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Z. Sociologia della conoscenza

OLIVETTI PRAXIS

M. Z. Sociologia della conoscenza

A l b e r t o Iz z o, Sociologia della cono­

scenza, Collana « Problemi di So­ ciologia », voi. 12, Armando Ar­ mando Ed., Roma, 1966, pp. 189. L’istanza idealistica che ha spinto lo spirito umano a dar ragione degli elementi determinanti lo stesso pro­ cesso conoscitivo è la stessa, si può dire, che ha determinato la nascita dell’analisi sulle condizioni — con­ dizioni sociali, nel senso più ampio, quindi anche storiche — nell’ambito delle quali si svolge la conoscenza.

In quanto entrambi dipendenti da questa istanza, potremmo intendere quindi come due estremi opposti, da una parte, la concezione dei fedeli prosecutori di quella radice, i quali,, in qualsiasi discorso sulle condizioni della conoscenza, temono fortemente di veder storicizzato il teoretico — giacché intendono questo come « ca­ tegoria », sicura e acquista una volta per tutte. E, dall’altra parte, la teoria delle correlazioni funzionali di G. Gurwitch, che nega ogni possi­ bilità alla conoscenza di svincolarsi anche parzialmente dal condiziona­ mento della situazione sociale di fat­ to esistente. La prima di queste con­ cezioni porta naturalmente al rifiu­ to di quella analisi — da qualche decennio definita come « sociologia della conoscenza » — che per Gur­ witch, all’estremo opposto, coinvolge completamente il campo del teore­ tico.

Il libro di A. Izzo, sopra indicato, offre una panoramica ampia dei pro­ blemi connessi con la sociologia del­ la conoscenza; e le teorie che in pro­ posito sono state elaborate sono pre­ sentate come comprese appunto, fra quelle due concezioni-limite. Per questo crediamo che possa costituire un’utile introduzione ai problemi che ormai parecchi studiosi individuano come campo della sociologia della conoscenza.

L’A., infatti, nella prima parte del libro, dopo una premessa riguardan­ te l’ambito della ricerca ed una enu­ merazione dei principali problemi, in generale connessi con la sociolo­ gia della conoscenza, mette in luce come, fin dall’inizio, gli studi in pro­

posito si siano avviati per due di­ verse direzioni: da una parte, l’in­ dirizzo « funzionalista », che tende a limitare lo studio svolto dalla so­ ciologia della conoscenza alla ricer­ ca del rapporto esistente tra deter­ minate forme di società e determi­ nate forme di conoscenza; dall’altra parte, l’indirizzo critico che vede nella scoperta del condizionamento sociale della conoscenza la possibi­ lità di una relativa liberazione del pensiero dai suoi vincoli storico-so­ ciali. In questa prima parte, quindi, l’A. prende in esame il pensiero dei principali sociologi moderni distinti secondo le due direzioni appena esa­ minate: riporta, così, il pensiero di Merton, Parson e Gurwitch, da una parte, di Fromm e di Marcuse dal­ l’altra.

In questa analisi, dettagliata ed estesa anche ad altri autori, ci sem­ bra stia l’utilità del libro.

Nell’ultima parte, poi, l’A. pone l’accento sull’importanza della socio­ logia della conoscenza vista come ri­ valutazione e contributo al pensiero critico. Preoccupazione questa che conferma, ancora una volta, il lega­ me esistènte fra questo tipo di ana­ lisi e la problematica idealistica. Giacché si imposta continuamente un discorso sul pensiero critico e sui modi e i mezzi per portare al pensiero critico il maggior numero di individui, dimenticando o lascian­ do da parte il discorso sulla trasfor­ mazione di quelle, condizioni storico­ sociali che sono alla base, appunto, di quelle forme di pensiero che si vuole liberare.

M.Z.

Antropologia culturale

A u t o r i Va r i, La ricerca antropolo­ gica. Venti studi sulle società pri­ mitive. (A cura di Joseph. B. Ca­ sagrande), 2 voli., Einaudi, Torino. 1966, pp. 352-668.

Questo volume è anzitutto una raccolta di memorie personali, scritte da antropologi su individui che essi hanno avuto modo di conoscere a fondo nel corso del loro lavoro: per­ sonaggi che hanno funzionato per il ricercatore come lenti prismatiche attraverso cui è avvenuta l’osserva­ zione della realtà interessante la ri­ cerca. Infatti questo libro intende « rendere il lettore partecipe di espe­ rienze personali, nel lavoro di ricer­ ca, e comunicargli la qualità essen­ zialmente umana della nostra disci­ plina, in un modo che sia ad un tempo esteticamente, emotivamente e scientificamente soddisfacente». Questo fine eminentemente « uma­ no » è sempre presente nei docu­ menti degli autori: « rilevare la per­ sonalità, delineare l’individuo come essere umano verosimile, sullo sfon­ do del proprio ambiente e della propria cultura, e mostrarlo nel qua­ dro delle sue funzioni sociali, piut­ tosto che dare semplicemente la cro­ naca della sua vita ». Se, infatti, la ricerca sperimentale rappresenta una vivace « avventura della mente e del­ lo spirito », a maggior ragione essa rappresenta anche una « notevole esperienza umana, sebbene la mag­ gior parte degli scritti d’antropolo­ gia tenda a lasciare nell’ombra que­ sto fatto. Preoccupati di modelli e di norme culturali, siamo soliti, nei

nostri articoli e nelle nostre mono­ grafie, trattare i dati che abbiamo raccolto ad un livello molto astratto, ben distante dalla vivacità ed imme­ diatezza di ciò che abbiamo visto nell’ambiente ».

1 diversi capitoli sono disposti se­ condo un criterio geografico, a partire dalle isole del Pacifico e dall’Austra­ lia, procedendo attraverso l’India, l’Africa, l’America del Sud e del Nord. AU’intemo di queste aree ter­ ritoriali, i vari saggi sono divisi in modo alquanto impressionistico acco­ stando, di volta in volta, personaggi, simili tra loro ovvero situazioni con­ trastanti per stile, tono o argomento, e sono stati scritti tutti, tranne due, appositamente per questa raccolta, da autori, tra i quali ricordiamo: Margaret Mead, Raymond Firth, Cora Dubois, Clyde Kluckhohn.

Dalla rassegna di questi singolari « ritratti », si resta colpiti dalla in­ dividualità e dal valore personale dei suoi componenti: « non sono tutti da ammirarsi, ma per la mag­ gior parte, ciascuno a suo modo, so­ no persone d’eccezione. Questo è forse il punto cruciale del problema materiale ed essenziale dell’antropo­ logia: spiegare il senso simultaneo di unico e di universale che abbia­ mo nel nostro simile, l’uomo ».

E.C.

Ma t i l d e Ca l l a r i G a l l i, Le storie di vita nelle analisi culturali di Robert Redfield, Oscar Lewis, Co­ ra Dubois, Ed. Ricerche, Roma,

1966, pp. 126.

Sull’importanza metodologica delle storie di vita nelle scienze sociali, si incentra l’analisi condotta da M. Callari Galli, articolata in quat­ tro capitoli: Antropologia e socio­ logia di fronte al documento uma­ no; La posizione neo-kantiana di Robert Redfield e l’utopia positivi­ sta di Oscar Lewis. (La preminenza della « cultura osservata », nelle ope­ re di R. Redfield; O. Lewis e la biografia come autobiografia di una cultura); Le scienze sociali e le so­ luzioni alla dicotomia di « cultura osservata » e « cultura vissuta ». (La necessità delle interpenetrazioni tra metodi antropologici e metodi psica­ nalitici; storia e biografia quali ter­ mini essenziali per cogliere le intera­ zioni tra individuo ed istituzioni); La storia di vita quale locus naturale per cogliere l’integrazione culturale. (Individuo ed istituzioni, cultura e personalità, elementi « consistenti », tanto a livello sincronico che a livel­ lo diacronico; la biografia di fronte al problema del rapporto individuo- personalità di base).

« Per il compito fondamentale del­ la moderna antropologia — la com­ prensione del fenomeno culturale — la. raccolta delle storie di vita, la ricostruzione e la lettura delle bio­ grafie, l’uso dei documenti personali si pongono al centro dell’interesse scientifico dell’antropologo, quale ri­ soluzione metodologica, nel suo fare teoria e ricerca, meglio nel suo fare insieme teoria e ricerca ». La biogra­ fia, come strumento di metodo, nasce dalla convergenza di « principi e tecniche psicoanalitiche e antropologi­ che e si articola tra i due poli della

presupposta unità dei meccanismi psi­ chici universali e della specializza­ zione delle strutture tipiche di un contesto sociale». Ora, proprio la raccolta e la lettura critica delle bio­ grafie appaiono all’autrice momenti di un processo di risoluzione dei pro­ blemi che sono al cento dell’interes­ se antropologico: cogliere « la tota­ lità » del fenomeno culturale, vale a dire l’integrazione culturale. Infatti, « i resoconti personali (personal life- records) ... esperiscono nell’antropo­ logia moderna la funzione di metodo di ricerca, determinato da una certa impostazione teoretica, e mirante a convalidarla, trasportarla cioè dal li­ vello ipotetico a quello operativo », orientando il fuoco dell’attenzione dal generale al particolare, il quale — nella relatività del pluralismo cul­ turale — tende a porsi come « unità ed unicità storica, specifica ed irri­ petibile ».

E.C.

De Homine, n. 17-18, giugno 1966. (Numero monografico sull’antropo­ logia culturale).

Nel numero monografico 17-18, della rivista dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Roma, De Ho­ mine, si trovano raccolti numerosi e diversi contributi all’antropologia culturale, da alcune considerazioni di apertura di Franco Lombardi sul re­ lativismo culturale, al ruolo che l’an­ tropologia culturale si trova a svol­ gere nel mondo moderno: su questo tema Tullio Tentori precisa che il lavoro antropologico consiste « non

nel descrivere ma nel problematiciz- zare la descrizione », e occorre che sia eminentemente pratico, e non certo nel senso angusto di ausiliario dell’ingegneria sociale. Perché, in quanto « scienza dell’uomo al servi­ zio dell’uomo », l’antropologia cul­ turale è investita di responsabilità educative, prima fra tutte quella di « sollecitare una presa di coscienza e il processo di demistificazione cul­ turale del mondo moderno ».

Sui rapporti tra antropologia cul­ turale e sociologia in Italia scrive F. Ferrarotti, auspicando una più in­ tensa comunicazione interculturale tra le due discipline, mentre uno scritto di Ernesto De Martino si cen­ tra più specificamente su « La ricerca interdisciplinare nello studio dei fe­ nomeni culturali »: « Nella sfera del­ le scienze che hanno per oggetto la vita culturale dell’uomo in società, il principio della ricerca interdisci­ plinare si è sviluppato relativamente tardi e con notevoli difficoltà, pro­ babilmente per tre diversi ordini di ragioni: in primo luogo la tradi­ zione umanistica è tenacemente le­ gata al presupposto della elaborazio­ ne specialistica di cui un solo indivi­ duo porta interamente e gelosamente la paternità e la responsabilità; in se­ condo luogo in tutti quei casi nei quali sarebbe opportuna la collabo- razione tra studiosi di scienza della natura e studiosi della vita culturale dell’uomo in società, la radicale di­ versità di prospettive, di metodo e di linguaggio rende di fatto praticamen­ te impossibile qualsiasi forma di dia­ logo ...; in terzo luogo manca un adeguato sviluppo della metodologia

della ricerca interdisciplinare nel cam­ po delle scienze che hanno per ar­ gomento la vita culturale dell’uomo in società. Queste tre ragioni concor­ rono senza dubbio a mantenere in limiti relativamente modesti la effi­ cacia del principio collaborativo in questa sfera del sapere ».

Sui rapporti tra antropologia cul­ turale e scienze umane, si leggono con interesse alcune considerazioni di Remo Cantoni, relative al sostrato comune dei concetti utilizzati nelle scienze della natura e nelle scienze dell’uomo, i quali sono « tutti, in ugual modo, operativi e strumentali », e in particolare consentono alle scien­ ze umane di sollevarsi dall’ambito esclusivo della ricerca empirica per aspirare fondatamente a collocarsi nel terreno delle scienze dello spirito e della filosofia della natura, soprat­ tutto nell’approfondimento dei con­ cetti nodali di « cultura » e « so­ cietà ».

Quando il Cantoni afferma: « Lo psicologo, l’etnologo, l’antropologo culturale, il sociologo, lo studioso di scienze della preistoria, lo scienziato che analizza, entro contesti socio- culturali ..., istituzioni e rituali, aspet­ ti del folklore e credenze, miti e co­ stumi, opere d’arte e tecniche del comportamento, procedono tutti af­ frontando la cosidetta ricerca sul campo, si cimentano tutti in una in­ dagine empirica che è il correttivo più salutare per emendare l’intelli­ genza da pregiudizi da dogmi incon­ trollati », egli prelude in termini chiari alla sua opera più recente, segnalata di seguito.

E.C.

Re m o Ca n t o n i, Illusione e pregiu­ dizio, Il Saggiatore, Milano, 1967, pp. 479.

L’A. che, fin dal 1941, ne II pen­ siero dei primitivi (Il Saggiatore, Mi­ lano, 1963) aveva iniziato un « prelu­ dio a un’antropologia » specifica, ap­ profondisce il suo interesse di studio­ so di scienze umane in questa nuova opera il cui titolo potrebbe suscitare il sospetto che l’A. =i ritenga « disin­ cantato », al di là dell’illusione e del pregiudizio. In realtà, egli avverte, ci si può accostare a questo libro da una duplice prospettiva, che, so­ la, consente di intendere il significa­ to delle tesi proposte e di valutarle: la prima delle due, è illuministica, in lotta contro tutte le chiusure etno­ centriche: pregiudizi razziali, società chiusa, spirito tribale, ideologie set­ tarie, particolarismi, miti nazionali­ stici, colonialistici, imperialistici. « Il personaggio sotto accusa è l’uomo etnocentrico, la coscienza chiusa bloc­ cata in un sistema di pregiudizi e di illusioni incompatibili con la strut­ tura universalistica che stanno assu­ mendo, in rapida accelerazione, la società moderna e la moderna inter­ pretazione del mondo fisico e cultu­ rale ». La seconda prospettiva, da cui si pone l’A., è di natura antropo- logica e sociologica: egli resta infatti fedele alla filosofia accogliendo tut­ tavia orientamenti innovativi, fuori da « comode scorciatoie » filosofiche, inclini sovente a mettere tra paren­ tesi il mondo storico di cui tutti, a li­ velli diversi di consapevolezza, sono partecipi.

Il volume è ricco di spunti e di ampie citazioni da opere di antropo­ logia e di sociologia, in nome di quel­ le che il Cantoni definisce ragioni di « utilità didattica » : mettere cioè a disposizione dei giovani, e sotto- lineare dinanzi a loro la portata del pensiero e dell’opera dei pionieri di queste scienze non tradizionali, di recente affermazione. « Vorrei che i lettori, soprattutto ' giovani ai quali mi rivolgo, si persuadessero che an­ che studiosi come Durkheim, Man­ nheim, Pareto, Max Weber, Mali­ nowski, Parsons, Merton, Lévi- Strauss ..., vanno studiati con la me­ desima attenzione che l’appassionato di filosofia dedica a Dewey, Russell, Cassirer, Whitehead, Hartmann...».

L’ampio materiale, costituito anche da rielaborazioni di temi già tratta­ ti altrove, e completato da una ric­ ca bibliografia, è distribuito in vari capitoli, secondo una progressione che consente di riconoscere l’ethos filosofico dell’A.: con « Scienze del­ l’uomo e nuovo umanismo », l’A. prende in esame vari orientamenti antropologici, dal relativismo cultu­ rale di Ruth Benedict e Margaret Mead all’antropologia strutturale di Lévi-Strauss (accostato a Freud e Marx per l’assunzione piena e con­ vinta del principio secondo cui « la realtà vera non è mai la più manife­ sta »). L’ultimo capitolo, che fa se­ guito ad un’analisi sulla crisi delle ideologie, su valori e utopie, mito e demitizzazione, atteggiamento scien­ tifico e resistenze sociali, è dedicato a Husserl, in riconoscimento del so­ stanziale apporto del metodo fenome­ nologico alle scienze umane Infatti,

« ... i temi della soggettività, del si­ gnificato, del valore, della intenzio­ nalità, del telos, son motivi centrali per intendere il comportamento e Patteggiamento dell’uomo... ».

E.C.

Al p h o n s e D u p r o n t, L’acculturazio­ ne, Einaudi, Torino, 1966, pp. 134.

Ad uno dei concetti nodali dell’an­ tropologia culturale è dedicato il breve volume di Alphonse Dupront che raccoglie il testo del rapporto, presentato a Vienna nel 1965 al XII Congresso intemazionale delle scienze storiche, e riveduto appositamente per questa pubblicazione nell’estate del ’66. Qui « acculturazione » vie­ ne impiegato come « sinonimo rias­ suntivo di prestiti, trasmissioni, con­ tatti, influssi, retaggi culturali ». Il senso del sottotitolo, « Per un nuovo rapporto tra ricerca storica e scien­ ze umane », si chiarisce meglio at­ traverso le parole pronunciate dal Dupront nel 1964 ad un colloquio organizzato dal Centre catholique des intellectuels français: « ... non si dà l’esistenza del presente senza presen­ za del passato, e quindi nessuna lucidità del presente senza coscienza del passato... Nella vita del tempo, il passato è certamente la presenza più pesante, e quindi probabilmente anche la più ricca, e in ogni caso quella da cui occorre trarre nutri­ mento e distinguersi... La manifesta­ zione della presenza del passato nel presente si impone come una delle vie di una storia umana, all’incrocio fra numerose discipline: sociologia, psicosociologia, e antropologia».

Come infatti chiarisce Corrado Vi­ vami nella sua lunga Prefazione, tra i pregi maggiori di questo saggio sta il suo porsi « come manifesto per chiamare questa diverse discipli­ ne a una solidarietà, a una comuni­ cazione intensa, sempre più stretta, richiesta dai bisogni più vitali del nostro tempo pe la conoscenza del nostro passato e di noi stessi, in un mondo che non ammette più barrie­ re, steccati, mitiche mura ». E in questo saggio, infatti, il Dupront non si limita ad auspicare un generico incontro interdisciplinare, ma solle­ cita piuttosto una comprensione illu­ minata delle possibilità promettenti di un rapporto collaborativo tra me­ todi e strumenti d’analisi della storia e dell’antropologia.

La prima parte del testo, « Rappor­ to sull’acculturazione», intende esse­ re una meditazione « impegnata », nata « da un bisogno e da una volon­ tà di incontro fra antropologi e stori­ ci », sulla nozione di acculturazione così come si è venuta delineando negli studi americani, e che l’A. ritiene si presti a notevoli ambiguità. Queste difficoltà nell’uso della parola corri­ spondono alla difficoltà non solo di definirne l’area e le frontiere, ma an­ che dall’ambiguità dell’atteggiamento antropologico di fronte ai fenomeni di interazione e scambi culturali. L’A. critica la carenza di « inserimento temporale della riflessione antropolo­ gica » che rischia di dare un caratte­ re di permanenza e universalità a istituzioni osservate nel tempo pre­ sente, e ne trova le radici in ambi­ zioni non esplicitate di raggiungere certezze e identità eterne. Egli ri­

chiama l ’attenzione sulla necessità di riallacciarsi alla storia: « queste tra­ dizioni che una certa antropologia troppo spesso raccoglie in na sin­ tesi extra-temporale devono eviden­ temente essere valutate nella loro durata se si vuole discernere fin nel mondo attuale lo stato d’animo o di vita che esse rappresentano ». E per riscontro sottolinea l’importanza di stabilire non solo le origini sociali del gruppo -pportatore ma fino a che punto e in che modo esso fosse cosciente di una « vocazione a porta­ re » e quali dati della sua cultura originale esso portasse con sè. Fun­ zione della storia in questo campo è poi non di accettare come fatti compiuti i sincretismi — quilibri vitali raggiunti nelle nuove forme — ma di seguirne le elaborazioni e mostrarne o la virtù unificatrice o la qualità di « provvisorio medica­ mento ».

L’A. accetta l’esistenza di uno psi- chismo collettivo radice dell’organi­ cità e coerenza di una cultura e so­ stiene che la storia possa dare una nuova dimensione alla « psicologia dell’acculturazione». Questo sia ren­ dendo chiare ed esplicite le origini di quei blocchi mentali che rendono difficile conoscere l’altro, a causa di quelle immagini collettive dell’« al­ tro » che fin dall’inizio dell’incontro ogni gruppo portava con sè, sia nel ricercare le cause per cui la presa di coscienza dell’altro mondo ha uno scarto temporale così lungo rispetto all’avvenimento dell’incontro. In que­ sto senso, « la storia assume tira- verso l’acculturazione, il valore di una psicanalisi collettiva ».

La seconda parte si intitola « Al l’indomani del Rapporto: dall’accul­ turazione alle scienze umane ».

Il Dupront conclude fornendo al­ cune direzioni di ricerca, centrate sul lavoro interdisciplinare, al fine i in­ dividuare strumenti di lavoro e me­ todi per uno studio di insieme degli scambi che si verificano negli incon­ tri culturali; valorizzare i fenomeni della circolazione semantica produ­ cendo un repertorio, un lessico « del­ l’evoluzione comparata delle grandi nozioni o rappresentazioni collettive dell’età moderna e contemporanea nei diversi ’’ volgari” europei»; fa­ re l’inventario o l’analisi della pre­ senza, dell’assenza o della scompar­ sa, presso talune culture, di « temi culturali », intesi come definizione di rapporti, ovvero — secondo l’espres­ sione di Morris Opler — studio dei temi come « forze dinamiche nella cultura»; determinare inoltre gli ste­ reotipi collettivi o nazionali, descri­ vendone i meccanismi, e valutandone il peso nei contatti culturali, siano essi individuali o collettivi. « Simili ricerche, condotte obiettivamente e te­ nacemente, dovrebbero fornire mate­ ria di insegnamento, fondata sul pas­ sato e al tempo stesso non da questo ipotecata, della comunicazione inter­ nazionale o delle interculture nell’eco­ nomia unificatrice del mondo attuale».