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Il danno estetico

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Academic year: 2022

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Il danno estetico

Prof Gian Aristide Norelli – Dr.ssa Elena Mazzeo – Dr.ssa Antonella Giannelli

I problemi connessi con la valutazione del danno estetico hanno, può dirsi da sempre, vivacizzato il dibattito all’interno della Medicina Legale (1), ricercandosene, dapprima, un'idonea collocazione definitoria e discutendosi, poi, i criteri di stima cui la valutazione avrebbe dovuto ispirarsi. Al punto che da una sostanziale riluttanza ad ammettersi il danno estetico fra le categorie pacificamente risarcibili in ambito di responsabilità civile, stante la difficoltà di connotarsene esattamente la nozione e nella generale esclusione del medesimo all’interno della categoria del lucro cessante, salvo i casi di eccezionale e scolastico riferimento, si è pervenuti ad una considerazione addirittura enfatizzata del danno estetico, spesso esaltandone gli aspetti invalidanti ed esasperandone le implicazioni esistenziali ed i riflessi su circostanze indirette di danno (danno morale, danno alla vita di relazione, danno alla vita sessuale, danno psicologico, fino alla previsione più recente dell’ondivago danno esistenziale).

Vero è che la considerazione dottrinaria e giuridica del danno estetico, a prescindere dalla collocazione risarcitoria che s'intenda riservargli, ha da sempre sofferto di un oggettivo e contraddittorio limite di valutazione, che lo ha posto in costante e comprensibile risalto nella prospettiva attuariale, connotandosi, da un lato, di un rilievo soggettivo affatto particolare nella percezione individuale del leso e dall’altro, dell'effettiva impossibilità di prospettarne una valutazione economica che non si discostasse troppo dalla realtà valutativa (peraltro non misurabile con metodologia valida “erga omnes”) e dalle attese del soggetto danneggiato.

L’avvento del danno biologico, quale categoria risarcibile ha indubbiamente favorito l’inquadramento analitico del danno estetico, nel momento in cui la Corte Costituzionale ha previsto, senza equivoci, l’inclusione di quest’ultimo nel primo, opportunamente richiamando la necessità di una sintesi ad evitare inaccettabili duplicazioni per embricate categorie di danno;

con la più consona resultante che il danno biologico ben poteva riassumere ogni aspetto di danno alla persona privo di riflessi reddituali e non comprensibile nella categoria del danno extra-patrimoniale. E ciò con buona pace di chi, pur condivisibilmente reputando anguste le limitazioni di cui all’art.2059 C.C., indulga, però, ad inaccettabili forzature, perseguendo dilatazioni concettuali del danno biologico o ricorrendo ad anacronistiche frammentazioni di un parametro (il danno biologico) che mostra invece caratteristiche e significato assolutamente univoci e definiti. In tal misura che il danno estetico finisce per fornire un’emblematica dimostrazione dei limiti di cui soffre il sistema risarcitorio nel nostro Paese, ove persiste un’innegabile enfasi riservata al danno funzionale e segnatamente al danno che investa il sistema osteo-articolare, mantenendosi l’espressione percentuale come criterio assolutamente preferenziale, se non unico, di modello valutativo. L’espressione numerica, tuttavia, con difficoltà si attaglia all’inestetismo, tanto che sovente si è indotti a marginalizzarne l’importanza a fronte di più evidenti infermità propriamente misurabili come percentuale di danno biologico, talora affrontando equilibrismi di stima che inducono strane, inomogenee e non riproducibili valutazioni di sintesi. A tal punto che vien da chiedersi, ove lo iato persistente fra la considerazione biologica e quella attuariale non sia rapidamente colmato, se non possa convenire un nuovo scorporo del danno estetico dal danno biologico e segnatamente dalla sua

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valutazione percentualistica, riservandosi ad esso una stima ancorata al modello economico in senso equitativo; e ciò sia per le connessioni, indubbie, del danno estetico al danno extra- patrimoniale, sia per l'eccezionale individualità che lo connota nei confronti del soggetto danneggiato, essendo il modello equitativo miglior garanzia di personalizzazione, rispetto ad una difficile, se non irrealizzabile, stima percentualistica.

Nell’attuale sistema di valutazione, peraltro ed a prescindere da auspici e prospettive che solo de iure condendo possono, ovviamente, valere, è indubbio che il riferimento al danno biologico come categoria comprensiva del danno estetico (2) è presupposto ad una sostanziale uniformità del modello di valutazione, rimuovendo macroscopiche incongruenze prima inevitabili, arbitrariamente collocandosi il danno estetico nell’una o nell’altra categoria del danno risarcibile, secondo le inclinazioni, spesso personali e prive di oggettiva motivazione,

"dell’esperto” valutatore. Irrisolta (e può dirsi insolubile) permane, peraltro, la questione dell’inquadramento categoriale dell’infermità produttiva di danno estetico e quindi la possibilità di fornire di essa una descrizione, come della menomazione che ne deriva, valida in termini di uniforme oggettività, su cui basare, poi, la valutazione del danno. Diversamente da ciò che avviene per la maggioranza delle infermità, infatti, di cui è almeno possibile fornire una univoca base diagnostica, quale sintesi nosologica riproducibile, una infermità incidente sul piano estetico è identica solo a se stessa e si connota di una tale soggettività che la rende assolutamente singolare e diversa in ciascuno che la soffra, anche se morfologicamente, magari, potrebbero individuarsi delle identità. Se, in altri termini ed esemplificando, ad una infermità che interessi un distretto articolare, può riferirsi una menomazione che mostra, nei diversi soggetti, caratteristiche sostanzialmente analoghe e riproducibili, onde è possibile in linea generale proporne una astrazione di stima, pur dovendosi poi adattare la valutazione, personalizzando l’incidenza individuale della menomazione, altrettanto non può dirsi per il danno estetico, connotato a priori da soggettività assoluta non solo (e si può dire non tanto, in questa fase) riferita alla diversa percezione che ciascuno può ascrivere alla propria infermità, quanto e soprattutto per la diversità oggettiva che caratterizza l’apprezzamento della infermità medesima da parte del valutatore; a tal punto che, diversamente dal danno funzionale di cui è oggettiva l’apprezzabilità, quantomeno in termini diagnostici, prima che della gradazione del danno estetico può talora addirittura discutersi sulla sua effettiva sussistenza, in un soggetto o nell’altro, pur a fronte della medesima infermità. Una definizione oggettiva della infermità e segnatamente dei suoi rapporti col danno, dunque, rappresenta la prima e più importante difficoltà di valutazione, cui può darsi ipotesi solutoria secondo diverse percorrenze:

1) può ricercarsi, come taluno ha fatto, di dettagliare le infermità di rilievo fisiognomico, assegnando a ciascuna un punteggio di invalidità, classificandole secondo la natura della lesione e la sede della stessa, da utilizzare anche come riferimento analogico di stima per invalidità che sembrino consimili (3);

2) può indicarsi un limite massimo di riferimento per la valutazione del danno estetico come tale, quasi a fissare il tetto di considerazione convenzionalmente assegnato alla funzione fisiognomica, mantenendo all’interno di essa, salvo circostanze assolutamente particolari, la valutazione di ogni danno estetico obiettivabile.

Perfettamente consapevoli delle difficoltà che ciascun metodo di valutazione postula e della sostanziale impossibilità di pervenirsi ad una sintesi oggettiva, si è dell’opinione che la

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soluzione meno a rischio di iniquità si collochi nella metodologia che si potrebbe definire “a tetto di previsione” e che ha ricevuto di recente un compiuto inquadramento dottrinario e pratico nella “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente” edita dalla S.I.M.L.A. (4) per cui, premessa la ovvia necessità che il danno estetico, per definirsi tale come evento risarcibile, superi una “soglia di apprezzabilità” e premessa la altrettanto ovvia esigenza che la sintesi della menomazione curi aspetti inscindibili dalla componente puramente estetica e pur connaturati col danno (risentimenti di ordine psichico, emendabilità, deficit funzionali), si fornisce una indicazione valutativa tabellare ove “il limite massimo è stato stabilito al 35%

considerando che, a parte deformazioni estreme che richiedono stime ad hoc, le alterazioni anatomiche alla base di menomazioni tanto gravi da superare tale percentuale indicativa si accompagnano a marcati perturbamenti funzionali, per cui la stima diventa globale”, suggerendosi, altresì, che “il processo valutativo non trascurerà i correttivi in funzione dell’età, del sesso o di quant’altro conduca ad una valutazione personalizzata. Peraltro questi correttivi consentiranno oscillazioni in eccesso o in difetto non superiori al 30% delle indicazioni di fascia”. Le fasce medesime, in numero di quattro, considerano casi in cui “il pregiudizio estetico complessivo è da pressoché nullo a molto lieve” (Classe I, danno < o pari al 5%); “il pregiudizio estetico complessivo è da lieve a moderato” (Classe II, danno 6-10%); “il pregiudizio estetico complessivo è da moderato a importante” (Classe III, danno 11-15%); “il pregiudizio estetico complessivo è molto importante”, (Classe IV, danno 16-35%). Sulla base di tali sintetiche notazioni, dunque ed a prescindere dalla considerazione ovvia che ogni indicazione di stima del danno estetico non può non risentire della necessità di articolare il ragionamento in modo sfuggente a qualsiasi schematismo, la prudenza con cui si indica la applicazione tabellare ed il ricorso ad un “tetto” di valutazione rappresentano, comunque, una indubbia e condivisibile remora al soggettivismo cui la valutazione del danno estetico è inevitabilmente esposta; ponendosi, il tetto stesso, come parametro univoco ed omogeneo anche al riferimento analogico in classi per infermità che non siano strettamente riconducibili alle ipotesi tabellari, di per sé motivo, ove se ne replicassero le ricorrenze, di ulteriori e gravi iniquità attuariali. Un aspetto di particolare interesse nella valutazione del danno estetico e di evidente difficoltà alla espressione omogenea del medesimo è certo rappresentata dalla personalizzazione del danno nella componente relazionale, inclusa fra i costituenti del danno biologico nella sentenza della Corte Costituzionale che per prima né definì la nozione. Non vi è dubbio, in proposito, che la necessità di procedere alla valutazione della componente relazionale nei suoi aspetti di danno biologico, rappresenta grave ostacolo alla ricerca di una uniformità di valutazione, non essendovi in effetti alcun ambito gravato da soggettivismo ed opinabilità maggiori rispetto a quello inerente i rapporti interpersonali e ciò, segnatamente, in riferimento alla difficoltà di accertarne la ricorrenza, ma anche i presupposti in riferimento allo stato anteriore. Se ciò è vero, del resto, per ogni ambito in cui si richieda la valutazione della componente relazionale all’interno del danno biologico, non vi è dubbio che tanto più vero è in riferimento al danno estetico, ove la stima è sottoposta ad una duplicazione della soggettività valutativa, in termini qualitativi, ancor prima che di quantità. L’espressività individuale, infatti, il sesso, l’età, la fisionomia nel suo complesso della persona, ben difficilmente possono ricondursi ad una connotazione oggettiva e la soggettività si esalta ove a tali parametri si aggiungano i riflessi interpersonali, ancor meno acclarabili nella loro matrice oggettiva. A tal punto che, prima di offrire ipotesi di comportamento in ambito di valutazione del danno estetico, si è indotti ad affermare che la inclusione della componente relazionale all’interno del

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danno biologico può forse ritenersi priva di oggettiva convenienza attuariale, ma anche di sostanziale opportunità, potendo riservarsi ad essa una più idonea collocazione (all’interno del danno extra-patrimoniale, per esempio), liberando, in ogni modo la valutazione medico-legale da una componente che sempre più difficilmente sembra riconducibile alla matrice naturalistica del danno. E che la componente relazionale mal si collochi all’interno del danno biologico, del resto, si deduce anche dalla necessità, più volte avvertita in ambito giuridico e forense, di recuperare alla sintesi equitativa un danno che sembra oppresso dalla valutazione percentuale, ricorrendosi a formule originali per evocare nuovi spazi risarcitori che in sostanza riproducono i precedenti (danno esistenziale, per esempio, di cui difficilmente potrebbe in assoluto comprendersi l’originalità rispetto al danno biologico, al danno morale ed al danno alla vita di relazione, come è, del resto, per quella componente del danno estetico - che è indubbiamente la più cospicua - che insiste sulle attività relazionali della persona o realizzatrici della persona stessa, nel senso dell’autoapprezzamento o della capacità di mantenere un sostanziale benessere interiore). Così stando le cose, tuttavia, ricercando la massima ed oggettiva omogeneità nella valutazione del danno estetico, è anche da dire che la componente relazionale del danno non sembra inserirsi a pieno titolo nella nozione di “danno evento” che la Corte Costituzionale ha inteso riservare al danno biologico al pari delle altre, più specifiche, componenti (danno alla integrità fisio-psichica, danno alla vita sessuale, danno estetico) per un carattere preciso di conseguenzialità che lo connota; dovendosi ragionevolmente intendere, infatti, che un turbamento apprezzabile dei rapporti intersoggettivi consegua, piuttosto, alle altre componenti del danno biologico (che sintetizzano l’evento), piuttosto che essenzializzarsi in esso. Onde si è dell’opinione che, valutato il danno estetico (pur con i limiti e le difficoltà sopra richiamati) con peculiare riferimento alla menomazione che lo sottende, si può procedere, poi, in modo eminentemente descrittivo, alla definizione più completa del danno medesimo,aggiunto della componente relazionale, quale si deduce dagli elementi anamnestici, gravati, ovviamente, da riserva di necessità probatoria.

Una volta definita, dunque, una siffatta metodologia di valutazione del danno estetico, come componente del danno biologico, rimangono da considerare i riflessi della infermità nelle altre componenti del danno risarcibile e prima fra tutte il lucro cessante, allorché, cioè, si debba valutare se ed in quale misura la menomazione estetica possa incidere sulla capacità del soggetto di lavorare proficuamente. Indubbia, anzitutto, la difficoltà di apprezzare l’incidenza negativa del danno sulla capacità al lavoro specifico del soggetto già in termini meramente descrittivi ed ancor più, ovviamente, ove se ne debba quantificare la stima, stante la caratterizzazione del tutto particolare delle attività produttive in riferimento alle quali il danno estetico abbia o possa avere significato e valore. E’ evidente, infatti, che per le attività in cui la componente fisiognomica ha un palese ed essenziale riscontro, il danno estetico assume rilievo di immediata ed altrettanto essenziale valenza (attore, attrice, indossatrice e simili), quantomeno sul piano descrittivo e concettuale, pur dovendosi sottolineare, anche per tali evenienze, la possibilità di richiamarsi un ambito variegato di ipotesi che gravano sulle considerazioni valutative: basti pensare alla sostanziale diversità che esiste fra un danno estetico interessante il volto ed uno, magari di assai maggiore estensione ed apprezzabilità, ma interessante il corpo, a fronte, magari, di attività parimenti interessate all’ambito estetico, ma che possono diversificarsi sostanzialmente a seconda che l’interessamento dannoso attinga a parti visibili o celate (e non v’è chi possa negare, ad esempio, la differenza invocabile, fra un attore che con frequenza interpreti ruoli che prevedano esposizione di parti scoperte, rispetto

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ad un altro che prediliga copioni di diversa natura). Difficoltà assai più sostanziali di apprezzamento evocano, invece, le circostanze in cui l’attività produttiva si giovi in effetti della componente estetica, ma in forma di rapporti interrelazionali senza che essa possa considerarsene il fondamento, come avviene per il commesso, l’impiegato esposto al pubblico, il rappresentante di commercio o simili; soggetti in ogni modo, che per la loro attività necessitano di contatto sostanziale con l’esterno, essendo, tuttavia, tale contatto il mezzo e non il fine dell’attività produttiva di reddito. E’ indubbio, al riguardo, che il solo danno estetico meritevole di interesse risarcitorio è localizzato al volto, rendendosi, comunque, assai problematica la stima della effettiva incidenza sulla capacità produttiva del soggetto, a meno che dal danno stesso non derivi una oggettiva dequalificazione della attività medesima o addirittura il licenziamento. Dovendosi, in ogni modo, ribadire che nella valutazione del danno estetico, più che in ogni altro ambito attuariale, il giudizio medico-legale meriti una attenzione prevalentemente descrittiva, puntualizzandosi le circostanze per cui oltre alla integrità personale anche la vita di relazione del soggetto risulti menomata e le attività lavorative possano apparire compromesse o limitate, rifuggendosi, specie per quanto attiene la componente specifica, da esternazioni numeriche che realmente potrebbero indurre anomale formule risarcitorie. Fermo restando, in aggiunta, il presupposto che deve debitamente considerarsi, nella previsione del danno estetico, anche la componente psicologica, spesso presente se non addirittura predominante, intesa come partecipazione reattiva e assolutamente individuale al danno stesso, valutabile, nelle singole fattispecie, in modo diverso e certo di non agevole espressione:

(1) come componente interrelazionale e pertanto da ricomprendere nei costituenti del danno biologico;

(2) come danno extrapatrimoniale per la sofferenza indotta dall’inestetismo;

(3) come partecipazione psicologica e psichiatrica in senso stretto, che assuma carattere di patologia organizzata e di per sé, dunque, dotata di apprezzabilità menomativa quale danno biologico ulteriormente da integrare nel computo della invalidità.

Un discorso a parte merita, ancora, il danno estetico come componente del danno biologico risarcibile nell’ambito della tutela di responsabilità civile professionale medica, gravata, come è noto, da differenti previsioni, a seconda dei contratti di polizza. Tradizionale e anacronistica è, ancora, la distinzione mantenuta in talune previsioni contrattuali, fra interventi aventi mera finalità estetica ed interventi aventi, invece, per oggetto, il danno funzionale: quasi che la correzione di un inestetismo non possa equipararsi, ad ogni effetto, ad un trattamento curativo di uno stato di malattia, intendendosi con tale nozione anche il malessere od il disagio che un danno estetico indubbiamente evoca, la cui risoluzione, pertanto, assume carattere terapeutico ad ogni effetto. Donde la pervicace insistenza a mantenere la previsione di danno estetico come condizione particolare ed eventualmente aggiuntiva alla maggior parte delle polizze di responsabilità civile professionale, nell’intento di mantenere esclusa dal computo risarcitorio una ricorrente casistica di danno. Tale differenziazione risente ancora di un antico e tenace ancoraggio a quella parte della Dottrina giuridica (5) che interpretava l’intervento medico a finalità puramente estetica distinto dall’intervento attivo su una patologia propriamente detta;

intendendo l’eventuale inestetismo derivante dall’intervento medesimo addirittura come inadempimento alle obbligazioni di risultato, nella prima ipotesi e come evento possibile,

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all’interno della mera obbligazione di mezzi, nella seconda. E’ da notare, al contrario, come Giurisprudenza costante della Suprema Corte ha ormai in modo inequivocabile chiarito che la obbligazione di risultato è formula inesistente nella responsabilità contrattuale medica (6), salvo eccezionali evenienze in cui lo stesso prestatore d’opera (peraltro male interpretando l’apprezzamento delle sue capacità) si impegni a conseguire un esito la cui possibile incertezza, al contrario, dovrebbe essere materia di puntuale informazione; in ogni caso permanendo l’obbligo di mezzi che muove dalla informazione completa e corretta dell’avente diritto e si snoda attraverso i noti principi dell’obbligo di “bene operare”, dovendosi riservare al caso fortuito, in assenza di errore, ogni esito indesiderato, peggiorativo o non migliorativo - il che soprattutto vale nel trattamento estetico - dello stato anteriore.

Ciò che, semmai, può meritare singola attenzione, in riferimento al trattamento estetico, è la sua collocazione risarcitoria in termini di danno emergente, come sovente avviene nella pratica allorché il danno estetico, come invalidità permanente, risulti avere una valutazione attuariale economicamente assai inferiore rispetto alle spese necessarie ad emendarlo, sia pure parzialmente. Accade sovente, in altri termini, che residui un danno estetico passibile di stima modesta in termini percentuali, con secondaria valutazione economica altrettanto modesta in termini risarcitori, a fronte, invece, di cure riparatrici gravate da costi ingenti e da difficoltà prognostiche rilevanti sia per l’incertezza del risultato sia per l’impossibilità di procedervi stante la giovane età del soggetto leso. Ci si chiede, orientandosi, ovviamente, verso una risposta affermativa, se un conveniente modello di valutazione, in circostanze siffatte, non debba muovere dalla richiesta di un parere specialistico di Chirurgia estetica che fornisca lumi sul grado di emendabilità del danno, sui caratteri e sui tempi dell’intervento medesimo (spesso non attuabile in tempo unico) e sui costi complessivi dello stesso, discutendo la materia risarcitoria in termini essenzialmente di danno emergente e di danno morale, limitando al danno biologico la sola quota di danno estetico verisimilmente residua all’intervento medesimo. Si è consapevoli, peraltro, che un’ipotesi risarcitoria così espressa può trovare opposizione sostanziale da parte della compagnia di assicurazione, evocandosi argomenti indubbiamente non peregrini, quali la soggettività nella stima dell’intervento, sia in termini descrittivi che economici, la possibilità concreta che il soggetto non si sottoponga all’intervento come programmato, ovvero acceda a trattamenti gravati da costi assai minori od addirittura da ricomprendere nelle prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale, la diversità di stima prognostica sulla invalidità residua, ecc.; permanendo, tuttavia, il convincimento, che una diversa impostazione risarcitoria, esclusivamente fondata sulla valutazione al momento della invalidità permanente (non potendosi, come spesso dovrebbe inevitabilmente farsi, rinviare di anni la definizione del danno) risulterebbe foriera di iniquità valutative assai maggiori, soprattutto disattendendo l’irrinunciabile principio del risarcimento, quale ristoro completo ed effettivo del danno sofferto.

Un’ultima notazione merita, infine, la collocazione del danno estetico nelle previsioni di polizza privata contro gli infortuni e le malattia, generalmente escluso a termini di contratto dalle possibilità di indennizzo. Si tratta di un antico retaggio per cui, ancorandosi la valutazione del danno alla perdita di capacità lavorativa generica (categoria, peraltro, anacronistica ed inaccettabile) il pregiudizio estetico ben difficilmente può trovare asilo quale componente significativa di danno, non potendosi facilmente postulare una riduzione della capacità di assolvere a mansioni elementari quanto ad impegno fisico ed intellettuale (come è nella nozione di capacità generica), causalmente ascrivibile al pregiudizio di una funzione (quella

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fisiognomica, appunto) che su tali attività non dimostra significativa influenza. Non diversamente, del resto, da quanto per ora accade nella assicurazione sociale contro i rischi del lavoro, ove il pregiudizio estetico non ha, salvo eccezionali evenienze, quali la enucleazione del bulbo oculare, previsioni significative di indennizzo. Si è dell’opinione, al contrario, che i tempi siano ormai maturi per rivedere l’intero ambito della tutela indennitaria, sotto questo profilo (7), e così come per l’assicurazione sociale sopra richiamata si è avvertita da parte della Corte Costituzionale la necessità di introdurre il danno biologico fra gli elementi oggetto della tutela, la medesima nozione ben potrebbe richiamarsi nell’assicurazione privata, posto che la integrità individuale ed ogni altro parametro che ad essa si accompagni nella nozione di danno biologico, assai meglio dell’attuale potrebbe definire l’oggetto della polizza, nel momento in cui sia l’evento assicurato (l’infortunio o la malattia) a cagionarne la ricorrenza.

In chiusura di queste brevi note, ciò che si vuol significare è che la valutazione del danno estetico può intendersi come momento sostanziale di convergenza fra diversi ambiti di difficoltà che caratterizzano la disciplina medico-legale sul piano operativo, avendosi in esso dimostrazione di come la stima di un danno richieda competenze ed esperienza specifiche che vanno ben oltre l’espressione arida di un numero, in uno con la capacità di saper adeguatamente motivare le opinioni oggettivizzando al massimo una materia che di per sé potrebbe rappresentare l’apologia del soggettivismo; richiamandosi la valutazione medico- legale ai presupposti applicativi di un metodo che, ben oltre l’espressione più o meno appropriata di un parere numerico, si fonda su di un substrato di dottrina e di cultura assolutamente originale, che connota e scandisce la non vicariabile identità della disciplina.

(1) Dalla monografia ormai classica di ANTONIOTTI F., DE PETRA G.: “Basi dottrinali del danno fisiognomico nei diversi ambiti giuridici”, Collana Monografica Zacchia, n.8, 1973, si citano, fra i più recenti contributi medico-legali: BARNI M.: “La dottrina medico-legale (1973-1988) sul danno estetico”, Zacchia, 62, 203,1989. PALMIERI L., FEDELI P., SIRIGNANO A.: “Criteriologia per un orientamento sul pregiudizio dell’estetica”, Med. Leg. Quad. Cam., 13,221,1991. INTRONA F.: “L’aspetto della persona. Alcune riflessioni medico-legali”, Arch. Med. Leg. Ass., Scritti in memoria di R.

Pozzato, 16,7,1994. CAVE BONDI G., CIPOLLINI L.: “Riflessioni in tema di valutazione medico-legale del danno estetico”, Zacchia, 71, 293, 1998

(2) Si veda per tutte la recente massima: “Il danno alla salute (o “danno biologico”) comprende ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito che la lesione del bene alla salute abbia provocato alla vittima e non è concettualmente diverso dal danno estetico o dal danno alla vita di relazione, che rispettivamente rappresentano, l’uno, una delle possibili lesioni dell’integrità fisica e l’altro uno dei possibili risvolti pregiudizievoli della menomazione subita dal soggetto. Di entrambi il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno alla salute complessivamente considerato al fine di assicurare il corretto ed integrale risarcimento dell’effettivo pregiudizio subito dalla vittima, ma non è tenuto all’analitica indicazione delle somme che a suo avviso valgono ad indennizzare ciascuno dei virtualmente infiniti pregiudizi nei quali la lesione del bene salute si risolve.”,Cass. Civ., Sez III, Pres. Iannotta, Rel. Amatucci, P.M. Palmieri (Diff.), Ric. Vaccarella, Res. Lloyd Italico S.p.A. ed Altri, Sent. n.256 del 12 gennaio 1999, massima.

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(3) IORIO M, NAVISSANO M.: “Cicatrice e danno estetico. Valutazione del danno biologico”, Ed. Minerva Medica, Torino, 1999.

(4) BARGAGNA M., CANALE M., CONSIGLIERE F., PALMIERI L., UMANI RONCHI G.: “Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente, S.I.M.L.A., Ed.

Giuffrè, Milano, 1999.

(5) Per una interessante analisi sul tema si veda,di recente, DE MATTEIS R.: “La responsabilità medica”, Ed. CEDAM, Padova, 1995.

(6) Si veda la recente ed emblematica massima: “L’obbligazione del professionista nei confronti del proprio cliente, anche nel caso di intervento di chirurgia estetica, è di mezzi, onde il chirurgo non risponde del mancato raggiungimento del risultato che il cliente si attendeva e che egli non è tenuto ad assicurare, nell’assenza di negligenza od imperizia, fermo l’obbligo del professionista di prospettare al paziente realisticamente le possibilità dell’ottenimento del risultato perseguito”, Cass. Sez. III, 3 dicembre 1997, n. 12253, in BILANCETTI M.: “La responsabilità penale e civile del medico, Ed. CEDAM, Padova, 1998, con parere conforme dell’illustre Autore.

(7) NORELLI G.A.: “Invalidità permanente da malattia: attualità e prospettive”, Relazione al Convegno Nazionale su “La malattia: problema clinico, sociale e medico-legale”, Riccione 22-24 aprile 1999, con atti in corso di stampa.

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