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Brevi considerazioni in vista dell’elaborazione di tabelle unitarie per la liquidazione del danno biologico

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Brevi considerazioni in vista dell’elaborazione di tabelle unitarie per la liquidazione del danno biologico

di

Mauro Criscuolo*

Quando sono stato contattato per la partecipazione al gruppo di studio in vista dell’elaborazione di tabelle unitarie per la di quantificazione del danno biologico, ho aderito con entusiasmo a questa iniziativa, proprio perché l’esperienza professionale, seppur brevemente maturata, aveva evidenziato quanto fosse essenziale tentare di addivenire ad un risultato realmente proficuo in tale direzione.

Dei brevi cenni sulla situazione attualmente esistente presso il Tribunale di Napoli e, per quanto è a mia conoscenza, anche presso gli altri tribunali del distretto, possono ben far comprendere quale stato di confusione e disagio, da parte degli stessi giudicanti, sia vissuto nel momento in cui si affronta il tema della liquidazione del danno biologico.

Invero se in merito alla nozione di danno siffatto l’Ufficio cui appartengo è sostanzialmente allineato alle posizioni prevalenti in dottrina e nella stragrande maggioranza della giurisprudenza di merito e di legittimità, che ritiene di includere nel danno biologico tutti i pregiudizi di carattere cd.

esistenziale, scaturenti per effetto della lesione alla integrità psicofisica del soggetto, con esclusione del solo danno morale e del danno patrimoniale, meno univoca è la posizione assunta con riferimento ai criteri da utilizzare per pervenire alla liquidazione.

A differenza di altri tribunali che al loro interno hanno raggiunto un accordo unitario - seppur adottando delle tabelle tutto sommato differenziate da quelle altrove in uso -, il Tribunale di Napoli continua a mantenere la più assoluta autonomia tra le singole sezioni, ed addirittura tra collegi appartenenti alla medesima sezione, con comprensibile imbarazzo della classe forense, e con il ragionevole dubbio che alcuni componenti di quest’ultima possano brigare per l’assegnazione della loro causa al collegio ritenuto più munifico.

La seconda sezione civile del Tribunale di Napoli, di cui faccio parte, ad esempio adotta il metodo genovese, avvalendosi del criterio del triplo della pensione sociale (nell’ammontare peraltro privo delle addizioni di cui alla legge n° 140/85), e compiendo la capitalizzazione sulla scorta di apposita tabella basata sulle tavole di mortalità della popolazione italiana, secondo i dati raccolti nel 1981, procedendo poi ad eventuali abbattimenti percentuali sui risultati dei risarcimenti relativi a lesioni produttive di postumi a carattere micropermanente (dall’1 al 10%). Tale metodo, da me già trovato in applicazione quando arrivai in sezione, seppur non pienamente convincente, continua ad essere adottato, in primo luogo per un’esigenza di continuità ed uguaglianza rispetto al passato, ma fondamentalmente perché si sono finora ritenute non appaganti le soluzioni alternative offerte (le famose tabelle di Milano furono infatti oggetto di approfondita discussione in sezione, all’esito della quale si ritenne di non farle proprie in quanto considerate eccessivamente penalizzanti per le piccole lesioni, ed eccessivamente premiali per le macrolesioni). Occorre altresì considerare che sebbene il metodo da noi seguito sia sostanzialmente difforme, sia per la base da capitalizzare che per il coefficiente di capitalizzazione, da quello di cui all’art. 4 della legge n° 39/77, per evitare di incorrere nel divieto imposto dalla giurisprudenza, apparentemente prevalente della Corte di Cassazione, all’utilizzo del metodo del triplo della pensione sociale nella liquidazione del danno biologico, in motivazione siamo costretti a mascherare il calcolo da noi effettuato, sotto il velo protettivo del richiamo all’equità. Come già accennato altre sezioni adottano il criterio del calcolo a punto, con valori standard ed uniformi, a prescindere dall’entità della lesione; altre ancora hanno ritenuto di avvalersi delle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano; altre ancora infine pervengono, in presenza di un’occasionale cognizione di tali questioni, ad una soluzione sostanzialmente affidata alla più pura equità, quasi svincolata da qualsiasi obiettivo criterio di riferimento.

* Magistrato II Sezione Civile del Tribunale di Napoli

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Balza quindi all’evidenza come ritenga fondamentale pervenire ad una soluzione unitaria che, una volta raggiunta, non esiterei a fare mia pur di far cessare le enormi incertezze e contraddizioni cui attualmente è esposta la liquidazione del danno biologico, che agli occhi del profano può apparire più il frutto di capacità divinatorie che non l’esito di una valutazione condotta alla stregua di elementi oggettivi e scientificamente riscontrabili.

E riterrei doverosa tale adesione, quand’anche mi trovassi in disaccordo con le premesse poste a fondamento della elaborazione di tabelle unitarie, in quanto reputo preferibile il sacrificio di alcune personali convinzioni, in vista del raggiungimento di un risultato tale da garantire un’applicazione uniforme della legge, con soluzioni imparziali e rispettose del principio di uguaglianza formale e sostanziale, non più suscettibili di prestarsi a possibili illazioni sulla correttezza della valutazione del giudice. In particolare poi un ulteriore effetto da non trascurare sarebbe quello della possibile portata deflativa del contenzioso, potendosi ragionevolmente attendere un aumento delle composizioni stragiudiziali delle liti in materia (non vi sarebbe più ragione di tentare la “lotteria” della sentenza), e delle conciliazioni in corso di causa (specie all’esito della CTU che indica la percentuale di danno da risarcire); anche se però tali aspettative potrebbero andare in parte deluse, tenuto conto dell’atteggiamento di parte del ceto forense che in passato, anche a fronte di elementi certi per la quantificazione del danno (si pensi ai sinistri con soli danni a cose), ha comunque preferito proseguire nella via del giudizio, se non altro per il vantaggio della liquidazione giudiziale delle spese.

Poste tali premesse ritengo però di dover esporre alcune considerazioni di carattere personale, le quali vanno però interpretate, non come ostacoli da frapporre al raggiungimento del risultato cui mira il presente convegno, bensì quali riflessioni, dettate in parte dell’esperienza sul campo, finalizzate esclusivamente a conseguire un risultato il più possibile aderente alle aspettative ed alle opinioni della maggior parte degli operatori del settore.

Risarcimento del danno e gestione delle risorse del mercato assicurativo

Una prima osservazione che può farsi, scaturisce direttamente dalle rivendicazioni delle compagnie assicuratrici - più volte espresse e ribadite anche in occasione di un incontro cui abbiamo partecipato in vista della preparazione di questo convegno - le quali, infatti, esprimono la legittima preoccupazione che una determinazione delle tabelle risarcitorie, svincolata dalla presa in considerazione dell’attuale disponibilità delle risorse finanziarie, possa, neanche alla lunga, creare una sperequazione intollerabile tra le somme astrattamente destinate al pagamento dei danneggiati e quelle in concreto liquidate. Sostengono pertanto che una soluzione non possa prescindere da una valutazione soprattutto di carattere economico, poiché altrimenti sarebbero costrette ad un aumento dei premi assicurativi, scaricando quindi sulla generalità degli assicurati il maggior onere derivante da tabelle liquidatorie eccessivamente penalizzanti per i danneggianti. In sostanza si fa osservare che ciò che viene dato con una mano, verrebbe immediatamente preso con l’altra.

Tali osservazioni appaiono di tale evidenza, tant’è che sarebbe quasi inutile una replica alle stesse, tuttavia qualche osservazione critica può essere fatta.

Non intendo assolutamente contestare la necessità che le assicurazioni svolgano un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle tabelle unitarie, posto che nella stragrande maggioranza dei casi il peso finale dell’obbligazione risarcitoria viene a ricadere esclusivamente su queste ultime; tuttavia le ragioni addotte dalle stesse, che imporrebbero nella individuazione dei criteri di risarcimento la salvaguardia delle disponibilità finanziarie garantite dall’attuale mercato delle assicurazioni, e quindi delle somme che in base ai calcoli attuariali vengono destinate al pagamento degli indennizzi, rischierebbero di penalizzare i danneggiati in settori in cui non operano le coperture assicurative.

Infatti, se, nel campo della responsabilità derivante da circolazione di veicoli, il ragionamento compiuto dagli enti assicuratori - attesa l’esistenza di un obbligo per tutti i soggetti circolanti di stipulare una polizza per la R.C.A. - trova effettivamente un riscontro nella necessità di evitare che

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alla fine i costi di indennizzi troppo elevati vengano scaricati sulla collettività degli utenti, già lo stesso comincia a vacillare ove si prendano in considerazione i settori in cui le assicurazioni operano per effetto di polizze volontariamente stipulate, ed ancor di più nelle, invero limitate ipotesi, in cui le assicurazioni non sono chiamate ad intervenire per l’indennizzo. In tali casi ove ci si ponga nell’ottica del danneggiato, questi, per esigenze di carattere economico e finanziario, alle quali è tutto sommato estraneo, vedrebbe il risarcimento spettantegli, liquidato sulla scorta di tabelle predisposte nell’obiettivo di salvaguardare le dette esigenze, in misura presumibilmente inferiore a quanto l’entità delle lesioni subite richiederebbe.

Mi rendo conto delle obiezioni cui si espongono le presenti considerazioni (e cioè che questo danneggiato, ove le tabelle non tengano conto delle esigenze delle assicurazioni alla fine verrà a pagare lo scotto, sotto forma di premi più gravosi ovvero in via indiretta a causa di detti aumenti, di indennizzi eccessivamente elevati rispetto alle previsioni delle compagnie), ma mi sembra che le stesse evidenzino come non può assolutamente piegarsi una materia così delicata, qual è la valutazione del danno biologico e quindi della vita dell’uomo, a delle considerazioni di carattere eminentemente patrimoniali. Il rischio di una soluzione siffatta sarebbe, credo, il rifiuto di gran parte della magistratura nei confronti di tabelle così elaborate, con la vanificazione quindi degli sforzi fin qui compiuti e da compiersi. Sarebbe senz’altro più ragionevole che le assicurazioni anziché porre come un paletto insormontabile le risorse attualmente disponibili, mostrassero una concreta disponibilità a sacrificare parte dei loro utili (che però potrebbero esser compensati sotto forma di risparmio delle spese di lite), ovvero a modificare la distribuzione interna delle proprie risorse.

Criteri di elaborazione delle tabelle e risarcimento del danno in caso di morte

Un’ulteriore riflessione ritengo possa essere fatta sul metodo tabellare da adottare; sul campo infatti attualmente si riscontrano due soluzioni e precisamente quella del metodo a punto e quella della capitalizzazione (propria della scuola genovese). Invero il metodo a punto si fa preferire per il fatto che esso consente di poter incrementare progressivamente il valore del punto man mano che aumenta l’entità della lesione, senza che tale aumento peraltro avvenga in maniera rigidamente proporzionale (come nelle tabelle basate sulla capitalizzazione), ma rispettando il principio comunemente condiviso nella scienza medica ed in gran parte della dottrina e della giurisprudenza occupatasi della materia, secondo cui l’innalzamento della percentuale di invalidità produce un pregiudizio man mano crescente, in misura più che proporzionale, e che una volta raggiunti certi livelli, particolarmente elevati, ogni ulteriore incremento va compensato con un aumento dell’indennizzo, sempre più ridotto.

Come giustamente osservato, ciò non necessariamente rende del tutto impraticabile il metodo basato sulla capitalizzazione, potendo allo stesso essere apportati dei doverosi correttivi (come ad esempio l’aumento progressivo della base di calcolo per la capitalizzazione) tali da renderlo adeguato alle necessità sopra evidenziate. Tuttavia per un particolare profilo ritengo che si faccia preferire il metodo basato sulla capitalizzazione, e precisamente, per le ipotesi in cui si debba provvedere alla liquidazione del danno biologico da morte. Infatti alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n° 372/94, la trasmissibilità della pretesa al risarcimento del danno biologico iure hereditario sembrerebbe essere esclusa nei soli casi in cui intervenga una morte immediata, avendo la Consulta lasciato aperta la possibilità che tale pretesa possa essere fruttuosamente coltivata, qualora la morte segua a distanza di tempo rispetto all’evento illecito. Infatti nel ribadire la totale diversità tra danno biologico e danno alla vita, e nell’escludere l’estensibilità a quest’ultimo del portato della sentenza n°

184/86, richiama in motivazione un lontano precedente della Suprema Corte di Cassazione, risalente al 19251 per il quale il danno in favore della persona deceduta per effetto del fatto illecito è riconoscibile esclusivamente con riferimento ai danni verificatisi tra il momento delle lesione e quello

1 Cass. Sez. Un. 22/12/1925 n° 3475 in Foro It. 1926, I, 328.

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della morte. Ed infatti la Corte di Cassazione2, con una sentenza di poco successiva a quella della Corte Costituzionale citata (del cui intervento tiene però espressamente conto in motivazione), ha esplicitamente ribadito il decisum del remoto precedente delle Sezioni Unite, riaffermando la possibilità per gli eredi di poter far valere nei confronti dell’autore dell’illecito, il diritto al risarcimento del danno biologico patito dal de cuius nel periodo che va dal momento della lesione a quello della morte.

Invero stante l’attuale quadro dottrinale e giurisprudenziale, soluzione pressoché vincolata per le ipotesi di fatto illecito, produttivo di conseguenze letali per la vittima, è quella di dover procedere ad una quantificazione del danno biologico subito medio tempore da quest’ultima, calcolo cui si presta maggiormente il ricorso al metodo basato sulla capitalizzazione.

Infatti quest’ultimo, a differenza delle tabelle a punto prende in diretta considerazione la presumibile durata della vita del soggetto, alla luce delle valutazioni statistiche, sicché appare alquanto agevole pervenire alla quantificazione di tale voce di danno. Infatti posta X come età massima presa in considerazione per la tabella di capitalizzazione e posta invece Y come età del soggetto danneggiato, per calcolare l’ammontare del danno biologico maturato nel periodo di sopravvivenza, sarà sufficiente dividere l’ammontare del danno biologico calcolato per l’intero e come se il soggetto fosse sopravvissuto, per il numero di anni pari alla differenza tra X ed Y; ciò darà il valore unitario per un anno di sopravvivenza, che potrà essere a sua volta diviso o moltiplicato a seconda che la sopravvivenza sia stata superiore o inferiore all’anno.

Vero è che un calcolo analogo potrebbe essere compiuto anche sulla scorta delle tabelle a punto, ma, tuttavia non essendo le stesse espressamente parametrate sul dato statistico della presumibile durata media della vita umana, tale operazione di calcolo si potrebbe esporre ad eventuali obiezioni in merito alla mancanza di un riscontro scientifico ed obiettivo.

Rielaborazione delle tabelle medico legali

Un’ulteriore considerazione che ritengo di dover esplicitare, ma che risponde credo al comune sentire dalla maggioranza degli addetti ai lavori, attiene alla valutazione delle lesioni in sede medico legale. Infatti anche a non voler considerare la mancanza di tabelle unanimemente condivise dai medici incaricati di periziare i soggetti danneggiati, pare comunque evidente il ricorso a tabelle nella maggior parte dei casi anacronistiche. Il segnale di ciò, lo si ricava, in sede di lettura delle conclusioni degli ausiliari, nel momento in cui compare il fatidico richiamo alla nozione di capacità lavorativa generica. Invero se tale figura, negli anni precedenti la svolta data dalla Corte Costituzionale con la sentenza n° 184/86, consentì di non lasciare insoddisfatte le pretese al risarcimento dei danni personali conseguenza di lesioni all’integrità psicofisica, non direttamente suscettibili di ripercuotersi in una perdita patrimoniale, attualmente il ricorso alla stessa appare del tutto inutile e foriero esclusivamente di equivoci, legittimando spesso l’aspettativa di un risarcimento del danno patrimoniale in realtà insussistente.

E’ evidente infatti che ancorare la visione dell’uomo a quella tradizionale che lo intende quale soggetto esclusivamente produttore di reddito, e quindi macchina da lavoro, e riguardare pertanto le lesioni all’integrità fisica esclusivamente in tale ottica, crea una insanabile antinomia con la nozione di danno biologico attualmente condivisa dalla prevalente dottrina e giurisprudenza.

Infatti se tale danno, come già detto al principio di questo intervento, deve essere rettamente inteso quale una sorta di contenitore di tutte le possibili compromissioni dell’essere umano conseguenza di una lesione all’integrità psicofisica, sicché la lesione anatomica funzionale è solo un aspetto, rilevante ma non assorbente del danno biologico, che in sé ricomprende anche il danno estetico, il danno alla vita di relazione, ecc., sembra inevitabile che restando ancorati a tabelle medico

2 Cass. Sez. III, 27/12/1994 n° 11169 in Foro It. 1995, I, 1852 e ss., con nota di R. Caso.

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legali che non tengano conto di tale evoluzione, sempre maggiori saranno i casi in cui la valutazione del medico non apparirà condivisibile dal giurista.

L’esperienza quotidiana infatti ha evidenziato che le ipotesi in cui ci si discosta dalle conclusioni del consulente, ricorrono proprio allorquando, pur condividendo la complessiva valutazione del quadro patologico offerta da quest’ultimo, si ritiene che la quantificazione finale in punti percentuale non corrisponda all’entità del danno, specie ove si tenga conto dell’esigenza di compensare anche le ulteriori componenti dell’unitario danno biologico.

Si pensi ad esempio alla spesso scarsa considerazione in cui viene tenuto il pregiudizio di carattere estetico a fronte di quello anatomico; talvolta microfratture, spesso ben consolidate, prive di evidenti ripercussioni sul piano funzionale ricevono una valutazione ben più rilevante ad esempio di cicatrici anche estese su parti del corpo normalmente esposte (viso, mani, collo), e talvolta subite da soggetti anche in giovane età. Una valutazione siffatta non può che essere disattesa in sede giudiziale da coloro che aderiscono alla detta nozione del danno biologico, dovendosi qui privilegiare il pregiudizio derivante dall’inestetismo, ovvero la difficoltà di reinserimento nella vita di relazione (si pensi ad esempio alle difficoltà cui potrebbe andare incontro una ragazza in giovane età nella ricerca di un compagno, qualora afflitta da vistosi inestetismi: invero ritengo che anche ciò vada valutato nell’ottica del danno alla vita di relazione, e debba indurre ad una maggiore considerazione di tale lesione).

Pertanto onde evitare che gli sforzi per pervenire a delle tabelle unitarie per la quantificazione del danno, vengano poi di fatto vanificati da una disapplicazione motivata dalla necessità di adeguare alle valutazioni giuridiche quelle mediche, venendo per l’effetto altresì frustrato l’auspicio di un incremento delle conciliazioni stragiudiziali, è necessario che si proceda di pari passo all’elaborazione di tabelle unitarie anche per le valutazioni di natura medico legale.

Elementi da prendere in considerazione per la liquidazione del danno

Altra questione da affrontare in sede di elaborazione di tabelle unitarie è quella relativa ai fattori suscettibili di influire nella quantificazione del risarcimento del danno.

Sul punto non può non farsi richiamo all’ammonimento della Corte Costituzionale che ha espressamente ribadito che il criterio liquidativo deve risultare “rispondente da un lato ad un’uniformità pecuniaria di base (lo stesso tipo di lesione non può essere valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto ...) e dall’altro ad elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione del caso di specie all’effettiva incidenza dell’accertata menomazione sulle attività della vita quotidiana, attraverso le quali, in concreto, si manifesta l’efficienza psicofisica del soggetto danneggiato”3 dunque quali sono i criteri idonei a garantire l’elasticità richiesta dalla Consulta?

Ritengo che accanto a quello dell’età, tradizionalmente preso in considerazione in tutti i sistemi liquidativi adottati, debba del pari trovare spazio quello relativo al sesso del danneggiato, che inscindibilmente si lega al primo. Infatti risultando statisticamente provato che la durata della vita è influenzata anche dal sesso della persona (è risaputo che le donne vivono più a lungo degli uomini) alla luce anche della citata sentenza della Corte Costituzionale n° 372/94, che sembrerebbe, in difformità dal precedente del 1986, avere ancorato il risarcimento del danno biologico alla prova di un’effettiva perdita di utilità, sembra logico far derivare che laddove la presumibile durata della vita sia maggiore (e quindi la perdita di utilità sia destinata a protrarsi più a lungo nel tempo, del pari debba aumentare l’ammontare del risarcimento del danno.

Un criterio che è stato inoltre suggerito è quello dell’area di appartenenza geografica della vittima.

3 Corte Cost. 14/07/1986 n° 184

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Prima facie tale proposta potrebbe sembrare un tentativo di creare ulteriori discriminazioni tra Nord e Sud, e comunque risultare in palese contrasto con il principio di eguaglianza, creando una disparità di trattamento del tutto ingiustificata. Tuttavia a mio modesto avviso tale suggerimento può rivelarsi meno peregrino di quanto possa apparire, dovendo piuttosto essere accantonato per dei motivi di carattere pratico che ne sconsigliano l’applicazione.

Tralasciando la non mai sopita, in dottrina, disputa relativa all’individuazione della natura patrimoniale o meno del danno biologico, come accennato in precedenza la Corte Costituzionale nel suo ultimo intervento in materia, con la sentenza n° 372/94, (pur dichiarando nelle premesse di voler rimanere fedele al modello teorico adottato con la pronunzia del 1986), ha operato poi nella motivazione un parziale revirement rispetto al passato, sostenendo che per la risarcibilità del danno biologico, è necessario che alla lesione all’integrità psicofisica (danno-evento) si accompagni una perdita di utilità, per la cui valutazione occorre rifarsi alla norma di cui all’art. 1223 c.c., tradizionalmente adoperata per la determinazione dei danni stricto sensu patrimoniali.

Tale soluzione, presumibilmente dettata dalla specifica questione sottoposta all’esame del giudice delle leggi, e finalizzata appunto a precludere la risarcibilità del danno biologico in caso di morte del danneggiato, tuttavia comporta, secondo i primi commentatori di tale pronunzia, una perlomeno parziale rottura rispetto al passato e la necessità di rimeditare l’oggetto stesso della tutela cui è preordinato tale tipo di danno: “non tanto la salute in sé, come autonomo valore della persona, come condizione fisiopsichica individuale che permette un vivere ottimale, quanto l’utilizzo che di tale condizione fisiopsichica viene fatto”4

Torna quindi alla mente la definizione di danno biologico suggerita in passato da un autorevole studioso, che nel ribadire la patrimonialità del corpo umano in se stesso, invitava a “valutare l’uomo e le sue membra nei comportamenti che queste gli rendono possibili” 5 ed a tenere quindi in conto delle funzioni molteplici individuali e sociali dell’uomo, suscettibili di sfociare sia nel lavoro in senso stretto che in attività del cd. tempo libero. Ed è proprio con riferimento alle utilità che sono prodotte in quest’ultimo, nell’estrinsecarsi di attività realizzatrici della persona, che dovrebbe operare il risarcimento del danno biologico, non più inteso quale lesione in sé, ma quale ristoro per delle conseguenze pregiudizievoli. Tali utilità, auto prodotte dall’uomo, nel pieno della sua integrità psicofisica, e destinate a se stesso, rappresentano quindi dei beni di carattere patrimoniale, la cui sottrazione per effetto della lesione determina appunto un danni suscettibile di valutazione patrimoniale, valutazione che deve essere fatta alla stregua dei valori di mercato adottati nel contesto sociale nel quale si trova il soggetto interessato. E’ consequenziale quindi che, almeno per alcune di queste utilità, anche il diverso livello del costo della vita, il diverso valore attribuito a determinate

“utilità” rispetto ad altre, in un determinato contesto sociale, possono ben influire sulla liquidazione del danno biologico, e quindi il tener conto della collocazione geo-economica del danneggiato, ben potrebbe contribuire a rendere maggiormente elastica e flessibile la relativa liquidazione della somma dovuta a tale titolo.

Tuttavia ostano all’adozione di tale ulteriore criterio su cui parametrare le tabelle di liquidazione, degli inconvenienti, come anticipato, di carattere pratico.

In primo luogo, è evidente che qualora accolta l’idea di una differenziazione del risarcimento a seconda delle aree socioeconomiche, inevitabilmente i danneggiati appartenenti a città o regioni meno ricche sarebbero spinti a radicare le controversie presso gli organi giudiziari delle città più opulente, nutrendo la ragionevole aspettativa di indennizzi più lauti, rispetto a quelli corrisposti dai tribunali naturalmente competenti. Si potrebbe obiettare che il rimedio starebbe nella tempestiva proposizione da parte del convenuto dell’eccezione di incompetenza territoriale, idonea a scongiurare un rischio siffatto, e ad evitare quindi l’ingolfamento di determinati uffici giudiziari;

tuttavia specie nella materia del contenzioso derivante dalla circolazione stradale, che costituisce la

4Così P. Costanzo, “Titolarità iure proprio e iure successionis del diritto al risarcimento del danno biologico da morte”, in Giust. Civile 1995, II.

5Mastropaolo F., “Recenti orientamenti in tema di danno alla persona”, in Resp. civ. e previd. 1990, p. 265 e ss.

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maggiore fonte delle controversie involgenti la liquidazione del danno biologico, sussiste, nel caso di esercizio dell’azione diretta del danneggiato un litisconsorzio necessario tra assicuratore ed assicurato, il quale comporta che, perché l’incompetenza per territorio, possa essere rilevata, è necessario che la relativa eccezione venga proposta da entrambi i litisconsorzi, rimanendo del tutto inefficace l’eccezione in tal senso proposta dal solo ente assicuratore. Considerato che nella normalità dei casi il responsabile resta contumace, sarebbe facile prevedere una corsa, senza reali ostacoli, verso i tribunali delle ricche città del Nord.

Ancora si pensi al diverso caso in cui liquidato il danno biologico ad un soggetto residente in una certa area geografica, il quale poi si trasferisca altrove; la somma liquidata potrebbe essere o meno suscettibile di revisioni per effetto di tale spostamento? Infine in base a quale criterio calcolare il danno biologico a favore di un soggetto privo di fissa residenza (si pensi al nomade) ?

Pertanto seppure dal punto di vista teorico ancorare il danno biologico al contesto socioeconomico cui appartiene la vittima appare conforme ai suggerimenti dettati in materia dalla stessa Corte Costituzionale, ritengo che ragioni di carattere eminentemente pratico ne sconsiglino l’adozione.

Conclusione

Pertanto, in linea con le premesse esposte all’inizio di questa relazione, le considerazioni svolte non hanno alcuna pretesa di assumere un carattere di vincolatività, ma rappresentano dei semplici suggerimenti, i quali potranno essere più o meno condivisi al momento dell’elaborazione delle auspicate tabelle unitarie. In ogni caso, a prescindere dall’accoglimento dei rilievi svolti, ritengo che sia interesse comune, quello di adottare dei criteri unitari per la liquidazione del danno biologico, e che ciò debba essere ottenuto anche a costo di sacrificare in parte delle proprie personali convinzioni, le quali ben debbono cedere il passo alla prioritaria esigenza di garantire un’uniformità di trattamento sul piano risarcitorio, un’esigenza che appare sempre più impellente ed indifferibile anche alla luce delle recenti modifiche apportate al codice di procedura civile, che, prevedendo una generalizzata competenza su tali controversie di giudici monocratici (pretore e giudice di pace per le lesioni a carattere micropermanente e tribunale in persona del giudice istruttore con funzioni di giudice unico per le lesioni di maggiore gravità), rischiano di ulteriormente aggravare il pericolo di un’eccessiva soggettivizzazione nella liquidazione del danno, senza neanche più il, peraltro blando, controllo del collegio.

Riprendendo un concetto, più volte espresso dal Presidente Quatraro, in mancanza di un intervento del legislatore, si impone ai soggetti interessati un gentlemen’s agreement, potendosi fondare solo sull’iniziativa e l’impegno degli stessi la possibilità di realizzare l’obiettivo auspicato.

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