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La non cultura della povertà

d i A l v in L . S c h o r r

Tengo anzitutto a precisare che non ho nessuna ragione di dissenso con Oscar Lewis. Egli adopera repressione « cultura della povertà » in un senso dinamico, per esprimere l'interazione tra circostanze e atteggiamenti. Mi preoccupa invece l’uso corrotto di tale espressione che va da qualche tempo prevalendo, sia tra coloro che lo sfruttano a sostegno dei propri pregiudizi, sia tra altre persone che, per essere dei clinici o degli studiosi di scienze sociali, dovrebbero saperne un po’ più degli altri. Nell’accezione corrotta, per cultura della povertà si intende qualcosa di esistente in se stesso — una visione del mondo che avrebbe origini oscure e una relazione soltanto casuale con la realtà.

Pronunciarmi sulle determinanti materiali degli atteggiamenti e del compor­ tamento è la mia principale occupazione. Sostenere che le cose o i prodotti dell’attività umana siano tutto sarebbe — è ovvio — altrettanto ingenuo quanto ritenere che tutta la realtà si compendi negli atteggiamenti e nei rituali. E’ difficile descrivere l ’interazione che incessantemente ha luogo tra oggetti e sentimenti. Ancora più difficile è tenerla sempre presente. Mi limiterò, quindi, ad esporre una volgarizzazione per correggerne un’altra.

Anzitutto, mi siano consentite due brevi osservazioni introduttive. In primo luogo, questa: gli atteggiamenti associati con la cultura della povertà, vale a dire la tendenza ad occuparsi solo di ciò che è immediatamente presente, il cinismo, la passività, sono una risposta realistica ai fatti della povertà. E’ vero che questi atteggiamenti precludono ogni possibilità di realizzare pro­ grammi « di vasto respiro » nonché altri promettenti programmi dimostrativi. Tuttavia io non sono persuaso — e, come me, credo non lo siano neanche una gran parte dei poveri — che essi finiranno col conquistare la carota posta in cima al bastone: vale a dire, per fare un esempio, il danaro per il biglietto d’ingresso, nonché le pellicce, i profumi, la compagnia, le maniere che una persona deve possedere per recarsi, poniamo, a sentire un concerto di Beetho­ ven; o qualsiasi altro risultato che non sia il trascurare i figli e un senso di profonda stanchezza se una donna, per esempio, riesce a fare a meno della pub­ blica assistenza procurandosi un lavoro. Il risparmio di energia psichica deri­ vante dalla passività e dallo scetticismo può essere essenziale al mantenimento dell’equilibrio psichico. Io mi sono spesso domandato se una persona povera faccia bene ad indulgere in questi atteggiamenti. Ma chi può dirlo con certezza?

Articolo pubblicato in The American Journal of Orthopsychiatry, voi. XXXIV, n. 5, 1964, («The Nonculture of Poverty»).

La seconda osservazione è questa: noi possiamo senz’altro trascurare di prendere in considerazione le teorie di coloro che hanno una concezione statica degli atteggiamenti dei poveri, perché il loro unico scopo è quello di non essere infastiditi dai problemi altrui o di sentirsi superiori agli altri. Esistono, comunque, tentazioni ancora più sottili di questa. Poiché, se la povertà poggia prevalentemente su un sistema di valori, quanto importante diviene allora il sociologo che, solo, analizza e comprende questi valori! Quanto importanti il maestro, l’assistente sociale e lo psichiatra che sono i potenti artefici di ogni trasformazione dei valori! Se, d ’altro canto, problemi ordinari come quelli del danaro o delle abitazioni fossero quelli importanti, provvedervi spetterebbe a funzionari, operai e, in ogni caso, ad altri tecnici. Non molti di noi si lasciano prendere da queste tentazioni. Tuttavia, nei discorsi ufficiali, si sente di quando in quando, qua e là, la frase accondiscendente, il ragionamento para-logico che sono la spia di quel diffusissimo difetto che e la presunzione.

Dopo avervi esposto queste osservazioni non sostanziate da alcuna dimostra­ zione, entrerò adesso nel tema che mi ero prefisso di trattare: quali ripercus­ sioni possono produrre il regime di alimentazione e il tipo di abitazione sugli atteggiamenti e sul comportamento degli individui. Incomincerò, come mi sem­ bra logico fare, dall’alimentazione. Da un’esperienza fatta Testate scorsa, sono stato indotto a documentarmi su un certo numero di scritti medici sull alimen­ tazione. In una delle zone di baracche che sorgono nei dintorni di Parigi, mia moglie ed io facemmo amicizia con una studentessa di Antioch College, che prestava servizio volontario come aiuto assistente sociale. Gli altri giovani che lavoravano con lei, un gruppo di iscritti a\\’Associatimi d Aide à Toute Détresse, vivevano nello stesso tipo di casupole e si nutrivano su per giù alla stessa maniera dei loro assistiti. Io ritengo che, leggendo questo articolo, Christine non si sentirà offesa se riferisco quanto essa apparisse simile, nel­ l’aspetto e nel modo di fare, ai suoi clienti. Aveva la pelle secca, screpolata e grigiastra; un’apparenza sciatta e, dalla mattina alla sera, un enorme spos­ satezza. Nel lavoro mostrava un incredibile senso di responsabilità ma nessuna vivacità, nessun ottimismo, niente di quello spirito di avventura che aveva portato lei, americana, fino a Parigi.

Non attribuisco al caso di Christine il valore di una dimostrazione scientifica. Conoscerla mi indusse però a leggere un certo numero di testi sui problemi dell’alimentazione, e vorrei citarvi qualche passo da alcuni di essi. In conse­ guenza di un prolungato periodo di malnutrizione, si legge ad esempio,

si producono in un organismo varie trasformazioni funzionali. Esse si manifestano clinicamente con sintomi che in genere ven­ gono fatti rientrare nella sindrome di nevrastenia. Tra questi feno­

meni sono compresi disturbi molto comunemente accusati, quali la tendenza ad affaticarsi con eccessiva facilità, l’insonnia, l’inca­ pacità di concentrarsi, l’accumulo di « gas », le palpitazioni car­ diache e varie altre anomale sensazioni fisiche. L’insorgere (di questi sintomi) è indubbiamente un indizio del venir meno, nei tessuti, di certe sostanze nutrienti ((olliffe, in C. N., p. 33).8

Chi, avendo avuto a che fare con dei poveri non si sarà meravigliato del gran numero di disturbi che essi continuamente accusano? Ci chiediamo: dov’è la loro forza motrice, dov’è la loro ambizione? Ma ecco i sintomi che soprav­ vengono quando si sia stati sottoposti ad un prolungato periodo di malnutri­ zione: « depressione, assenza di ambizioni, senso d’impotenza, e la sensazione di essere vecchi ». E ancora: « depressione, apatia, inazione e indifferenza a tutto ».9 Un più circostanziato ragguaglio sulla sindrome depressiva appare in uno studio condotto su un gruppo di donne incinte. La loro dieta, che era stata a lungo carente di vitamina Blt di calcio e di ferro, venne riportata al livello consigliabile dato il loro stato:

Da principio (dice la relazione) si stancavano di tutto, le faccende domestiche le infastidivano; avevano un’aria infelice e trascurata. Dopo tre settimane del nuovo regime dietetico, appa­ rivano molto più in ordine, avevano la faccia lavata e i capelli ben pettinati. Era chiaro che avevano ripreso a tenere al loro aspetto, ed erano anche molto più allegre e serene.18

Infine — e qui traduco dalla sociologia alla psicologia (*) — che cosa dire della tendenza spesso osservata nei poveri a proiettare ogni responsabilità e ogni colpa sugli altri? Uno studio su un gruppo di soldati canadesi che venivano inadeguatamente nutriti giunge alla conclusione che « essi attribuivano la colpa delle loro mediocri prestazioni non a se stessi ma ai loro ufficiali. Reagivano incolpandosi l’un l’altro e sostenendo che niente funzionava tranne loro stessi »,18

Non credo sia il caso di insistere oltre su questo argomento. Comunque, io non sono un esperto dell’alimentazione e non posso aggiungere niente a

(*) Secondo una classificazione sociologica dei valori, gli individui si dividerebbero in tre categorie: coloro che si sentono soggiogati dalla natura, coloro che si sentono in armonia con essa e, infine, coloro che sentono di dominarla.4 Un elemento della cultura della povertà sarebbe, secondo questa classificazione, il sentirsi soggiogati dalla natura o, al massimo, in armonia con essa.15. 16 In altre parole, se una persona povera ha delle difficoltà, tende a proiettarne la responsabilità su forze esterne.

quanto esplicitamente riferito dagli autori citati. Soltanto, ritengo importante osservare come molti sintomi che noi riteniemo dovuti a fattori psicologici o culturali possano invece essere conseguenza della malnutrizione.

E ffe tti di una dieta inadeguata

Un’osservazione bisogna forse ancora aggiungere. Nonostante tutto il discutere che in questi ultimi tempi si è fatto sulla povertà negli Stati Uniti, ci riesce ancora difficile credere che un gran numero di persone non si nutre adeguata- mente. Si calcola che, tra le famiglie con bambini, almeno una su cinque sia costretta a scegliere tra dieta adeguata e altre necessità. Si ritiene che per lo meno cinque milioni delle nostre famiglie con bambini non si possano procurare qualcuno degli elementi indispensabili per una dieta sia pure minimamente adeguata Dati più precisi si possiedono per quanto riguarda i nostri programmi di pubblica assistenza. In non più di due o tre Stati del nostro paese gli enti di pubblica assistenza destinano al settore alimentare una percentuale del proprio bilancio rispondente agli standards fissati dal Ministero dell agricol­ tura.13, 14 Parlando degli effetti dell’alimentazione sugli atteggiamenti degli individui, noi trattiamo quindi di un problema tutt’altro che astratto.

Passiamo adesso al problema delle abitazioni. Ho scritto, in un altro mio articolo, che. dal fatto di abitare in un alloggio inadeguato scaturiscono i seguenti effetti:

... Una percezione di se stessi tale da condurre al pessimismo e alla passività, uno stato di tensione al quale l’individuo non riesce ad adattarsi, una cattiva salute ed un generale stato di insoddisfazione; un certo piacere di stare in compagnia, ma non il piacere di stare da soli, un atteggiamento di scetticismo nei confronti delle altre persone e delle organizzazioni, un elevato grado di eccitabilità sessuale senza possibilità di legittimo sfogo, e notevoli difficoltà nell’assolvere al compito di dirigere la casa e di educare i figli; e, infine, la tendenza ad espandere i propri rapporti nel quartiere anziché a radicarli profondamente dentro la famiglia.17

Non abbiamo qui lo spazio per discutere di più di uno di questi effetti. In complesso, conseguenze come quelle che ne possono derivare alla salute (pericoli per l’incolumità personale, malattie dell’apparato respiratone e della pelle, ecc.) sono troppo evidenti per doverle illustrare particolareggiatamente. Esamineremo invece le ripercussioni che il fatto di essere male alloggiati può avere sull’educazione dei figli. E’ questo, infatti, un pioblema a quant più complesso.

Capita assai spesso, negli slums delle nostre città, di osservare quanta parte della vita delle famiglie si svolga fuori di casa. Si potrebbe pensare che sia un fenomeno dovuto ad abitudini importate da Portorico, dall’Europa o dalle aree rurali, a seconda di quali slums si considerino. Però, in un centro sociale non distante da qui, avevo espresso una volta i miei dubbi circa un programma quotidiano organizzato per gli adolescenti del quartiere. Essi venivano trattenuti al centro fino alle dieci di sera, ora in cui venivano rimandati a casa. Non mi sembrò del tutto una buona cosa. Comunque, lascio a voi di giudicare. Questi ragazzi di 13 e di 14 anni vivono in appartamenti tanto piccoli che per loro, durante il giorno, non vi è spazio. Quando hanno mangiato, seduti su sgabelli o su una branda posta accanto alla tavola, si affrettano ad uscire. Per tutta la giornata staranno al centro sociale o per la strada, ma non certo in casa. In uno studio condotto su un certo numero di famiglie povere del Districi of Columbia, questo problema è esposto in termini molto netti: « Nei cosiddetti appartamenti (dice la relazione) non c’è posto per i ragazzi... L’angu­ stia degli ambienti, il sudiciume, la mancanza di un qualcosa da fare li spinge immancabilmente nella strada »d1

In un’altra relazione, lo stesso gruppo di ricercatori osserva che questi ragazzi si sottraggono al controllo dei genitori fin dalla primissima infanzia, alcuni addirittura all’età di sei anni.10 Non si può fare a meno di collegare questo fenomeno con la circostanza che, nella maggior parte dei casi, non è materialmente possibile trattenere in casa questi ragazzi. Ora, è un dato di fatto che per poter educare dei ragazzi, bisogna averli a portata di mano.

E ffe tti del sovraffollamento delle abitazioni

In qualche momento della giornata i ragazzi, naturalmente, stanno in casa. Per esempio, vi fanno ritorno la sera per andare a dormire. Uno studio condotto alla fine dell’ultima guerra su un gruppo di lavoratori negri di Chicago rivelò che la maggior parte di essi dormiva meno di cinque ore per notte. La mancanza di sonno produce effetti nocivi sulla salute e sul compor­ tamento dell’infanzia. Sono, poi, evidenti le conseguenze relative ai rapporti sessuali tra adulti e relative allo stimolo sessuale dei bambini. Né si può discu­ tere l’argomento dell’educazione dei bambini con una madre che la notte abbia dormito soltanto tre o quattro ore e, al termine dell’intervista, arrivare a dare una spiegazione basata su fattori culturali del suo stato di indifferenza e di apatia.

Quando i bambini giocano in casa è inevitabile che infastidiscano con la loro continua presenza gli adulti. Non mi è mai capitato di leggere nessuno studio sulle tensioni che sorgono tra genitori e figli negli appartamenti sovraf­ follati, ma le conseguenze di una simile situazione sono ovvie. Uno studio è stato compiuto a proposito delle famiglie con due bambini residenti in appar­

tamenti di due sole stanze. Si produce inevitabilmente, in questi casi, uno stato di tensione poiché non vi è abbastanza spazio per le attività sia dei genitori che dei ragazzi.2 Dato che riguarda un problema oggi di grande interesse, debbo citare ancora un altro studio. L’Università di Sheffield ha condotto una ricerca sul modo in cui i giovani scelgono la carriera. Chi li guida in questa decisione? Quali consigli ricevono dai loro genitori? Per i ragazzi che vivono in abitazioni decenti le cose stanno diversamente, ma quelli che abitano in case sovraffollate non hanno praticamente alcun aiuto dai loro genitori. Qualunque cosa facciano, i vari membri della famiglia stanno tutti Ìnsieme in una sola stanza. Può accadere che mentre il ragazzo mangia e alla televisione viene proiettato un western, una vicina capiti all’improvviso a fare due chiacchiere con la madre. Avvertimenti e consigli verranno allora urlati sbadatamente, tra una chiacchiera e l’altra. « Non pensare di andartene fuori a bighellonare tutto il tempo anche quest’anno come l’estate scorsa! ». E l’irritata risposta del ragazzo viene sommersa dalla conversazione degli altri e dal frastuono dei colpi d ’arma da fuoco della battaglia trasmessa alla televisione.3

Provo la sgradevole sensazione di star dicendo delle cose ovvie: anzi, esse dovrebbero essere ovvie. Se un colloquio tra assistente sociale e cliente richiede di essere svolto in luogo appartato e nella massima tranquillità, senza il pericolo di interruzioni, queste condizioni dovrebbero venir rispettate anche per la maggior parte dei discorsi e degli scambi di idee che hanno luogo ili una famiglia. Se non esiste la possibilità materiale di farlo, le relazioni familiari non possono che svilupparsi in maniera diversa. Si stabiliranno, cioè, delle situazioni in cui i ragazzi vengono lasciati a se stessi o si sottrag­ gono troppo presto al controllo paterno e materno; si produce un enorme disorganizzazione nella vita di ogni giorno; i ragazzi studiano poco, non hanno voglia di lavorare e mostrano uno scarsissimo livello di autodisciplina; e scarsa sarà inoltre la capacità di comunicare tra genitori e figli. Dopo aver osservato, per anni e anni, tra lo stesso tipo di persone queste caratteristiche, è comprensibile che si arrivi a credere nell’esistenza di una relazione che leghi fra loro queste manifestazioni. Sarà allora che, con tutta pio a i 1 a, cominceremo a parlare di una cultura della povertà. Ma forse ,1 legame piu semplice e meno esoterico, che accomuna fra loro i poveri consiste nei tati puri e semplici del loro modo di vivere quotidiano.

Mi sono già scusato per il mio modo un po’ troppo semplicistico di porre i problemi. Vorrei, in conclusione, stabilire almeno due punti fermi riguardo all’interrelazione tra situazioni di fatto e atteggiamenti. A questo scopo debbo dire due parole sul movimento negro del sit-in. I sociologi hanno esphci- tamente ammesso che, per quanto loro ne sanno, tale movimento non « sanfebe mai dovuto produrre.3, 7 II loro problema è un problema professionale molto

comune, consiste nel lasciarsi prendere la mano da grafici che si snodano così chiaramente da indurre a previsioni avventate. Inoltre, noi credevamo di conoscere a fondo l ’essenza della famiglia negra, di tipo decisamente matriarcale. In effetti il ragazzo negro, vezzeggiato, viziato, mai trattato vera­ mente da maschio, diviene più tardi un uomo fiero e baldanzoso, ma tutto sommato insicuro e interiormente debole. Ed impara, per difendersi, a rivolgere la propria aggressività contro il mondo esterno. Come ha potuto, dunque, una simile gioventù organizzare delle dimostrazioni di un ordine e di una compattezza quasi militare? Come possono questi giovani passare di fronte a picchetti con una disciplina che non viene meno neanche di fronte alle più umilianti provocazioni?

Antiche abitudini di disciplina sfra tta te per un intento nuovo

A questi interrogativi si potrebbero dare parecchie risposte. Ma a noi, in questa sede, ne interessano soprattutto due. In primo luogo, i genitori negri hanno per tanti anni inculcato ai propri figli i princìpi dell’eguaglianza e dell’« occasione offerta a tutti ». Come vari studi hanno con abbondanza di esempi riferito, nell’impartire i princìpi della convivenza sociale, questi geni­ tori non mancavano però mai di aggiungere avvertimenti, espliciti o indiretti, sul fatto che i negri non possono, comunque, mai affermare pienamente i propri diritti. (« Noi siamo tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri »). Di tutto questo noi sociologi — e come poteva essere altrimenti? — abbiamo colto più l’aspetto di negazione che non quello dell’affermazione dei prìncipi di eguaglianza. Tuttavia, giunto il momento in cui la cosa non presentava più pe­ ricoli troppo gravi, i negri hanno ritenuto opportuno agire in base a quell’affer­ mazione che era, naturalmente, sempre presente al loro spirito. In secondo luogo, non è azzardato pensare che oggi i giovani negri si stiano servendo per scopi totalmente diversi dal passato di una disciplina che hanno imparato proprio a causa della segregazione. Essi hanno infatti, nel corso delle generazioni, imparato a non far trapelare nulla ai bianchi dei propri sentimenti, a fingere di non osservarne il comportamento, fosse quest’ultimo provocatorio, offensivo o sem­ plicemente privato. Oggi, questa disciplina non è venuta meno, non ha subito alterazioni; è stata rivolta a scopi diversi, all’organizzazione di dimostrazioni e di sit-in. Tenendo conto di ciò, io mi persuado sempre di più che noi dovremmo tenere maggiormente conto degli atteggiamenti positivi dei poveri. Tanto più che abitudini e atteggiamenti sono come pezzi di mobilio. Possono restare ammassati e inutilizzati per anni ma, determinandosi nuove circostanze, essere pronti per servire immediatamente ad altri usi.

Nell’America Centrale, dove c’è sempre stata, come è noto, una grande deficienza di iodio, bambole e statue religiose vengono modellate con i carat­

teristici gozzi che tutti conosciamo: fino a tal punto gli indiani accettano come una cosa normale il gozzo. Ora, il punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione è che può darsi che l’immagine che noi ci facciamo degli atteg­ giamenti dei poveri abbia anch’essa, per così dire, una specie di gozzo. Se non si fa qualcosa per assicurare alla popolazione un’alimentazione migliore e delle abitazioni più decenti, questi due fattori possono produrre molti degli atteg­ giamenti che noi associamo con la povertà. E, persistendo tali atteggiamenti, noi possiamo giungere a supporre che essi rappresentino un fenomeno indi- pendente, mentre invece dipendono da circostanze materiali e probabilmente hanno una loro funzione rispetto ad esse. Con troppa leggerezza noi preten­ diamo che degli atteggiamenti cambino se contemporaneamente non garantiamo le condizioni per cui essi non siano effettivamente più necessari. Infine, non c’è bisogno di auspicare un mutamento generale degli atteggiamenti. Se si