi­ lità sul terreno politico. A volte, queste forze in conflitto producono un sor­ prendente contrasto tra i programmi che abbiamo deciso di attuare e quelle che sono le caratteristiche della povertà. L’attuale guerra contro la pover­ tà, restrittivamente definita come l’insieme dei programmi realizzati in base all’Economie Opportunity Act, è rivolta in gran parte verso i problemi della gioventù dei grandi ghetti urbani.3 Ma nel 1964, il 43% della popolazione povera risiedeva in zone rurali, solo il 29% viveva negli slums cittadini e il 70% era costituito da bianchi.4 Queste osservazioni portano a concludere che spesso la politica adottata non ha che una assai tenue relazione con alcune delle caratteristiche salienti della povertà. Il fattore della attuabilità di un

programma nella particolare situazione politica del momento dà ben di più che una semplice coloritura alla linea d’azione seguita. A volte, questo in­ grediente risulta anzi, fra tutti, il più importante, il che contribuisce in parte a spiegare il nostro attuale interesse; nella guerra contro la povertà, per le deficienze sociali e personali, e la nostra relativa negligenza nei confronti delle manchevolezze del mercato.

Ogni studioso di scienze sociali è certamente a conoscenza del fatto che l’esistenza di una relazione statistica tra due fenomeni non implica necessa­ riamente anche quella di un rapporto di causalità. La « cultura della pover­ tà » è un fattore a sè stante che provoca la povertà, o è invece una reazione di adattamento ad uno stato di bisogno?

Esaminando le cause della povertà, incominciamo a toccare con mano i limiti del pensiero razionale nello studio delle scienze sociali. Facciamo un esempio. Sappiamo che esiste una correlazione tra malattia mentale e po­ vertà, ma, quanto a riconoscere 1’esistenza, tra i due fenomeni, di un rap­ porto di causalità non possiamo trovarci senz’altro tutti d’accordo. Si può in­ fatti, come molti fanno, sostenere che degli individui siano dapprima malati e, in conseguenza di ciò, scendendo via via tutti i gradini della gerarchia so­ ciale, finiscano col precipitare nello stato di povertà. O, viceversa, si può af­ fermare che certe persone, partendo da una condizione di povertà, si sfor­ zino di migliorare la propria situazione sociale nonostante le limitate possi­ bilità di progredire che loro si offrono e che i vari sentimenti di frustrazione causati dai ripetuti insuccessi, in questo sfibrante processo, provochi in loro tensioni che finiscono col condurli alla malattia mentale. Vi è poi, natural­ mente, anche qualcuno che mette in dubbio la validità dei dati dai quali si può dedurre l’idea iniziale di una connessione tra classe sociale e malattia.5 Costoro sostengono che tali dati ci rivelano piuttosto la reazione della società al fenomeno della povertà che non la distribuzione delle malattie mentali nella popolazione. Gli studi che si basano soltanto sulle statistiche ufficiali relative ai casi di ricovero negli ospedali psichiatrici riflettono in larga misura la de­ formazione classista dei nostri metodi di trattamento che, mentre per lo più decretano il ricovero in istituzioni statali dei malati poveri, consentono ai più abbienti di ricevere le cure necessarie senza essere ricoverati.

Esiste realmente un nesso importante tra malattia mentale e povertà, o è questa soltanto un’idea artificiosa che scaturisce dalle lacune delle nostre tec­ niche di misurazione e dai nostri concetti relativi alla salute mentale? Non esistono al riguardo prove conclusive. Sta di fatto, però, che la nostra per­ sonale ammirazione per il successo economico, come anche la persuasività delle argomentazioni di gruppi d ’interesse in campo psichiatrico, ci predispon­ gono a collegare la povertà con la malattia mentale e con l’instabilità emotiva. L’analisi delle caratteristiche dei poveri e delle cause della povertà non ci offre, come abbiamo visto, una solida base per decisioni operative. Ve­

diamo adesso se un esame delle possibili strategie d’intervento possa costi­ tuire. a questo riguardo, un più valido fulcro. L’argomento centrale della no­ stra analisi è in sostanza questo — la definizione del modo migliore di sce­ gliere tra varie possibilità d’intervento, in quanto da questa scelta può sca­ turire un insieme di criteri per il saggio impiego di scarse risorse. Quello che soprattutto ci interessa è di scandagliare i limiti del pensiero razionale, di esaminare il ruolo del fattore attuabilità politica nella formulazione dei programmi, e di sottolineare la fondamentale, ma assai spesso trascurata, im­ portanza dei valori nella scelta tra una gamma di possibili interventi. Non intendiamo, in questa sede, nè tracciare specifiche direttrici, nè enunciare prin­ cipi che guidino nelle scelte, nè suggerire un elenco di riforme da operare. Tenteremo piuttosto di illustrare la serie delle varie possibilità di scelta, in­ dicando come in pratica si sceglie, e come si potrebbe, invece, scegliere.

Proponiamo una tipologia di sei strategie d’intervento, che ci sembrano abbastanza generali e al tempo stesso analitiche da consentirci di esaminare a fondo gli importanti problemi di impostazione connessi con il compito di distribuire saggiamente le risorse. Non ci aspettiamo di fare di punto in bianco scoperte straordinarie. Tratteremo, quindi, una ristretta serie di scelte possibili, anche se è improbabile il consenso su ogni singolo sistema di classificazione. Il nostro elenco di strategie d’intervento non è nè esauriente nè composto di alternative che si escludano a vicenda, ma esso ci offre se non altro il lin­ guaggio preliminare per discutere le possibili scelte. Distinguiamo dunque sei strategie: miglioramento di servizi (amenities); investimenti in capitale umano; attribuzioni di fondi; riabilitazione; partecipazione; misure econo­ miche collettive e specifiche.

1) Miglioramento di servizi, intendendo, cioè quei servizi ideati per contri­ buire a migliorare e ad arricchire la qualità della vita sociale o, in altre pa­ role, destinati a modificare l’ambiente nel quale le persone vivono. Alfred Kahn propone l’uso del termine di « servizi di utilità sociale », contrapposto a quello più tradizionale di « servizi di utilità pubblica », che sta a indicare le strutture necessarie alla sussistenza in una società industriale. Questi servizi qualitativamente migliori non sono concepiti entro un quadro di malattia o di patologia, ma considerati come servizi normali e accettati, necessari all’uo­ mo per vivere in una società in trasformazione. Kahn riassume la sua tesi co­ me segue:

Il cam biam ento sociale crea nuovi prerequisiti per u n ’adeguata vita sociale nelle com unità industriali. Dato che essi vengono incontro ad esigenze funzionali di tu tta la società, essi dovranno essere creati socialm ente, nello stesso spirito nel quale le società del passato investivano fondi nella creazione di reti stradali, sistemi postali, servizi sanitari e sistemi educativi. L ’utente è il « citta­ d in o » , non un « c lie n te » . Avere bisogno di questi servizi non è indizio di deficienze personali ed usufruirne non attira su chi

lo fa alcun biasimo. (Essi sono) destinati a soddisfare i « nor­ mali » bisogni delle persone, che nascono dalla loro situazione e dal ruolo che ricoprono nella moderna vita sociale (e) possono essere considerati come « un investimento in funzione dello svi­ luppo ».6

2) L ’investimento in capitale umano è una strategia tendente a migliorare le possibilità economiche dei poveri per mezzo di investimenti effettuati nelle loro stesse persone mediante attività quali « programmi educativi, programmi sanitari, programmi di addestramento sul lavoro, inchieste sulle possibilità di impiego esistenti localmente e investimenti nel settore dell’emigrazione interna ». (I programmi sanitari, oltre che sotto la voce di cui stiamo trat­ tando possono rientrare anche nella precedente. Di questo, comunque, verrà discusso più avanti). Schultz ha avanzato la stimolante ipotesi che « l’evoluzione del sistema degli investimenti in capitale umano è il fattore fondamentale per una riduzione della ineguaglianza del reddito e per una sua più equa distribuzione ». Una implicazione della sua tesi è che « le modificazioni che possono verificarsi con attribuzioni di redditi, col sistema di tassazione pro­ gressiva e con la distribuzione della proprietà privata sono fattori non molto rilevanti al fine di cambiare la distribuzione del reddito individuale ».7

Si riscontra per lo più un’ambiguità di fondo riguardo agli obiettivi che i programmi educativi dovrebbero perseguire. I teorici di economia politica del diciannovesimo secolo consideravano l’istruzione come fondamentale, conce­ pendola però come un mezzo per inculcare l’abitudine al lavoro e l’acquisi­ zione delle capacità necessarie anziché come la via obbligatoria verso la mo­ bilità occupazionale. Le scuole per i poveri avevano, in quell’epoca, il com­ pito di sviluppare più che altro le doti di carattere.

3) Il sistema delle attribuzioni di fondi tende a trasformare la domanda delle risorse attraverso meccanismi non di mercato. I sistemi di attribuzione di fondi sono destinati, in altre parole, ad operare una redistribuzione del red­ dito colmando i dislivelli tra una categoria e l’altra di cittadini — tra lavora­ tori e disoccupati, tra giovani e vecchi, tra ricchi e poveri. Di fondamentale importanza è il sistema stesso della distribuzione. Sovvenzioni o attribuzioni di fondi possono essere fornite in una forma che promuova nel povero il ri­ spetto per se stesso convincendolo che egli, come l’agricoltore, arreca un ef­ fettivo contributo alla società accettando la sovvenzione. Di recente sono sta­ ti posti allo studio nuovi sistemi suscettibili di attenuare il marchio umiliante dell’assistenza: la tassa patrimoniale negativa; aiuti alle famiglie numerose; le assicurazioni per i nuclei familiari senza capofamiglia; assegni familiari per i bambini.

L’idea, oggi da molti propugnata, dell’opportunità di proteggere gli individui contro l’insufficienza di reddito è in contrasto con le linee d’azione di politica sociale, prevalenti negli anni ’30, della necessità di mantenere costante il li­

vello del reddito quali che potessero essere le esigenze degli individui, dovute alla tarda età, alla malattia, alla disoccupazione o ad altre eventualità colle­ gate ai diversi aspetti della vita in una moderna società industriale. Il sistema statale per assicurare un reddito assorbe 36 miliardi di dollari 1 anno e inte­ ressa un totale di più di 30 milioni di persone. Questo bilancio rappresenta il 6 per cento del reddito nazionale e una cifra equivalente al 40 per cento del reddito della popolazione povera. Commentando questi dati, Lampman osserva che « la maggior parte di questo danaro va a della gente non povera, mentre almeno una metà dei poveri effettivi non lo riceve affatto... Per sot­ trarre in breve tempo alla condizione di povertà tutte le persone rientranti in certe categorie di assistiti basterebbe portare il minimo delle erogazioni (mini­ mum benefits) a coincidere col livello degli introiti situati sulla linea di po­ vertà ».8 Ma la politica tendente a escogitare nuove forme e nuovi livelli di assistenza per ridurre il fenomeno dell’insufficienza di reddito continua ad essere concepita da molti come un espediente temporaneo anziché come la risposta ad un indiscutibile diritto di tutti i cittadini.

C’è, nell’attuale concezione americana della politica sociale, un curioso e inquietante pregiudizio contro l’uso delle attribuzioni di fondi come mezzo per ridurre la povertà. Levitan si riferisce chiaramente a questa situazione quando nota: « La maggior parte degli osservatori sarebbe d ’accordo, tuttavia, sul fatto che sarebbe preferibile provvedere un reddito alle famiglie povere mediante la creazione di posti di lavoro anziché mediante sussidi in denaro ».” Spiega Herman Miller:

Se si definisce la povertà come la carenza di reddito, il fatto di garantire a tutti u n reddito adeguato dovrebbe autom aticam ente tradursi nell’eliminazione della povertà stessa. Ma se innalzando ì redditi non avremo anche trasformato le condizioni che ci eravamo prefissi di modificare, non si potrà afferm are che i nostri sforzi abbiam o avuto pieno successo. In sostanza vogliamo dire, con questo, che le finalità di una guerra contro la povertà trascendono di gran lunga il semplice obiettivo di u n innalzam ento del livello dei redditi.10

Tuttavia, quando vengono concesse sovvenzioni agli agricoltori al fine di garantire la non-produzione, obiezioni di questo tipo non vengono in genere sollevate. In tutto il nostro modo di concepire l’assistenza ai poveri, noi con­ tinuiamo ad essere dominati dal pregiudizio vittoriano secondo il quale assicurare o garantire un reddito non serve ad altro che ad incoraggiare, ag­ gravare o provocare un deterioramento della moralità, ad annullare ogni in­ centivo al lavoro e ad indurre gli uomini ad abbandonare le proprie famiglie nella fiduciosa certezza che vi sarà comunque qualcuno che provvederà a loro Di conseguenza si assiste al fenomeno che i programmi di assistenza

pubblica, non si preoccupano tanto dell’adeguatezza dell’assistenza prestata,