d i L e w is A . C o s e r
Di solito le discussioni sulla portata e la gravità della povertà in una data società sono state insidiate da problemi di definizione dei termini in que stione. La povertà di uno significa la ricchezza di un’altro; quelli che in una società industriale avanzata sono livelli minimi, possono essere considerati in una società sottosviluppata un traguardo utopistico. Quella che può essere avvertita come insopportabile privazione in una società in cui non-privilegiati mettano a confronto la loro condizione con quella di altri che hanno raggiunto posizioni più vantaggiose per distribuzione del reddito e della ricchezza, può essere accettata come legittima in una società in cui simili raffronti non siano socialmente possibili o non vengano sanciti culturalmente.
Possiamo affermare che povero è un individuo i cui mezzi economici non sono commisurati ai fini economici che persegue; il che, però, non regge ad un più attento esame. In società che rivelano una forte tendenza all anomia, un divario cioè tra i fini verso cui si tende e i mezzi disponibili per conse guirli, insorgono desideri smisurati che finiscono sempre col creare nuove insoddisfazioni, qualunque sia il livello raggiunto. Il che sembra essere tipico anche di larghissimi strati della popolazione, e non soltanto di quelli diseredati. L’economia di società siffatte funziona proprio in vista della creazione di sempre nuovi bisogni.
Anziché prendere come punto di partenza la condizione, o la percezione di questa condizione, di coloro che si presume siano poveri, questo saggio cercherà di fornire una prospettiva differente. Sulla scorta di Simmel, si affronterà la povertà come categoria sociale che affiora attraverso una defini zione della società.1 Proprio come secondo Durkheim la migliore definizione del delitto è che esso consiste in atti aventi « la caratteristica esterna di pro vocare da parte della società quella particolare reazione chiamata punizione », così sosterrò in questa sede che i poveri sono coloro che sono stati definiti tali dalla società, e che in essa hanno provocato reazioni particolari. Da questo punto di vista, i poveri non sono esistiti sempre tra di noi. Nelle società orientali, per esempio, la privazione non era socialmente visibile e non veniva messa a fuoco dalla coscienza sociale. L’osservatore moderno potrebbe riconoscervi una forte prevalenza di bisogno e di miseria, eppure gli stessi membri della società non avvertivano la povertà e non erano coscienti del suo predominio. In società simili, la condizione dei diseredati non sembrava
Articolo pubblicato in Social Problemi, voi. 13, autunno 1965 («The Sociology of Poverty »).
colpire la sensibilità degli strati superiori che, dopo tutto, sono proprio quelli che determinano la coscienza e la consapevolezza della società. I diseredati, seppure erano riconosciuti come tali, venivano semplicemente fatti rientrare nella stessa categoria, diciamo così, delle vittime di una malattia o di una catastrofe naturale. Essi non esistevano, dal punto di vista fenomenologico, come categoria a sé.
Dal punto di vista storico, i poveri emergono quando la società decide di riconoscere la povertà come uno status speciale, e assegna persone precise a quella categoria. Il fatto che alcuni possano privatamente considerarsi poveri è sociologicamente irrilevante. Quel che è sociologicamente rilevante è la povertà in quanto condizione socialmente riconosciuta, in quanto status sociale. Ci interessa la povertà come connotato proprio della struttura sociale.
Nella società medievale, i poveri avevano la funzione di fornire ai ricchi l’occasione di fare le « opere buone », socialmente prescritte. Nel comanda mento cristiano che prescrive di fare l’elemosina, quel che interessava non era, in sostanza, la condizione fisica del povero, ma prima di tutto la condizione morale del ricco. Più che il beneficiario, era il donatore che doveva essere al centro morale dell’attenzione. Le opere buone del cristiano erano considerate una strada maestra verso la salvezza. Fare elemosine aveva il significato di aumentare le possibilità favorevoli del donatore nei confronti del mondo di là da venire, e non quello di aumentare le possibilità favorevoli dei poveri in questo mondo. I poveri venivano presi in considerazione non in virtù dei loro diritti, ma soprattutto come mezzo in vista dei fini ultramondani dei ricchi. Questa particolare funzione dei poveri non mancò tuttavia di avere conseguenze sulla società, in quanto contribuì ad unificare la comunità cri stiana.
Lo status medievale dei poveri era assai diverso da quello che l’Inghilterra puritana assegnava ai poveri conferendo loro la posizione sociale dei « dannati in eterno », a conferma per i giusti, dell’equità della loro sopravvivenza. Per la coscienza puritana, i poveri, non avendo un’arte, non venivano considerati come facenti parte della società. Scrive William Perkins, uno dei principali predicatori puritani del XVI secolo:
Furfanti, mendicanti, vagabondi... comunemente non fanno parte di nessuna società o corpo civile, né di alcuna Chiesa particolare: e sono come gambe e braccia in putrefazione che pendano dal corpo... errare di qua e di là un anno dopo l’altro al fine di di cercare e procurarsi di che mantenere e conservare il proprio corpo, non significa avere un’arte, ma condurre la vita di una bestia. ...Si spostano da un luogo all'altro, senza essere sotto nessuna Magistratura o Ministero sicuro, senza unirsi ad alcuna società nella Chiesa o nel Commonwealth, essi sono per l’una e per l’altro, piaghe e flagelli e vanno intesi come i principali nemici di questo ordine di Dio ».3
Qui i poveri vengono definiti come non appartenenti al corpo della società, e quindi non soggetti ai vincoli di solidarietà che legano tutti i membri di quella. Ai poveri, come agli intoccabili indiani, viene assegnato uno status che marca la loro esclusione dall’ordine sociale.
Nelle società moderne, i diseredati si fanno rientrare nella vera e propria categoria dei poveri solo quando ricevono assistenza. Si potrebbe obiettare che la categoria dei diseredati è attualmente più numerosa di quella dei poveri assistiti. Mentre quest’ultima categoria comprende circa otto milioni nell’Ame rica d’oggi, la prima ne comprende dai quaranta ai cinquanta milioni. Tuttavia il punto è proprio questo: che il gran parlare che si fa oggi dei problemi relativi alla povertà può essere inteso in buona parte come il tentativo di allargare la categoria dei poveri insistendo sul fatto che anche i milioni di persone finora non compresi in essa, meritano l’assistenza della società. Michael Harrington e coloro che condividono il suo pensiero, sostengono, se intendo bene, che in realtà si impone una redifinizione del problema della povertà, affinché il larghissimo stuolo di diseredati che sinora non hanno ricevuto alcuna assistenza, possa rientrare nella categoria dei poveri che in qualche modo ricevono un aiuto dalla società.
Non è la mancanza di mezzi economici che fa sì che una persona appartenga alla categoria di poveri. Fintanto che un uomo continua ad essere definito anzitutto in termini di status professionale, non viene classificato povero. Dot tori, agricoltori, idraulici quand’anche abbiano subito rovesci o scosse finan ziarie continuano ad essere chiamati normalmente dottori, agricoltori, idraulici. « Il fatto di accettare l’assistenza — sostiene Simmel toglie chi 1 abbia ricevuta dalla condizione dello status precedente; essa ha simboleggiato il suo declassamento formale »d Da quel momento in poi, il suo problema privato diventa una questione pubblica. In termini di psicologia individuale, il suc cedersi degli avvenimenti conduce dall’esperienza della privazione alla ricerca di assistenza; la questione tuttavia si rovescia in prospettiva sociologica: coloro che ricevono assistenza sono definiti poveri. Quindi la povertà non può essere intesa sociologicamente in termini di basso reddito o di mancanza di beni, ma piuttosto in termini di risposta sociale a queste privazioni.
Lo strato sociale odierno dei poveri recluta i suoi membri, dotati di attributi diversi, da fonti eterogenee. Essi finiscono per appartenere alla comune cate goria dei poveri in virtù di un tratto essenzialmente passivo, cioè la particolare reazione della società di fronte a loro. I poveri finiscono per essere considerati e classificati non in base ai criteri impiegati di solito nel definire le categorie sociali; cioè in base non a quel che fanno, ma a quel che viene fatto per loro.
Pur riconoscendo ai poveri uno status speciale nelle società moderne, si tratta pur sempre di uno status connotato soltanto da attributi negativi, cioè da ciò che chi occupa quello status non ha. Questo lo distingue da chiunque altro occupi un altro status, in quanto, cioè, lo status, di povero non comporta
l’aspettativa di un contributo sociale; il che è simboleggiato anche dalla man canza di « visibilità » sociale. Coloro cui si assegna lo status di poveri offendono la sensibilità morale di altri membri della società che, coscientemente o no, li tengono lontani dalla loro vista. Si tratta di una sorta di invisibilità morale, e non soltanto di segregazione fisica in zone speciali che i cittadini benpensanti normalmente non si degnerebbero di visitare, e che, guarda caso, non vengono mostrate ai turisti. I Gradgrinds e Bounderbys “ dell’Inghilterra vittoriana avevano dei poveri una opinione che non si discostava poi troppo da quelle dei loro antenati puritani. Essi pertanto rimuovevano la consapevolezza di tutto quanto avesse a che fare con la povertà. Soltanto la tenace agitazione di una folta schiera di riformatori indusse finalmente i gentiluomini vittoriani dabbene alla orribile scoperta che la Gran Bretagna era in realtà spaccata in « due nazioni ». Questo si deve al fatto che, sebbene il benessere e il livello generale di vita durante il XIX secolo andassero chiaramente aumentando in Inghilterra, anche la consapevolezza della privazione andava aumentando nel corso del secolo, man mano che la miseria umana diventava un poco più evidente.
Perché non si creda che in questa sede intendiamo limitarci ad esaminare il passato remoto, può essere opportuno rammentare una tendenza assai affine a questa nella storia recente degli Stati Uniti. John K. Galbraith scriveva a questo proposito, alcuni anni fa:
Negli Stati Uniti la sopravvivenza della povertà è notevole. Noi la ignoriamo perché condividiamo con le società di tutti i tempi la capacità di non vedere quel che non desideriamo vedere. Anticamente questo fatto permetteva al nobiluomo di godersi il suo desinare, immemore dei mendicanti che bussavano alla sua porta. Ai giorni nostri questo ci permette di viaggiare conforte volmente attraverso il Sud di Chicago e il Sud degli Stati Uniti.7 In questo momento, in cui gli uomini politici, gli studiosi e i mass media stanno improvvisamente dedicando un’attenzione di primo piano alla povertà, è difficile ricordarsi che, ancora in tempi recenti, essa sembrava persino scarsamente visibile. Cinque anni fa la rivista Fortune pubblicava un volume, America in thè Sixties,s nel quale si cercava di individuare le principali ten denze sociali ed economiche del decennio successivo. La conclusione era che ben presto non avremmo più conosciuto la privazione. Con auto-compiaciuto fervore si annunciava che « soltanto » 3.600.000 famiglie hanno un reddito inferiore ai 2.000 dollari, e che se una famiglia supera i 2.000 dollari non la si può certo considerare diseredata. Due anni più tardi, Michael Harrington con The Other America,9 seguito da una pletora di altri libri e articoli, contribuì di colpo a dipingere la privazione come il problema centrale degli Stati Uniti, e fece sì che si affermasse una nuova definizione sociale della povertà. I dise redati in America venivano considerati circa il 25% della popolazione, e tutti
meritevoli di assistenza. Probabilmente il numero di coloro che sono obietti vamente diseredati non è mutato in misura apprezzabile tra gli ottimistici anni cinquanta e gli auto-critici anni sessanta, ma quel che è radicalmente mutato è la misura in cui viene percepita la privazione. Pertanto, quel che fino a pochi anni fa appariva un problema marginale, ha assunto improvvisamente, a livello nazionale, un rilievo non trascurabile.
Vorrei precisare a questo punto che non vale sostenere che le statistiche sulla situazione della miseria sono sempre state disponibili. In primo luogo non è la disponibilità delle statistiche, ma il loro impiego che è socialmente significativo. Inoltre, si può sostenere che ogni società si preoccupa di fornire accurate statistiche soprattutto di quei fenomeni che ritiene degni di attenzione. Ci vengono subito in mente alcuni casi-limite che si riferiscono alle società totalitarie. Come ci ha rammentato Everett Hughes nella sua analisi degli annuari statistici tedeschi del periodo nazista e prenazista..., « in base al lavoro iniziale sulle statistiche ufficiali tedesche, ero praticamente sicuro che la Germania prenazista avesse una religione, ma non una razza. Il tedesco delle statistiche era l’opposto dell’americano delle statistiche, che aveva una razza ma non una religione... La razza negli annuari pre-nazisti era una caratte ristica degli stalloni ».10 Ma tutti gli annuari del periodo del regime nazista contenevano, tra le altre, la categoria « Classificazione razziale delle persone che si sono sposate nell’anno X »: un tratto caratteristico fino allora passato ufficialmente sotto silenzio era improvvisamente reso noto dalle statistiche. Oppure, per fare un altro esempio: « In Libano non si è più fatto un censi mento dal 1932 per timore che esso rivelasse mutamenti nella composizione religiosa della popolazione11 tali da rendere insostenibile quel mirabile gioco di accomodamenti politici, che mantengono in equilibrio gli interessi confes sionali ». Infine, dal censimento indiano del 1941 risultavano 25 milioni di individui appartenenti a tribù, ma nel 1951, una volta raggiunta 1 indipendenza, quella cifra si era ridotta a 1,7 milioni, ad opera di quello che fu chiamato il «genocidio mediante definizione »42
Naturalmente nessun sistema altrettanto radicale fu applicato alle statistiche americane. Eppure non si può non restare colpiti dal fatto che, tanto per fare un esempio, il numero dei diseredati varia grandemente a seconda di dove si intenda collocare lo sparti-acqua del reddito. Cosi il succitato studio condotto da Fortune definiva la privazione come un reddito familiare al di sotto dei duemila dollari, e concludeva che vi erano soltanto 3.600.000 famiglie povere. Robert Lampman stabilì il limite di 2.500 dollari di reddito per una famiglia urbana di quattro persone, e su questa base pervenne alla conclusione che il 19% della popolazione americana, 32.000.000 di persone, erano economica mente depressi. Nello stesso periodo, la AFL-CIO (American Federation of Labor - Congress of Industriai Organization), impiegando una definizione di basso reddito lievemente superiore, trovò che 41.500.000 americani — il 24%
della popolazione totale — hanno un reddito inferiore allo standard. Dopo la pubblicazione di tutti questi studi, il Bureau of Labor Statistics pubblicò un rapporto, frutto di calcoli recenti, contenente i bilanci per famiglie urbane di quattro persone, dimostrando come i calcoli precedenti avessero sottovalutato le esigenze minime di bilancio. Harrington conclude, sulla base di queste nuove tabelle, che il numero dei diseredati supera aìl’incirca i cinquanta milioni.13 Sono state spese parole a sufficienza per indicare in che misura possano divergere la miseria obiettiva e la percezione della privazione. Possiamo ora ritornare sull’affermazione iniziale secondo cui, nelle società moderne, si assegna lo status di poveri a coloro che ricevono assistenza; assistenza resa possibile perché la società è disposta ad assumersi delle responsabilità nei confronti dei poveri e riconosce che essi fanno effettivamente parte della comunità. Ma quali sono i termini in cui tale assistenza viene garantita, e quali sono le conseguenze per l’assistito?
Vorrei sostenere ora che la concessione dell’assistenza, l’assegnazione alla categoria dei poveri, viene elargita solo a prezzo della degradazione di chi è oggetto di tale assegnazione.
Ricevere assistenza significa ricevere un marchio e venire allontanati dal normale consorzio umano. Si tratta di una degradazione di status attraverso la quale, con le parole di Harold Garfinkel, « l’identità pubblica di un soggetto si trasforma in qualche cosa che è ritenuto inferiore nell’ambito degli schemi locali dei tipi sociali ».14 Una volta attribuito a qualcuno lo status del povero, il ruolo muta, proprio come la vita del malato mentale muta per il fatto stesso di essere definito malato mentale.15 Vorrei citare alcuni casi che illustrino ciò che è al centro della questione.
I membri di quasi tutti i gruppi di status nella società possono ricorrere ad una gamma di meccanismi legittimi per celare il proprio comportamento agli sguardi altrui; la società riconosce il diritto alla vita privata, cioè il diritto a tenere nascosti al pubblico alcuni aspetti del comportamento di ruolo. Ma questo diritto viene negato ai poveri. Almeno in linea di principio, aspetti di comportamento che di solito non sono pubblici, nel caso dei poveri ricadono sotto il controllo pubblico, e sono aperti all’indagine degli assistenti sociali o di altri investigatori. Per essere socialmente riconosciuta povera, una persona è costretta a schiudere la propria vita privata agli sguardi inquisitori del pubblico.16 11 velo protettivo di cui possono disporre gli altri membri della società, viene implicitamente negato ai poveri.
Molti altri utenti di servizi sociali possono, in determinate occasioni, essere visitati a casa dagli inchiestatori, ma la gran parte dei loro contatti con l’ente assistenziale si svolge comunemente nella sede dell’ente piuttosto che a domicilio. Generalmente, nella società moderna, l’esercizio dell’autorità — tranne che in seno alla famiglia — è separato dalla casa. Per quanto riguarda i poveri
assistiti, tuttavia, questo non vale. Per loro, infatti, la casa è il luogo in cui per solito accade che si svolga la maggior parte dei contatti con il personale dell’ente assistenziale. Il caso più frequente è che essi siano visitati in situ, la- sciado loro quindi ben poca possibilità di tener celati i loro affari privati dinanzi agli osservatori inviati dall’alto. Una simile invasione del territorio domestico, dal momento che impedisce la messinscena abituale per ricevere le visite di estranei, viene necessariamente avvertita come degradante e umiliante.
Quando viene concesso del denaro ai membri di qualunque altro gruppo nella società, essi sono quasi totalmente liberi di disporne come credono meglio. Anche in questo caso, il modo di trattare i poveri differisce sensibil mente: essi non possono decidere liberamente sul modo di impiegare il denaro concesso loro. Debbono rendere conto delle loro spese ai donatori i quali deci dono se il denaro è stato speso «saggiamente» o « scriteriatamente ». Cioè, i poveri vengono trattati, per questo verso, come bambini che devono rendere conto ai genitori del buon uso del loro argent de poche; i poveri, con questi sistemi, finiscono per regredire ad uno stadio infantile.
Come risulta chiaramente dagli esempi che precedono, è proprio nel processo del ricevere aiuto e assistenza, che ai poveri viene assegnato un iter speciale che menoma la loro precedente identità e finisce col diventare un marchio che lascia il segno nei loro rapporti con gli altri. Assistenti sociali, mchiestatori e amministratori dell’ente assistenziale e collaboratori volontari del luogo vanno a scovare i poveri per aiutarli, eppure, sembra paradossale, sono proprio loro gli agenti della degradazione dei poveri. A questo punto, intenzioni soggettive e conseguenze istituzionali divergono. L’aiuto può esser prestato con intenzioni migliori e più disinteressate; ciò non toglie che il fatto stesso essere aiutati sia degradante.
L’assistenza può esser prestata sia da personale volontario che da profes sionisti. Il primo modello prevaleva all’incirca fino alla prima guerra mon diale, ai nostri giorni ha finito col prevalere il secondo. Questa professtona- lizzazione dell’assistenza ha avuto due ordini diversi di conseguenze per l’assistito. Essere assistito, infatti, da un professionista che viene pagato per questo lavoro, significa che il cliente non gli deve nessuna gratitudine non gli deve dire grazie. In realtà egli può arrivare a odiare la persona che gli offre assistenza e anche a dimostrare una certa ostilità senza perdere peraltro l’aiuto che gli viene fornito istituzionalmente. La professionalizzazione elimina dal rapporto l ’elemento personale, dandogli il carattere di una transazione