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La cultura della povertà

d i O s c a r L e w is

Uno dei principali temi del programma politico interno del presente governo americano è la povertà, e la cosiddetta « guerra alla povertà ». Nel cuore di una popolazione che gode di un tenore di vita di altezza senza precedenti con reddito medio annuo per famiglia di 7.000 dollari — viene riconosciuta uffi­ cialmente 1’esistenza di circa 18 milioni di famiglie, per un totale di circa 50 milioni di individui, che vivono al disotto della « linea di povertà », cioè al disotto di un reddito annuo di 3.000 dollari. Circa 1.600 milioni di dollari del fondo federale vengono stanziati direttamente tramite l’Office of Economie Opportunity per migliorare la sorte di queste persone e varie altre centinaia di milioni di dollari vengono indirettamente in loro aiuto tramite un aumento delle spese federali nei campi della sanità pubblica, istruzione, assistenza ed affari urbani.

Parallelamente all’aumento di attività a favore dei poveri indicato da queste cifre, vi è stata anche una fioritura di pubblicazioni sulla povertà nel campo delle scienze sociali. Questi nuovi scritti offrono le due valutazioni opposte del povero che possiamo ritrovare nella letteratura, proverbi e detti popolari di ogni tempo. Come in passato si è detto che i poveri sono beati, virtuosi, moralmente sani, sereni, indipendenti ed onesti, di buon cuore e felici, cosi studiosi contemporanei sottolineano la grande e trascurata capacita dei poveri ad aiutarsi da sé, a guidarsi da sé, ad organizzarsi su di un piano comunitario. E inversamente, come in passato si è detto che i poveri sono instabili, di menta­ lità ristretta e ingenerosa, corrotti, violenti, criminali e cattivi, così oggi altri studiosi ci fanno notare i deleteri e irreversibili effetti della povertà sulla formazione della personalità individuale. In corrispondenza, quindi, questi autori sottolineano l’importanza di garantire una guida ed un controllo ai programmi di assistenza in favore dei poveri, col trattenerne la direzione nelle mani delle autorità debitamente costituite. Questi punti di vista cosi contra­ stanti riflettono in parte la lotta interna che esiste fra le autorità federali e quelle locali per ottenere il controllo politico dei programmi di assistenza. Ma una certa confusione dipende anche dalla tendenza a dirigere l’attenzione e le ricerche sulla personalità individuale delle vittime della povertà, anziché sulla comunità e sulle famiglie degli slums e quindi da una mancata distinzione fra la povertà e quella che io ho chiamato la « cultura della povertà ».

Articolo pubblicato in Scientific Costituisce parte dell’introduzione in altra parte di questo fascicolo.

American, n. 4, 1966 (« The Culture of Poverty >>). al recente libro dello stesso A., La Vida, recensito

Questa è una frase che ha avuto successo, e che quindi è stata usata sia propriamente che impropriamente nella letteratura corrente. Nei miei scritti, la frase vuole indicare un modello concettuale specifico per descrivere in termini positivi una subcultura della civiltà occidentale, subcultura che ha una propria struttura e una propria ragione d’essere, un modo di vivere tra­ mandato di generazione in generazione attraverso la famiglia. La cultura della povertà non e semplicemente un fatto di privazione o di disorganizzazione, termini tutti che significano la carenza di qualche cosa. E’ una cultura nel vero senso antropologico tradizionale della parola in quanto offre ad esseri umani un modello di vita, un insieme di soluzioni pre-costituite di problemi umani, ed ha quindi una funzione significativa di adattamento. Questo stile di vita trascende i confini nazionali e regionali e le differenze urbano-rurali all interno delle nazioni. Dovunque si manifesti, i suoi portatori mostrano notevoli somiglianze nella struttura familiare, nei rapporti interpersonali, nel modo di spendere, nei sistemi di valori e nell’orientamento temporale.

Non si conosce veramente abbastanza questo importante complesso di com­ portamenti umani. La mia stessa teoria si sta evolvendo col progredire del mio lavoro e sarà probabilmente modificata da lavori successivi sia miei che di altri. La scarsezza di studi sulla cultura della povertà ci dà la misura della grande difficoltà di comunicazione che sussiste fra i poverissimi ed il personale (appartenente ai ceti medi) che dovrebbe attuare i programmi di lotta contro la povertà — studiosi di scienze sociali, assistenti sociali, insegnanti, medici, sacerdoti ed altri. Buona parte del comportamento che è accettato ed accettabile nella cultura della povertà è invece considerato incompatibile con gli ideali cari alla società più vasta in cui questa è inserita. Quando gli scienziati sociali descrivono le famiglie « affette da molteplici problemi » spesso ne sottolineano la instabilità, la mancanza di ordine, la mancanza di orientamento sociale e di organizzazione. Eppure, per quanto a me consta dall’osservazione diretta, il loro comportamento segue delle modalità caratteristiche ed è in gran parte prevedibile. Al contrario quello che più mi colpisce è la inesorabile ripetizione e la ferrea stabilità del loro modo di vivere. Il concetto di una cultura della povertà dovrebbe aiutarci a correggere quegli equivoci che ci hanno condotti a classificare certi modelli di comportamento di gruppi etnici, regionali o nazionali come loro caratteristiche distintive. A esempio, un’alta incidenza di unioni non legalizzate e di gruppi familiari con donne come capi-famiglia sono state ritenute caratteristiche della vita familiare dei negri ed attribuite alle loro esperienze storiche di schiavitù. In realtà si viene a scoprire che questo tipo di famiglia è uno dei tratti essenziali della cultura della povertà, e si ritrova fra popoli diversi in molte parti del mondo, comprese popolazioni che non hanno mai avuto esperienze di schiavitù. Benché sia ora possibile sostenere alcune di queste generalizzazioni, tuttavia c’è ancora molto da imparare su questo argomento così vitale e difficile. Uno dei più gravi scogli alla formu­

lazione di valide costanti trans-culturali della cultura della povertà resta la mancanza di studi antropologici intensivi su famiglie povere in una grande varietà di contesti nazionali, assenza particolarmente notevole nei paesi socialisti.

I miei studi sulla povertà e la vita di famiglia si sono svolti principalmente nel Messico. Alcuni dei miei amici messicani talvolta mi suggerivano con delicatezza che sarebbe forse stato bene che io cominciassi ad occuparmi della povertà nel mio paese. Come primo passo in questa direzione, ho dato inizio e tuttora mi applico allo studio di famiglie portoricane. Negli ultimi tre anni i miei collaboratori ed io abbiamo raccolto dati su un campione di 100 famiglie in quattro degli slums di San Juan e dintorni, e circa 50 famiglie di parenti di queste a New York.

I nostri metodi sono una combinazione delle teniche tradizionali della socio­ logia, antropologia e psicologia. Comprendono una serie di 19 questionari la cui somministrazione richiede 12 ore per ciascun soggetto. Comprendono la storia lavorativa e la storia dei cambiamenti di residenza di ciascun adulto; rapporti interfamiliari; reddito e spesa; inventario completo della casa e degli oggetti di proprietà personale; tipi di amicizie, specialmente riguardo al compa­ drazgo o rapporto di padrinato e madrinato che funziona come una sorta di sistema previdenziale non formale per i bambini di queste famiglie e stabilisce rapporti speciali fra gli adulti; tipi di attività ricreative; salute presente e storia sanitaria; vedute politiche; religione; visione del mondo e « cosmo­ politismo ». Colloqui non strutturati e tests psicologici (quali il Thematic Apperception Test, Rorschach e completamento di frasi) sono somministrati ad un campione di questa popolazione.

Tutto questo lavoro serve a stabilire il contesto per uno studio molto più approfondito di un piccolo numero di famiglie prescelte. Poiché la famiglia è un piccolo sistema sociale, si presta molto bene al sistema globale della antropologia. Studi della famiglia in toto rappresentano il passaggio fra i due estremi concettuali di cultura da un lato e di individuo dall altro, rendendo possibile l'osservazione sia della cultura sia della personalità, sia del modo con cui esse si intrecciano nella vita reale. In una grande metropoli come San Juan o New York la famiglia è l’unità di studio naturale.

Da un punto di vista ideale il nostro scopo dovrebbe essere quello di osservare la vita delle « nostre » famiglie con un minimo di ingerenza. Ma uno studio così intensivo necessariamente porta allo stabilirsi di legami personali profondi. Fra i miei collaboratori ci sono due messicani, le cui famiglie erano state studiate in precedenza; il loro punto di vista « messicano » sugli slums portoricani ci ha molto aiutato a notare le somiglianze e le differenze fra le subculture messicana e portoricana. Abbiamo passato molto tempo a parteci­ pare a feste di famiglia, veglie funebri, battesimi, a rispondere a chiamate urgenti di soccorso, a portare persone in ospedale, farle uscire di prigione, riempire moduli per loro conto, cercar loro casa, aiutarle ad ottenere lavoro

o prestazioni assistenziali. Con ogni membro delle famiglie sono stati condotti colloqui registrati, sia della storia della loro vita, che in risposta a domande su di una gran varietà di argomenti. Per dare un ordine al nostro materiale abbiamo anche voluto ricostruire, con una forma di interrogazioni molto precise, la storia di almeno una settimana, o anche un maggior numero di giorni consecutivi, nella vita di ogni famiglia, e abbiamo osservato e registrato giornate complete mano a mano che si svolgevano. 11 primo volume dei risultati di questo studio è stato pubblicato nel novembre 1966 con il titolo La Videi.

Ci sono molti poveri al mondo. Anzi, la povertà di due terzi della popola* zione mondiale che vive nei paesi sottosviluppati è giustamente chiamata «il problema dei problemi ». Ma non tutti vivono nella cultura della povertà in senso stretto. Perché si possa parlare di questo genere di vita e perché esso possa veramente svilupparsi, certe condizioni di base debbono, a quanto sembra finora, essere presenti.

Il quadro generale è quello di un’economia basata sul denaro, con mano­ dopera salariata, una percentuale costantemente alta di disoccupazione e sottoc­ cupazione, basse retribuzioni per i non qualificati. La società non è capace di provvedere una organizzazione sociale politica ed economica, sia su base volontaria che mediante legislazione, per la parte di popolazione con reddito basso. Il sistema di parentela è bilaterale e centrato sulla famiglia nucleare progenitiva, quindi diverso dal sistema di parentela unilaterale estesa di lignag­ gio e di clan. La classe dominante sostiene un sistema di valori in cui il risparmio e l’accumulazione di ricchezza sono considerati positivi, in cui la mobilità verso l’alto è ritenuta possibile ed importante e in cui una condizione economica molto bassa viene attribuita ad una inferiorità e inadeguatezza personale dei singoli.

Quando esistono queste condizioni, il modo di vivere che si sviluppa in taluni dei poveri è la cultura della povertà. Questa è la ragione per cui è stata da me descritta come una subcultura dell’ordinamento sociale occidentale. Si tratta sia di un adattamento che di una reazione dei poveri alla loro posi­ zione marginale in una società capitalistica, stratificata in classi, altamente individualizzata. Rappresenta un tentativo di venire a patti con il senso di disperazione e di sconforto che sorge nei membri di queste comunità marginali nella società più vasta quando si rendono conto della loro scarsa probabilità di raggiungere il successo, nei termini del sistema di valori prevalente. Molte delle caratteristiche della cultura della povertà si possono considerare tentativi spontanei e locali di soddisfare bisogni che, nel caso dei poveri, non vengono soddisfatti dalle istituzioni e dagli enti della società più vasta o perché i poveri non vengono giudicati nelle condizioni necessarie per ottenere tali servizi, o perché i poveri stessi non hanno i mezzi materiali per procurarseli o sono sospettosi o ignoranti.

La cultura della povertà, una volta stabilita, tende a perpetuarsi. All’età di sei o sette anni i bambini nati negli slums in genere hanno già assimilato i valori e gli atteggiamenti di base della loro subcultura. E d ’allora in poi essi non sono più idonei psicologicamente a trarre pieno vantaggio da cambiamenti nella situazione o da nuove possibilità di migliorarsi che si possono offrire loro durante la loro vita successiva.

I miei studi hanno individuato circa 70 tratti tipici della cultura della povertà. I più importanti si possono definire in quattro dimensioni del sistema: il rapporto fra subcultura e società più vasta; la natura della comunità degli slums; la natura della famiglia; gli atteggiamenti, i valori e la struttura del carattere dell’individuo.

La alienazione, la mancanza di integrazione del povero rispetto alle principali istituzioni della società è un elemento cruciale della cultura della povertà. Essa riflette l’effetto combinato di una quantità di fattori che anzitutto com­ prendono la povertà, ma anche la segregazione e la discriminazione, il timore, il sospetto e l’apatia, e l’insorgere di proprie istituzioni e procedimenti sosti­ tutivi nella comunità degli slums. Queste persone non appartengono a sinda­ cati o partiti politici, e si servono assai poco di banche, ospedali, grandi magaz­ zini o musei. Se sono coinvolte nelle istituzioni della società più vasta pri­ gioni, esercito, assistenza pubblica — non è certo col risultato di cancellare i tratti della cultura della povertà. Un sistema di assistenza che appena man­ tiene in vita tende a perpetuare, non ad eliminare, la povertà ed il senso generale di disperazione.

La gente che appartiene alla cultura della povertà produce poca ricchezza e riceve poco in cambio. Disoccupazione cronica e sottoccupazione, salari bassi, mancanza di beni, mancanza di risparmi, assenza di scorte alimentari in casa e cronica mancanza di denaro liquido imprigionano la famiglia e 1 indi­ viduo in un circolo vizioso. Così, per mancanza di denaro 1 abitante dello slum fa frequenti acquisti di piccole quantità di cibo a prezzi alti. L economia dello slum è volta verso l’interno; molto frequentemente si impegnano effetti personali, si prende denaro a prestito da usurai a tasso d interesse altissimo, anche frequenti sono sistemi non formalizzati di credito fra vicini e 1 uso di abiti e mobili di seconda mano.

Esiste la coscienza dei valori dei ceti medi: la gente ne parla, e a volte sostiene di condividerne alcuni. Ma in genere, tuttavia, non vi si conforma nella vita. Per esempio, dichiarerà che la forma di matrimonio ideale è il matrimonio in chiesa o il matrimonio civile, o ambedue, ma pochi in realtà si sposano. Poiché gli uomini non hanno un lavoro stabile, né capitali, né beni da lasciare ai figli, poiché vivono nel presente senza attendersi molto dall’avvenire, e vogliono evitare la spesa e le difficoltà legali del matrimonio e del divorzio, una unione libera, o « matrimonio consensuale », ha molto più senso. D’altro canto le donne tendono a rifiutare offerte di matrimonio da parte

di uomini probabilmente immaturi, punitivi e in genere di scarso affidamento.. Esse ritengono che una unione consensuale dia loro almeno in parte quella libertà e possibilità di scelta che hanno gli uomini. Con il rifiutare al padre dei loro figli la posizione legale di marito, le donne conservano maggiori diritti sui figli. E mantengono anche diritti completi sui beni di loro proprietà.

Insieme all’alienazione dalla società più vasta, c’è una ostilità verso le istituzioni di base di quella che è considerata la classe dominante. La polizia è odiata; il governo, e le persone in buona posizione sociale, godono scarsa fiducia; vi è uno scetticismo che si estende anche alla chiesa. La cultura della povertà contiene quindi un potenziale di protesta e di possibile adesione a movimenti politici volti a mutare l’ordine esistente.

Per la pessima condizione delle abitazioni e il superaffollamento, la comunità della cultura della povertà ha un alto spirito gregario, ma un minimo di orga­ nizzazione al di là della famiglia nucleare ed estesa. Qualche volta gli abitanti degli slums si riuniscono in gruppi non formali e temporanei; gruppi di vicinato che reclutano i loro membri in diverse zone degli slums si possono già consi­ derare un progresso notevole, sopra il punto zero della curva immaginaria da me configurata. Quella qualità anomala e marginale tipica della cultura della povertà dipende essenzialmente da un basso livello di organizzazione nella nostra società così altamente organizzata. Si può dire che la maggior parte dei popoli primitivi hanno raggiunto un grado più elevato di organiz­ zazione socioculturale che non gli abitanti degli slums urbani. Con questo non vogliamo dire che il senso della comunità e Yesprit de corps manchino del tutto in un vicinato degli slums. Anzi, quando gli slums sono isolati dal loro ambiente circostante da mura che li racchiudono o da altre barriere fisi­ che, quando gli affitti sono bassi e i residenti stabili e quando la popolazione costituisce un gruppo distinto, etnico, razziale o linguistico, il senso della comunità in uno slum può essere altrettanto forte quanto in un villaggio. In Città del Messico e San Juan questa territorialità è assicurata dalla scarsezza di case con prezzi d’affitto bassi al di fuori delle zone già stabilite degli slums. In Sud Africa questa è forzosamente imposta dal sistema dell’apartheid che confina gli emigranti rurali in località prestabilite.

Nella cultura della povertà la famiglia non ha una speciale predilezione per l’infanzia e non la considera come un periodo del ciclo vitale particolarmente prolungato e protetto. L’iniziazione sessuale è precoce. Con l’instabilità delle unioni consensuali la famiglia tende ad essere centrata sulla madre e con legami più stretti con la famiglia estesa della madre. La donna capofamiglia tende a far pesare la propria autorità. Benché si insista molto a parole sulla solidarietà familiare, la rivalità tra fratelli per conquistare l’affetto materno e quei pochi beni disponibili è intensa. Le possibilità di appartarsi entro la famiglia sono scarse.

'L’individuo che cresce in questa cultura ha uno spiccato senso di fatalismo, della propria impossibilità ad uscire dalla situazione di dipendenza e di inferiorità. Questi tratti che sono stati spesso considerati nella letteratura corrente come caratteristici del negro americano, sono stati da me ritrovati con 10 stesso grado di intensità negli abitanti degli slums di Città del Messico e San Juan, che non soffrono di segregazione o discriminazione da parte di un altro gruppo come gruppo etnico o razziale distinto. Altri tratti includono l’alta incidenza di una struttura debole dell’io, di oralità, e di confusione del­ l’identità sessuale, che riflettono una carenza materna; una orientazione verso 11 tempo presente con una relativa assenza di inclinazione a differire gratifi­ cazioni e a fare progetti per l’avvenire; una spiccata tolleranza per vane forme di psicopatologia. La superiorità dell’uomo è comunemente accettata, e fra gli uomini c’è una grande preoccupazione circa la loro mascolinità, il machismo.

Provinciali e campanilisti nel loro modo di vedere le cose, con scarso senso della storia, questa gente conosce solamente il proprio vicinato e il proprio modo di vivere. In genere essi non hanno né le conoscenze, né una visione più larga, né una ideologia che li aiuti a vedere le somiglianze fra la loro situazione e quella di altri gruppi in condizioni analoghe in altre parti del mondo. Non hanno una coscienza di classe, benché siano molto sensibili ai simboli dello status.

La distinzione fra povertà e cultura della povertà è fondamentale nei riguardi di quanto veniamo descrivendo. Numerosi sono gli esempi di persone povere il cui modo di vivere non si può, a mio parere, caratterizzare come appar­ tenente a questa subcultura. Molti popoli primitivi e non in possesso di lingua scritta che sono stati studiati da antropologi soffrono di una estrema povertà che si può attribuire alla loro scarsa conoscenza tecnologica, o alla povertà di risorse, o ad ambedue queste cause. Eppure, anche i più semplici di questi popoli hanno un alto grado di organizzazione sociale ed una cultura che e relativamente integrata, soddisfacente e autosufficiente.

In India, le persone poverissime appartenenti a caste basse — come i Chamar, artigiani del cuoio, e i Bhangi, gli spazzini — rimangono integrati in una società più larga ed hanno le loro istituzioni (panchayat) di autogoverno. I loro panchayats e il loro sistema di parentela unilaterale estesa o clan, si estendono attraverso diversi villaggi, e conferiscono loro un forte senso di identità e continuità. Nei miei studi non ho trovato che alla loro povertà