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Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

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Questioni di in/sicurezza

Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

Edizione 2014

a cura di

Maurizio Catino, Silvia Gherardi

Annalisa Murgia, Elisa Bellè

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Pubblicazione realizzata da INAIL

Direzione provinciale di Trento

a cura di Maurizio Catino,

Università degli Studi di Milano Bicocca - Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Silvia Gherardi, Annalisa Murgia, Elisa Bellè,

Università degli Studi di Trento - Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale

CONTATTI

INAIL - Direzione provinciale Trento Via Gazzoletti, 1/3

38122 Trento trentino@inail.it www.inail.it

© 2014 INAIL

ISBN 978-88-7484-425-8

La pubblicazione viene distribuita gratuitamente e ne è quindi vietata la vendita nonché la riproduzione con qualsiasi mezzo. È consentita solo la citazione con l’indicazione della fonte.

Tipolitografia INAIL - Milano, dicembre 2014

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Indice

Prefazione

di Stefania Marconi

Dirigente della Direzione Provinciale INAIL di Trento 5

Introduzione

di Maurizio Catino e Chiara Locatelli

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Milano 9 Bicocca

1. Il quadro teorico-interpretativo di riferimento. Una lettura processuale delle

“carriere infortunistiche” di lavoratori e lavoratrici con contratti a termine di Anna Carreri

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 13

2. La diffusione dell’occupazione a termine da una lettura dei dati ISTAT di Stefano Zeppa

Osservatorio del mercato del lavoro dell'Agenzia del Lavoro di Trento 25

3. Il contesto della ricerca e la metodologia di Annalisa Murgia

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 37

4. Contratti di lavoro temporaneo e rischio di infortunio Graziano Maranelli, Silvia Eccher, Alessandro Luca

Unità Operativa Prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro

Dipartimento di Prevenzione - Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (Trento) 47

5. Il tessuto interorganizzativo della sicurezza ai tempi del Testo Unico 81:

tra traduzioni fedeli, interpretazioni libere e strategie di elusione di Francesco Miele

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 61

6. Prima dell’infortunio: un'analisi processuale della costruzione del rischio di Elisa Bellè

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 77

7. Un incidente sul lavoro difficilmente è incidentale di Annalisa Murgia

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 97

(5)

8. Dopo l’infortunio: le traiettorie individuali, tra attori istituzionali, organizzazioni e mercato del lavoro

di Elisa Bellè

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 121

9. Come favorire una formazione “adeguata” nell’attuale contesto normativo di Donato Lombardi

Agenzia del Lavoro della Provincia autonoma di Trento di Chiara Locatelli

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Milano

Bicocca 147

Conclusioni Processi di lavoro intrinsecamente in/sicuri?

di Silvia Gherardi

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento 163

Appendice metodologica 167

Riferimenti bibliografici 177

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Prefazione

di Stefania Marconi

Dirigente della Direzione Provinciale INAIL di Trento

La notte del 26 aprile di ventotto anni fa (l’anniversario ricorre mentre si scrivono queste riflessioni), il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl esplose, scatenando il più grave incidente mai verificatosi in una centrale nucleare. Uno dei due eventi che la scala INES (International Nuclear and Radiological Event Scale) dell’AIEA classifica come catastrofici con livello massimo di gravità, assieme a quello occorso nella centrale di Fukushima nel marzo 2011. Il rapporto ufficiale, redatto da agenzie dell'ONU, conta 65 morti accertati e stima altri 4mila decessi dovuti a tumori e leucemie nell’arco degli 80 anni a seguire. Il numero delle vittime fra il personale della centrale e i lavoratori impegnati nelle operazioni di soccorso ammonta, secondo stime accreditate, ad una cinquantina di vittime di infortunio sul lavoro, perché di questo si è trattato, prima ancora che di un disastro atomico!

L’awarija aveva scoperchiato il vaso di Pandora e mentre l’Europa era impegnata nell’esorcizzazione collettiva della nube velenosa che il vento trascinava inesorabilmente verso ovest, le autorità sovietiche si affrettarono ad attribuire le cause del SuperGAU, il

“peggior incidente immaginabile”, come lo ribattezzarono i tedeschi, a gravi violazioni delle misure di sicurezza da parte del personale e solo dopo anni vennero individuati problemi relativi alla struttura e alla progettazione dell'impianto.

L’attribuzione di un evento infortunistico all’errore umano − e Chernobyl rappresenta il paradigma di numerosi casi verificatisi in seguito (giusto qualche giorno fa la presidente coreana Park Geun-Hye accusava l’equipaggio del traghetto Sewol, affondato con 470 passeggeri a bordo, “di atti del tutto incomprensibili e inaccettabili”, mentre le indagini in corso porterebbero ad evidenziare che il recente innalzamento di un piano a poppa del traghetto lo avrebbe reso instabile e soggetto ad oscillazioni non controllabili) – è uno dei nodi affrontati nell’ambito del convegno* organizzato al termine del progetto di ricerca

“SICURTEMP : Sicurezza e benessere lavorativo tra vecchi e nuovi contratti temporanei in provincia di Trento”, analisi di cui questo testo raccoglie i principali risultati. Come ha ricordato Maurizio Catino, quando un infortunio sul lavoro viene imputato ad un errore umano ci si ritrova, in termini metaforici, al termine di una strada: lo sbaglio del lavoratore pone la parola fine, ed è come se si spegnessero le luci sull’accaduto.

Ma siamo tutti consapevoli che l’errore è parte intrinseca della condizione umana e un modello interpretativo basato sulla colpa del singolo non ci permette di proseguire oltre nell’indagine, generando inerzia e impossibilità di miglioramento.

Il fatto che l’INAIL, nella gestione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, storicamente indennizzi gli eventi avvenuti per responsabilità del lavoratore, con il

* I risultati di ricerca del progetto sono stati presentati nell’ambito del convegno “Questioni di in-sicurezza.

Per una cultura del lavoro e del benessere organizzativo”, che si è svolto l'11 aprile 2014 presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento. Il convegno è stato organizzato in modo che la mattinata fosse dedicata alla presentazione dei risultati del progetto SICURTEMP, mentre il pomeriggio è stato dedicato alle presentazioni di studiosi/e ed esperti/e di benessere organizzativo e sicurezza sul lavoro provenienti da altre università e centri di ricerca nazionali.

http://web.unitn.it/en/sociologia/evento/33418/questioni-di-in-sicurezza-per-una-cultura-del-lavoro-e-del-benessere- organizzativo

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Questioni di in/sicurezza Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

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solo limite dell’infortunio elettivo e del dolo, evidenzia ancor più la consapevolezza di questo limite.

E ancora, nelle sentenze di archiviazione di procedimenti avviati per accertare l’eventuale responsabilità penale del datore di lavoro per violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro, quando non può essere identificata nemmeno l’ipotesi dell’errore umano, e resta quindi insoddisfatta l’individuazione della responsabilità personale, ricorrono spesso espressioni quali “fatto accidentale”, oppure “caso fortuito”, o ancora

“evento non previsto e non prevedibile”, talché conquistano piena cittadinanza anche fatti

“inspiegabili”, che non permettono di trovare cioè una motivazione razionale a ciò che è comunque accaduto.

È dunque possibile accettare, anche in tema di infortuni sul lavoro, la “banalità del male”

come un dato di fatto? Non potrebbe allora essere proprio la gestione della svista casuale, del fatto inaspettato, dell’accadimento imprevedibile a rappresentare quella che definiamo cultura della sicurezza? Se, al contrario di quanto normalmente accade, fosse proprio questa vasta area di elementi apparentemente inspiegabili ciò che deve essere approfondito e compreso?

Domande che portano lo sguardo verso altri scenari, in cui sono le organizzazioni nel loro complesso ad entrare in gioco. Legato in maniera diretta al primo e che al primo dovrebbe tentare di porre rimedio, un altro punto importante di focalizzazione riguarda i limiti nella realizzazione della prevenzione primaria, cioè l’idea di poter creare processi sicuri di lavoro attraverso l’eliminazione dei fattori di rischio sin dall’origine, all’interno di imprese che sono in grado di riconoscere i propri difetti, di cambiare e quindi di migliorare se stesse. Inutile dire che la recessione economica, in tempi recenti, ha dato un suo potente contributo ad acuire questa difficoltà.

L’intervento dell’INAIL, attraverso i finanziamenti alle aziende, rivolto in particolare alle piccole e medie imprese per il miglioramento delle condizioni strutturali di sicurezza, va esattamente in questa direzione e lo fa da oltre un decennio. I dati pubblicati in questi giorni parlano di quasi 29mila progetti presentati dalle imprese per il bando 2013: le richieste di incentivo superano la cifra di 1,7 miliardi di euro: quasi sei volte le risorse messe a disposizione dall’Istituto. Tre progetti su quattro prevedono investimenti diretti per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; il 16% la sostituzione e/o l’adeguamento di attrezzature di lavoro messe in servizio anteriormente al 21 settembre 1996; il restante 10% riguarda l’adozione di modelli organizzativi di gestione della sicurezza.

Argomento, quest’ultimo, di lampante attualità se interpretato e vissuto come strategia attiva dell’azienda per la gestione reale e non formale della sicurezza, prima che come condizione esimente della responsabilità.

Non si tratta di dati asettici, essi sono piuttosto la riprova del fatto che l’impegno da parte dell’Istituto assicuratore ha trovato nelle aziende una risposta forte, soprattutto in una fase congiunturale in cui gli investimenti strutturali in sicurezza tendono a contrarsi.

Lo strumento dei finanziamenti INAIL alle imprese va valorizzato, riaffermato e, oggi più che mai, rigorosamente finalizzato al miglioramento della sicurezza, proprio perché se l’organizzazione aziendale viene vissuta come dato di fatto immodificabile − viene reificata, come dicono i sociologi − il pericolo concreto è che sia il lavoratore a doversi adattare, volente o nolente, ad essa. La conseguenza è che diventa più facile per le aziende, o forse preferibile in termini di costi/benefici, curare il lavoratore piuttosto che il lavoro e si entra così in un circolo vizioso in cui il rischio diventa una variabile accettabile:

Luigi Devoto, fondatore della Clinica del Lavoro di Milano, il primo istituto al mondo interamente dedicato allo studio, alla cura e alla prevenzione delle malattie professionali, più di cento anni fa sosteneva che il malato è il lavoro, non il lavoratore, ed è questo che deve essere curato al fine di prevenire le tecnopatie.

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Questioni di in/sicurezza Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

Il progetto SICURTEMP nasce a Trento dalla volontà di indagare le carriere dei cosiddetti

“vulnerable workers”, ovvero i soggetti più deboli sul mercato del lavoro. Si è molto analizzato, in altri contesti, il fenomeno del lavoro nero collegato al lavoro insicuro, sino ad alcuni episodi limite riportati sulle pagine di cronaca. Ma anche il lavoro precario è lavoro a rischio e mai come in questo momento, in cui le forme flessibili di occupazione tornano centrali nel dibattito politico finalizzato alla riforma del lavoro, una riflessione si impone. I lavoratori occupati con forme flessibili di impiego sono i primi a patire delle circostanze descritte, per la mancanza di adeguata formazione, per la situazione di debolezza contrattuale, per l’interiorizzazione di un concetto di rischio intrinseco al lavoro da svolgere. E anche in una realtà “sana” come quella trentina giovani, donne e migranti spesso rischiano di venirsi a trovare in tale condizione di fragilità, seppur assunti con contratti legittimi e nonostante il tentativo, in alcuni ambiti, di adottare politiche di intervento maggiormente efficaci nei loro confronti.

L’INAIL ha ritenuto di partecipare attivamente a questa iniziativa sul territorio, in coerenza con la propria mission, perché fare prevenzione significa porre attenzione alle dinamiche di un mondo del lavoro in continuo cambiamento, in cui l’incertezza stessa del lavoro è uno dei fattori di rischio. Nel 2013, il 17,3% dei lavoratori dipendenti in Trentino era assunto con un contratto a termine: un valore più alto rispetto alla media nazionale e del nord-est. Di questi, il 20,3% erano donne, gli stranieri erano il 24% e i giovani tra i 24 e i 34 anni il 27,5%. Ancor di più dovrebbe far riflettere la percentuale delle nuove assunzioni con contratti a tempo determinato, che nel 2013 sono state il 75,8% del totale, con un trend in significativo aumento negli ultimi anni.

Il contributo portato alla riflessione collettiva dai risultati di questa indagine sta proprio nel fare un passo in avanti, guardando al presente e al futuro, incrociando fenomeni emergenti, con caratteristiche proprie e peculiari. Ai fattori problematici generali di cui si è detto prima, si aggiungono in questo contesto elementi di rischio legati al genere, alla provenienza geografica, all’età, all’instabilità contrattuale, alla confusione dei ruoli in materia di formazione, alle difficoltà di inserimento: tutti aspetti che, anziché semplificare il quadro, lo rendono ancora più difficile da interpretare e da gestire, anche sotto il profilo della sicurezza.

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Introduzione

di Maurizio Catino e Chiara Locatelli

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Milano Bicocca

Questo volume presenta i risultati emersi dalla ricerca “SICURTEMP: Sicurezza e benessere lavorativo tra vecchi e nuovi contratti temporanei in provincia di Trento”. La ricerca, finanziata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, è stata realizzata nell’arco di due anni (gennaio 2012 - aprile 2014). Il coordinamento scientifico della ricerca è stato svolto da Maurizio Catino (dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca) e da Silvia Gherardi (dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento).

L’attività di coordinamento operativo delle istituzioni che hanno preso parte al progetto è stata condotta da Annalisa Murgia (dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento).

I soggetti partner della ricerca sono stati: l’Unità Operativa Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro (UOPSAL) dell'Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento e l’Agenzia del Lavoro di Trento (ufficio iniziative formative). Inoltre tutti i partner hanno beneficiato della costante collaborazione della Direzione provinciale dell’INAIL di Trento, che ha promosso e contribuito alla realizzazione del progetto in tutte le sue varie fasi.

Il tema principale della ricerca “SICURTEMP” riguarda la relazione tra sicurezza sul lavoro e contratti a termine nella provincia di Trento, argomento che si colloca all’interno del più ampio ambito di studi sull’affidabilità e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. In particolare, tale relazione è stata studiata esplorando i settori tradizionalmente sviluppati e radicati nel contesto trentino, quali quello alberghiero, quello turistico e della ristorazione e, al contempo, analizzando settori in fase di espansione, quali il lavoro di cura nel settore terziario. I principali risultati della ricerca hanno messo in luce i segnali di un progressivo abbassamento della qualità del lavoro delle persone con contratti temporanei e la vulnerabilità delle carriere delle categorie sociali più deboli, in particolare migranti e donne.

La ricerca ha evidenziato come promuovere la sicurezza nei luoghi di lavoro non sia un compito facile, per diversi motivi, sia teorici, sia pratici. In primo luogo, la sicurezza è un

“non-evento dinamico” (Weick, 1987). Non-evento, perché se non avviene nulla di negativo gli operatori possono pensare che nulla stia accadendo, in quanto la “normalità”

non cattura l’attenzione per la sicurezza da parte delle persone nelle organizzazioni, lavoratori/trici e manager. Dinamico, perché risultati affidabili e sicuri si raggiungono attraverso progressivi adattamenti e compensazioni dei cambiamenti da parte dell’elemento umano a fronte di un ambiente incerto e dinamico. Poiché la sicurezza viene normalmente misurata con l’assenza di eventi quali errori, incidenti, near miss, ecc., l’assenza di eventi visibili (o la loro mancata rilevazione) potrebbe, quindi, portare all’erronea convinzione che il sistema sia sicuro, proprio mentre all’interno dell’organizzazione si stanno sviluppando condizioni potenzialmente incidentali. Un secondo aspetto che rende difficile occuparsi di sicurezza attiene al fatto che essa sia spesso concepita come una questione eminentemente tecnica, materia di cui sono tenuti ad occuparsi gli specialisti. I percorsi formativi che caratterizzano le professioni manageriali non prevedono, se non raramente e occasionalmente, l’approfondimento di tematiche legate all’affidabilità, focalizzandosi principalmente sulla gestione economico- finanziaria delle attività aziendali. Il management è, dunque, molto spesso impreparato culturalmente e cognitivamente sui temi dell’affidabilità e della sicurezza; pertanto è

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indotto a delegare tali questioni a tecnici specialisti, col rischio di deresponsabilizzarsi e di diventare progressivamente inconsapevole dello stato della sicurezza nella propria organizzazione. La sicurezza, al contrario, deve essere presente in primo piano nell’agenda del management, il quale poi certamente si avvarrà di tecnici e specialisti per il suo monitoraggio e perseguimento. Un’importante lezione è che la gestione della sicurezza non deve, quindi, essere delegata a figure non manageriali, senza leve e poteri, altrimenti si depotenzia e l’ottenimento di risultati visibili e concreti risulta difficilmente realizzabile. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal concepire la sicurezza come un mero adempimento normativo: se le norme vengono osservate, il sistema organizzativo è considerato sicuro. Questa concezione favorisce nelle organizzazioni, di frequente, un adeguamento “cosmetico-formale”, talvolta di tipo “difensivo” e basato sul mero rispetto della norma al fine di ridurre la possibilità di sanzioni, ma non invece a promuovere effettive azioni di miglioramento. La sicurezza è infatti una proprietà emergente delle organizzazioni, non riducibile al solo dato normativo.

Un’ulteriore difficoltà nella promozione della sicurezza attiene al trade-off “produzione vs.

sicurezza”: il perseguimento degli obiettivi di sicurezza sembrerebbe ostacolare il perseguimento degli obiettivi della produzione. Diversi studi hanno dimostrato come un forte orientamento alle sole dinamiche di produttività possa scatenare un circolo vizioso che conduce al deterioramento della percezione del rischio (Goh et al., 2012). James Reason (1997) ha individuato una serie di dinamiche organizzative che favoriscono la manifestazione di incidenti a seguito di una negativa gestione del trade off sicurezza vs.

protezione. In un’organizzazione l’attenzione verso livelli elevati di protezione e sicurezza tende a diminuire quando non accadono eventi incidentali o altri segnali di insicurezza, fino a quando non si verifica un incidente lieve. A questo punto l’organizzazione si attiva e cerca di migliorare le condizioni di sicurezza, limitandosi però a quelle che riescono a tener conto dell’andamento della produzione. Tuttavia, poiché non si verificano cambiamenti rilevanti dal punto di vista della sicurezza, l’attenzione per quest’ultima si abbassa di nuovo, aprendo finestre di rischio, fino al verificarsi di un grave evento incidentale. Il bilanciamento tra protezione e produttività rappresenta dunque una sorta di lama a doppio taglio: un iniziale aumento dei livelli di protezione può causare una sovra- compensazione degli sforzi legati alla produttività, conducendo, in un secondo momento, a stati di rischio più elevati.

Infine, un ultimo aspetto problematico per la gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro concerne l’eventuale presenza di un approccio culturale di tipo accusatorio nell’analisi degli eventi avversi, che inevitabilmente inibisce l’apprendimento organizzativo. Ogni qual volta accade un incidente di rilievo in un’organizzazione, si avvia un procedimento orientato ad accertare cause e responsabilità dell’evento e a comminare sanzioni. Tale prospettiva si focalizza sugli errori e sulle carenze individuali, assumendo che le persone sbaglino perché poco attente al compito. Alla base di questo tipo di interpretazione vi è un modello causale lineare, centrato sulla ricerca e sulla rimozione di coloro che saranno ritenuti responsabili dell’evento, trascurando però, o lasciando sullo sfondo, il ruolo del contesto organizzativo (Catino, 2006a, 2008). Poiché il fine ultimo dell’approccio accusatorio è l’assegnazione della colpa, la ricostruzione della catena degli eventi si ferma quando viene individuato qualcuno o qualcosa di appropriato a tale colpa. Il risultato derivante è quello di analisi superficiali, che non consentono miglioramenti tali da prevenire il riaccadere di eventi simili. Si attribuisce eccessiva importanza a colui che è situato nell’interfaccia dell’incidente, e che di fatto eredita falle e difetti di chi progetta, organizza e gestisce il più ampio sistema organizzativo. Dall’indagine vengono esclusi, o sottostimati, quei fattori relativi agli aspetti organizzativi, decisionali e di progettazione (fattori latenti) che potrebbero aver avuto un ruolo anche decisivo nel predisporre le condizioni incidentali e che, se non rimossi, continuano a mantenere la loro potenziale

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Questioni di in/sicurezza Un percorso di ricerca su contratti a termine e incidenti sul lavoro in provincia di Trento

pericolosità. La diffusione di tale approccio accusatorio è favorita da alcuni fattori e condizioni: si tratta di un’opzione interpretativa più facile da applicare dal punto di vista cognitivo; il sistema giudiziario penale è basato sulla responsabilità personale e dunque se danno c’è stato ci deve essere un responsabile dell’accaduto; talvolta le organizzazioni coinvolte hanno indubbi vantaggi, legali e assicurativi, nell’attribuire all’operatore la responsabilità dell’evento; è diffusa nelle organizzazioni una cultura della colpa basata sul capro espiatorio. L’approccio accusatorio, tuttavia, comporta una serie di “effetti perversi”:

la ricerca del colpevole non cambia lo stato delle cose e non migliora l’organizzazione; è una prospettiva che guarda al passato e che crea un senso di paura per le sanzioni e le controversie legali, ostacolando il reporting degli errori da parte di lavoratrici/tori e inibendo l’apprendimento organizzativo. In conclusione, vale la pena rimarcare l’importanza di conoscere le reali difficoltà nell’occuparsi di sicurezza all’interno delle organizzazioni proprio per poter promuovere azioni concrete e positive volte al loro superamento.

Il presente volume, scritto a più mani, si apre con un inquadramento teorico presentato da Anna Carreri dell’Università di Trento, in cui vengono descritti gli approcci culturali alla base del progetto di ricerca “SICURTEMP”. Il secondo capitolo, curato da Stefano Zeppa dell’Agenzia del lavoro di Trento, prosegue con l’analisi della diffusione dell’occupazione a termine in provincia di Trento. I capitoli centrali (capitoli 3, 4, 5, 6, 7 e 8), invece, sono orientati a presentare il progetto di ricerca nel dettaglio. In particolare, il capitolo 3, curato da Annalisa Murgia dell’Università di Trento, si sofferma sugli aspetti metodologici utilizzati per la realizzazione della ricerca; il capitolo 4, elaborato da Graziano Maranelli, Silvia Eccher e Alessandro Luca dello UOPSAL dell’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento, indaga la relazione statistica tra contratti di lavoro temporaneo e rischio infortunistico attraverso l'analisi dei dati dei Flussi informativi del Sistema Informativo Nazionale della Prevenzione. Il capitolo 5, a cura di Francesco Miele dell’Università di Trento, è rivolto a mettere in luce, attraverso le interviste ai testimoni qualificati, l'operato dei policy makers e degli attuatori attivi nella Provincia di Trento nel tentativo di adempiere alle normative nazionali ed europee in materia di sicurezza sul lavoro. I capitoli 6, 7 e 8 curati da Annalisa Murgia ed Elisa Bellè dell’Università di Trento, presentano i risultati emersi dall’analisi delle interviste realizzate con lavoratori e lavoratrici che hanno esperito uno o più infortuni sul lavoro nei due settori oggetto della ricerca: il settore alberghiero, turistico e della ristorazione e il settore della cura e assistenza alla persona. Il capitolo 9 a cura di Donato Lombardi, dell’Agenzia del Lavoro della Provincia autonoma di Trento, e di Chiara Locatelli dell’Università di Milano-Bicocca, analizza l’evoluzione normativa e le implicazioni in termini di formazione sulla sicurezza. Infine, il volume termina con un contributo della prof.ssa Silvia Gherardi dell’Università di Trento, volto ad analizzare le dinamiche e le condizioni che favoriscono la manifestazione degli episodi infortunistici, i quali vengono letti in chiave processuale e dunque come esito di carriere “vulnerabili”.

Vorremmo concludere l’apertura di questo testo con un ringraziamento alle figure che hanno reso possibile la realizzazione della ricerca presentata in questo volume, in particolare al dott. Fabio Rosario Lo Faro (ora Responsabile della Direzione Regionale Friuli Venezia-Giulia dell'INAIL, che durante la fase di elaborazione del progetto era alla guida della Direzione Provinciale di Trento dell’INAIL), che ha contribuito in maniera decisiva a far sì che la ricerca potesse prendere avvio e realizzarsi concretamente. Inoltre, desideriamo ringraziare la dott.ssa Stefania Marconi – succeduta alla Direzione dell’INAIL Trento – e le sue collaboratrici Elena Trombetta, Daniela Donati e Monica Menegaldo, che hanno mostrato altrettanta disponibilità e collaborazione nelle diverse fasi del progetto.

Un ringraziamento è di dovere anche ai testimoni qualificati che hanno collaborato alla realizzazione di questa ricerca, e in particolare: INAIL, UOPSAL, Provincia Autonoma di Trento, Agenzia del lavoro, ADES (Associazione degli Esperti della Sicurezza) di Bolzano, alcune Agenzie di lavoro somministrato, Enti bilaterali, CGIL, CISL e UIL del Trentino,

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Medici del lavoro, Psicologi del lavoro esperti in sicurezza, Dipartimento Servizio economia e programmazione sanitaria della Provincia di Trento, la Consigliera di parità della Provincia di Trento, diverse associazioni di migranti e alcuni esperti di comunicazione della sicurezza a livello provinciale. Inoltre, desideriamo ringraziare i sindacati locali, le associazioni Agorà e Rasom, il Cinformi e la Casa della giovane, grazie a cui è stato possibile contattare i soggetti che ci hanno aiutato a comprendere il complesso fenomeno degli infortuni sul lavoro non denunciati. Il nostro debito di riconoscenza più grande è infine nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori infortunatisi che ci hanno accordato la loro fiducia, regalato il loro tempo e fatto partecipi delle loro storie. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la loro disponibilità e il loro coinvolgimento.

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Capitolo 1

Il quadro teorico-interpretativo di riferimento.

Una lettura processuale delle “carriere infortunistiche” di lavoratori e lavoratrici con contratti a termine

di Anna Carreri

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell'Università degli Studi di Trento

1.1 Introduzione

A fronte delle profonde modificazioni nei modelli organizzativi del lavoro degli ultimi anni e in risposta alla sensibilità crescente verso il tema della prevenzione e della sicurezza sul lavoro, a cui non poco ha contributo il ruolo propulsore della Comunità Europea (Eurofound, 2007; EU-OSHA, 2009, 2014a), studiosi provenienti da diversi ambiti disciplinari – in particolare sociologico, psicologico, giuslavorista e di medicina del lavoro – hanno iniziato a sottolineare come le recenti trasformazioni del lavoro e, nello specifico, la progressiva proliferazione di forme contrattuali a termine possano avere risvolti negativi sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici. Il progetto di ricerca

“SICURTEMP: Sicurezza e benessere lavorativo tra vecchi e nuovi contratti temporanei in provincia di Trento” intende dare un contributo a questo dibattito, proponendo un quadro teorico-interpretativo particolare, in grado di cogliere i meccanismi e i processi sociali, politici e tecnici che concorrono alla costruzione del rischio e dell'insicurezza da un lato, e attraverso la realizzazione di una complessa analisi empirica che ha utilizzato tecniche sia di tipo quantitativo che di tipo qualitativo dall'altro. In particolare, in questo capitolo l'obiettivo è quello di inquadrare dal punto di vista teorico-interpretativo il progetto SICURTEMP, situandolo entro un dibattito multidisciplinare e interdisciplinare.

Nel corso del presente capitolo, dapprima presenteremo brevemente il dibattito teorico multi e inter-disciplinare che si interroga sui costi sociali dei mutamenti che hanno investito in modo profondo il mondo del lavoro, e che converge sulla categoria analitica di vulnerabilità lavorativa o lavoro vulnerabile, letta in chiave intersezionale.

Successivamente, all'interno di questo ampio dibattito, ci concentreremo più nello specifico sugli studi, di rilievo nazionale e internazionale, che si sono occupati di lavoro temporaneo inteso come lavoro vulnerabile e del nesso esistente con i temi della sicurezza e della salute occupazionale. Questi studi, pur segnalando in modo abbastanza omogeneo le condizioni svantaggiose in termini di salute e sicurezza sul lavoro di lavoratori/trici con contratti a tempo determinato, presentano diversi elementi di criticità, che ostacolano una più articolata lettura di tale nesso. Essi lasciano di fatto inosservato il fenomeno del sommerso e scarsamente esplorate alcune domande relative ai meccanismi e ai processi di costruzione del pericolo e degli incidenti.

In terzo luogo, si propone in risposta a questa debolezza un differente quadro interpretativo, costruito a partire da due categorie concettuali: quella di carriera vulnerabile e quella dell'intersezionalità. Infatti, il concetto di carriera vulnerabile, per il suo carattere dinamico e incrementale, si presta particolarmente bene in questo studio a cogliere i processi sociali, politici e tecnici che configurano ciò che è in/sicuro, mentre la categoria analitica dell'intersezionalità svolge il ruolo, per così dire, della cartina di tornasole attraverso cui interpretare tali processi. L'approccio analitico qui proposto è stato elaborato

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a partire dalle riflessioni sul lavoro temporaneo e sulla questione della sicurezza provenienti in particolare da due discipline: la sociologia del lavoro e la sociologia dell'organizzazione. Esso si caratterizza per essere multilivello e processuale, consentendo di far luce sui meccanismi che stanno alla base dei processi di costruzione dell'in/sicurezza prima, dopo e durante l'evento infortunistico in cui i livelli di analisi micro, meso e macro si ricollegano.

L'approccio analitico risulta peraltro particolarmente efficace nell'analizzare lo scollamento tra il piano normativo e le condizioni quotidianamente esperite dai soggetti assunti con contratti a termine. Così, prima di enucleare nelle conclusioni i principali punti di forza che questo frame interpretativo presenta, si richiamerà brevemente quel filone di studi che analizza la traduzione in pratica delle riforme istituzionali, di particolare rilevanza oggi nel contesto italiano, in quanto nel discorso normativo in tema di sicurezza è stato recentemente messo in agenda un importante progetto di cambiamento, i cui esiti effettivi restano però ancora da sondare.

1.2 Vulnerabilità lavorativa e intersezionalità

I cambiamenti verificatisi nel mercato del lavoro dei paesi occidentali altamente terziarizzati hanno indotto profonde modificazioni nei modelli organizzativi del lavoro, tali da indurre a studiarne l’incidenza sulla salute e sicurezza di lavoratori/trici (Quinlan, 1999).

Ci riferiamo ai mutamenti avvenuti negli ultimi decenni, quali l'intensificazione dei processi di globalizzazione e quindi la mondializzazione degli scambi, il decentramento dei processi produttivi a fronte di una centralizzazione del controllo, cui ha fatto seguito la crescita della dispersione produttiva, con il frequente ricorso ad esternalizzazioni e delocalizzazioni; la finanziarizzazione dell'economia e le sue conseguenze sul processo di valorizzazione dei beni e delle risorse; l'informatizzazione della produzione e il cambiamento dei processi organizzativi, che hanno visto le organizzazioni adottare sempre più modelli flessibili e a rete, orientati alla produzione just in time; la destandardizzazione delle forme di lavoro, con il diffuso ricorso a forme contrattuali cosiddette flessibili o atipiche; la progressiva diversificazione della forza lavoro, caratterizzata in particolare dalla femminilizzazione e dall'incremento della partecipazione dei migranti; più recentemente, la crisi economica, che ha acuito questi mutamenti e fatto crescere in modo preoccupante il tasso di disoccupazione. Si tratta di cambiamenti che richiedono alle persone un forte coinvolgimento per governare la frammentazione e assecondare la fluidità dei processi organizzativi (Gosetti, 2012); tuttavia, non tutti i soggetti che attraversano il mercato del lavoro dispongono delle stesse risorse per farvi fronte.

È nato infatti un dibattito all'interno delle scienze sociali che ragiona sui costi sociali di tali mutamenti e che converge sul concetto di “lavoro vulnerabile” (Trade Union Commission on Vulnerable Employment, 2008). Con esso si fa riferimento all'elevata esposizione da parte di alcune categorie di soggetti a una serie di condizioni di rischio che possono condurre a stati di marginalità. La definizione si articola lungo più dimensioni di vulnerabilità, da quella retributiva a quella della (mancata) protezione sociale. Il concetto di lavoro vulnerabile permette peraltro di non rivolgere l'attenzione esclusivamente alla diffusione dei contratti a termine, ma di riflettere in maniera più ampia sulle condizioni di lavoro che i soggetti esperiscono quotidianamente, a prescindere dalle particolari forme contrattuali. Pur trattandosi di un progetto di ricerca focalizzato sui lavori a termine, infatti, occorre mettere in evidenza che così come i lavori atipici non sono necessariamente sinonimo di vulnerabilità, al contempo – soprattutto nell'attuale periodo di crisi economica – l'ottenimento di un contratto a tempo indeterminato non è sufficiente di per sé a proteggere dall’insicurezza (Armano e Murgia, 2012). La vulnerabilità, intesa come fenomeno sociologico, deve

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pertanto essere analizzata nella sua multidimensionalità, ampliando l’analisi alle traiettorie biografiche e professionali che si articolano nel corso del tempo.

Nello specifico, il lavoro vulnerabile viene definito in letteratura come insicuro e di bassa qualità, con scarse possibilità di contrattazione rispetto al datore di lavoro, bassi livelli di sindacalizzazione e, in generale, un minor accesso a diritti e tutele (Lucas, 2004; Sargeant e Giovannone, 2011). Esso offre altresì scarse possibilità di intraprendere azioni collettive volte al miglioramento delle proprie condizioni di lavoro. Questa serie di caratteristiche espone lavoratori/trici al rischio di abusi e ad un maggior rischio di ricattabilità (Belin et al., 2011). Coloro che si trovano in queste condizioni rischiano peraltro di rimanervi per tutto il ciclo di vita: hanno infatti scarse possibilità di progressioni di carriera e alte probabilità di continuare a trovare impiego in condizioni analoghe. I rischi di vulnerabilità, tuttavia, sembrano essere maggiori in alcuni settori lavorativi, come quello della cura alla persona, delle pulizie e quello della ristorazione (Trade Union Commission on Vulnerable Employment, 2008).

Inoltre, la categoria di lavoro vulnerabile è interessante anche rispetto al tema precipuo qui oggetto di analisi, ossia quello della sicurezza sul lavoro e, più in generale, della salute occupazionale. Questo perché alcune dimensioni del lavoro vulnerabile, quali un controllo limitato sulle condizioni, sul luogo e sui processi di lavoro, una scarsa protezione rispetto ai rischi sul lavoro, così come le minori opportunità di formazione in termini di salute e sicurezza e la difficoltà di accrescere le proprie competenze nel corso della carriera lavorativa espongono i soggetti che si trovano in queste condizioni ad una maggiore probabilità di incorrere in infortuni, malattie professionali e povertà (Belin et al. 2011;

Quinlan, 1999). In questo senso potremmo dire che il concetto di vulnerabilità lavorativa, oltre ad essere multidimensionale, presenta anche un carattere previsionale.

A ciò si aggiunge che la condizione di vulnerabilità lavorativa ha carattere composito e necessita di essere letta in chiave intersezionale (Browne e Misra, 2003; Walby, 2007). È infatti la risultante dell'intersezione di differenti caratteristiche individuali, quali la provenienza da un altro paese, l’appartenenza di genere e la collocazione entro fasce di età giovanili o avanzate. Ciò significa che a differenti caratteristiche individuali corrispondono sovente diversi rischi in termini di salute e sicurezza sul lavoro, così come diverse risorse per poterli affrontare.

A questo proposito, è stato mostrato come vi siano significative differenze tra lavoratori e lavoratrici che vanno a sfavore di queste ultime nell’esposizione ai rischi sul lavoro e nell'incidenza di infortuni (EU-OSHA, 2009). In Italia questo fenomeno si lega alla persistente concentrazione delle lavoratrici in alcuni specifici ambiti di attività, quali quello degli addetti ai servizi domestici e della cura, della sanità, e quello alberghiero e della ristorazione (Nunin, 2010). Bisogna poi sottolineare l’impatto che sulla salute delle lavoratrici può potenzialmente avere l’aggiunta delle responsabilità di cura al carico di lavoro svolto nel mercato del lavoro (Belin et al., 2011). Il lavoro di cura, infatti, appare ancora gravare sulla componente femminile in diversi paesi europei, in primis in Italia (Saraceno e Naldini, 2011). In quest’ottica, il tema della conciliazione vita-lavoro dovrebbe entrare a pieno titolo tra le questioni rilevanti nell'analisi dei rischi in tema di sicurezza e salute, così come nella costruzione di ogni sistema prevenzionistico, come è stato peraltro recentemente ribadito a livello sovranazionale (EU-OSHA, 2014b). A questo aspetto si lega poi la precarizzazione dei corsi di vita, che pare più accentuata nel caso delle donne.

Ad esempio, tendenzialmente esse sono assunte con contratti più brevi e insicuri rispetto a quelli degli uomini (Belin et al., 2011; Istat, 2013). Alla luce di queste problematicità, è stata sollevata in letteratura la necessità di indagare in modo più approfondito gli effetti di lungo periodo dei fenomeni di segregazione occupazionale (EU-OSHA, 2009).

Tuttavia, gli elementi di fragilità non sono solo al femminile, ma investono in modo diverso anche altre categorie di soggetti. Da alcuni studi risulta infatti che i lavoratori soggetti al

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maggior rischio di vulnerabilità siano i migranti (Ambrosini e Barone, 2007). I lavoratori stranieri sono esposti a numerosi elementi di difficoltà, legati in particolare alle barriere linguistiche e alla percezione ridotta dei rischi occupazionali. In particolare, le difficoltà linguistiche possono rappresentare un vero e proprio ostacolo all'accesso e alla ricezione di una formazione adeguata. Inoltre, provenendo spesso da paesi con bassi livelli di consapevolezza dei rischi lavoro-correlati, i lavoratori migranti tendono a sviluppare un approccio differente al rischio sul luogo di lavoro. Tuttavia, è lo stesso status di lavoratore/trice migrante che più gravemente accresce la condizione di vulnerabilità di questi soggetti, i quali accettano spesso di lavorare in situazioni rischiose e difficilmente denunciano danni subiti sul luogo di lavoro, per il timore di non vedersi rinnovato il permesso di soggiorno, come recentemente è stato evidenziato in altri studi (Rathod, 2010; Bellè et al., 2013a, 2014). I lavoratori stranieri hanno peraltro una maggiore probabilità di essere impiegati in mansioni dequalificate e pericolose, con un orario di lavoro prolungato e/o in orari cosiddetti non sociali; condizioni queste che producono affaticamento fisico e mentale, che può incidere negativamente sui livelli individuali di attenzione al lavoro (Giovannone e Tiraboschi, 2011). Più in generale, i/le migranti lavorano in condizioni svantaggiose in termini di sicurezza sul lavoro e salute occupazionale, come viene riconosciuto nel contesto italiano dal D.Lgs. 81 del 2008 (art. 28, par. 1).

I lavoratori e le lavoratrici più giovani condividono con i migranti, seppur in misura minore, la scarsa consapevolezza di diritti e doveri in ambito lavorativo. Inoltre, le loro condizioni lavorative sono spesso di precarietà e di inadeguata formazione in termini di salute e sicurezza sul lavoro (Belin et al., 2011). I giovani hanno anche maggior probabilità di essere assegnati a mansioni pesanti dal punto di vista fisico e di essere sottoposti a ritmi di lavoro frenetici, elementi che li espongono a maggiori rischi sul lavoro (Giovannone e Tiraboschi, 2011). Nello studio dei rischi in termini di salute occupazionale e di sicurezza sul lavoro è necessario allora porre al centro la categoria analitica dell’intersezionalità, per dare una lettura maggiormente articolata e approfondita sia dei dati quantitativi che dei dati qualitativi.

1.3 Lavoro temporaneo, lavoro vulnerabile: i rischi in termini di salute occupazionale e sicurezza sul lavoro

Diverse ricerche mostrano che i lavori a tempo determinato riguardano prevalentemente mansioni a bassa qualifica e scarsamente remunerative. I lavori temporanei tendono altresì ad essere associati a più elevati rischi di disoccupazione rispetto ai lavori a tempo indeterminato, fatto che li espone più facilmente a pressioni psicologiche (EU-OSHA, 2007), ma anche a più limitate forme di protezione sociale (Lim, 1996; Giesecke, 2009). I lavoratori temporanei hanno anche meno controllo su condizioni, processi e ritmi di lavoro e, più in generale, una scarsa conoscenza dell’ambiente lavorativo, dovuta principalmente alla mancata esperienza o inadeguata formazione (Benach et al., 2000; Eurofound, 2001). Inoltre, il minore accesso alla formazione e le difficoltà a sviluppare competenze a lungo termine (EU-OSHA, 2009) fanno sì che per i lavoratori temporanei sia più difficile costruire in modo sequenziale e coerente una carriera professionale, con conseguenze importanti che ricadono non solo sui percorsi lavorativi ma, in modo più generale e complesso, sulla vita delle persone, nel segno di una crescente vulnerabilità e insicurezza (Sennett, 1998;

Fumagalli, 2007; Gallino, 2008; Murgia, 2010).

Per indagare il legame tra la precarietà lavorativa e i rischi in termini di salute e sicurezza sul lavoro, è necessario tenere in considerazione i fattori di criticità evidenziati in letteratura (fra gli altri, Quinlan et al., 2001; Corbisiero e Rizza, 2009; EU-OSHA, 2009;

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Kalleberg, 2009) che rendono quel nesso maggiormente problematico e che peraltro accentuano le difficoltà analitiche e interpretative1.

 Coloro che sono impiegati con contratti temporanei sono sottoposti a maggiori pressioni economiche. Nella competizione per la ricerca di un lavoro, così come nel competere con altri/e lavoratori/trici per il mantenimento di un impiego e di un livello di reddito accettabile, essi possono quindi diventare facilmente ricattabili e maggiormente propensi ad un atteggiamento di disposizione totale al datore di lavoro, con conseguenze importanti in termini di mancata consapevolezza e riconoscimento dei propri diritti.

 Coloro che sono impiegati con contratti temporanei sono inoltre spesso inseriti in processi lavorativi frammentati, caratterizzati dalla compresenza di più datori di lavoro e linee di management complicate. Si tratta infatti di soggetti che spesso occupano una posizione periferica nei luoghi di lavoro, sia dal punto di vista delle relazioni con i colleghi e con i superiori, sia dal punto di vista delle relazioni con i sindacati.

 Essi sono inoltre soggetti ad essere impiegati in attività che non conoscono e a ricevere meno informazioni sui metodi di lavoro e sui rischi dell’attività che svolgono. Di conseguenza, possono avere minor familiarità con quelle che vengono considerate nell'organizzazione le condotte lavorative più sicure e, più in generale, con le norme sulla sicurezza.

 In caso di insicurezza o problemi sul lavoro, sono lavoratori/trici caratterizzati/e da una maggiore probabilità di esclusione da sistemi di regolazione e protezione, poiché i regimi regolatori delle questioni relative alla salute e sicurezza sul lavoro sono perlopiù pensati sulla base di un modello di lavoro full-time e standard (si pensi alla difficoltà di riconoscere una malattia professionale per chi cambia spesso il luogo in cui si presta lavoro). Inoltre, quando le persone sono impiegate tramite agenzie di lavoro temporaneo, spesso non è sufficientemente chiaro chi debba assumersi la responsabilità della loro sicurezza nel rapporto tra lavoratore/trice, agenzia di somministrazione e impresa di lavoro.

 A complicare questo quadro si aggiunga che i possibili fattori di rischio derivanti dalla condizione di vulnerabilità lavorativa dei/lle lavoratori/trici a termine − quali la frammentarietà e temporaneità delle mansioni lavorative e i deficit formativi connessi − non sono facilmente attribuibili ad un singolo lavoro o ad una specifica organizzazione, piuttosto essi sono riconducibili all’intero percorso lavorativo di un individuo. La sperimentazione di forme continue di flessibilità/precarietà, infatti, rende di difficile attribuzione le responsabilità di un evento infortunistico, il quale, pur riferendosi ad uno specifico e temporalmente determinato luogo di lavoro, può verificarsi a seguito di un iter professionale particolarmente difficile.

 Considerando tutti questi elementi, e in particolare il basso livello di sindacalizzazione e la tendenza all'invisibilità dei lavoratori temporanei rispetto ai sistemi di regolazione e protezione, cui segue una minore propensione all’autotutela, si può facilmente ipotizzare che la situazione infortunistica dei lavoratori temporanei sia più grave di quella

1 Ai fattori elencati si devono aggiungere i problemi definitori e di comparazione che la categoria di “lavoro precario” comporta. Le difficoltà di comparazione riguardano sia gli studi effettuati in paesi diversi, con diversi sistemi di welfare e protezione sociale, sia le categorie di lavoratori che, al di là del tipo di contratto, tendono per molti versi a sovrapporsi.

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rappresentata dalle cifre ufficiali, che riguardano soltanto gli eventi denunciati e quelli riconducibili alla particolare mansione svolta al momento dell’evento infortunistico.

Queste sono le principali problematicità che disegnano il nesso tra la vulnerabilità lavorativa e i rischi in termini di salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici assunti/e con contratti di lavoro a tempo determinato.

Il quadro esposto, seppur nella sua complessità, trova conferma in numerose indagini empiriche di rilievo internazionale. L'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ha presentato nel 2009 una ricerca sulla letteratura edita in cui viene mostrato come in 76 studi su 93 esaminati il lavoro precario sia risultato associabile ad un peggioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, in termini di tasso di infortuni, rischio di malattie professionali, livelli di esposizione al rischio, scarsa conoscenza delle misure di prevenzione e delle responsabilità correlate (EU-OSHA, 2009). Gli studi segnalano che chi ha un contratto a tempo determinato, rispetto a coloro che hanno un contratto a tempo indeterminato, è impiegato in ambienti caratterizzati da una forte presenza di rischi, con carichi di lavoro maggiori e con mansioni faticose e ripetitive; è scarsamente inserito nel sistema di sorveglianza sanitaria; evidenzia condizioni di salute e di sicurezza peggiori e, conseguentemente, è maggiormente soggetto a incidenti e malattie professionali (Barrett e Sargeant, 2008;

Haigh e Mekel, 2004; Underhill e Quinlan, 2011). Tra i lavoratori a tempo determinato l'incidenza degli infortuni professionali è infatti superiore rispetto a quella degli altri lavoratori (EU-OSHA, 2009).

Anche le indagini nazionali che sono state svolte sul tema, seppur ancora scarse, tendono a confermare la presenza di maggiori rischi rispetto alla salute e alla sicurezza sul luogo di lavoro per i/le lavoratori/trici a tempo determinato (Biagi et al., 2001;

Eurispes-Ispesl, 2003; IRES, 2009; Di Nunzio, 2011; Moffa, 2012). Tuttavia, quando si sposta l'attenzione sul contesto nazionale, è necessario tenere presente alcune peculiarità e problematicità che caratterizzano la flessibilizzazione del mercato del lavoro.

Nel caso italiano, infatti, il mercato del lavoro è stato investito a partire dalla metà degli anni Novanta da un processo di “de-regolamentazione parziale e selettiva”, che ha riguardato principalmente le coorti più giovani e le donne, cui non è corrisposto un adeguamento del sistema di welfare ai nuovi rischi sociali associati alla flessibilità (Esping-Andersen e Regini, 2000; Paci, 2005). Sono in particolare le donne ad essere non solo sovra-rappresentate in tutte le forme di lavoro temporaneo, ma anche maggiormente presenti nelle forme contrattuali meno tutelate e più discontinue (Villa, 2010). Anche i migranti vivono situazioni marcatamente più difficili: essi occupano le posizioni meno qualificate e retribuite (al di là del titolo di studio posseduto) e sono i primi in Italia a perdere il posto di lavoro, risentendo maggiormente degli effetti della crisi economica (Istat, 2013). Sempre in ottica intersezionale, si nota inoltre che le difficoltà di pieno e continuato inserimento nel mercato del lavoro della popolazione immigrata si inaspriscono nel caso delle donne (Istat, 2013). Si deve poi tenere in considerazione come coloro che fanno esperienza di lavori con contratto a tempo determinato, specie se di bassa qualifica (donne immigrate in primis), corrano il rischio di rimanere “intrappolati” entro il segmento del mercato del lavoro meno tutelato (Barbieri e Scherer, 2009), accrescendo così nel corso del tempo il loro grado di vulnerabilità economica e sociale. In Italia, infatti, più che in altri paesi europei, la flessibilità contrattuale tende ad essere legata a condizioni di precarietà per la maggioranza dei lavoratori coinvolti; dove per precarietà si intende il rischio per lavoratori/trici di non riuscire a provvedere nel medio periodo al proprio sostentamento attraverso il mercato del lavoro o la protezione sociale (Berton et al., 2009).

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Gli studi che abbiamo citato, analizzando le statistiche disponibili sul tema, si concentrano sugli aspetti più strutturali del fenomeno e forniscono uno scenario in cui diverse categorie di soggetti risultano più o meno vulnerabili in termini di salute e sicurezza sul lavoro.

Tuttavia, il fenomeno in questione presenta un sommerso rilevante, che le statistiche attualmente disponibili, e quindi le analisi che si basano su di esse, non sono in grado di cogliere. Come si è visto, infatti, la posizione di marginalità (articolata su diversi piani) in cui si trova chi lavora con contratti a tempo determinato, soprattutto se di altra nazionalità, disincentiva la denuncia di incidenti o di danni alla propria salute subiti sul lavoro.

Per di più, queste ricerche non danno conto in modo analitico del carattere processuale della vulnerabilità, nella misura in cui esse non consentono di studiare la vulnerabilità lavorativa come processo incrementale, cioè di accumulazione e articolazione di diversi fattori di fragilità nel corso del tempo. Restano cioè scarsamente esplorate alcune domande relative ai processi sociali, ma anche politici e tecnici, che concorrono alla definizione di una situazione o di un luogo come “sicuro” o “rischioso” e, più nello specifico, mancano studi che diano conto del carattere processuale e socio-tecnico dell'evento infortunistico.

Pertanto, nonostante vi siano evidenze empiriche dell’effetto (indiretto) del lavoro vulnerabile, e nello specifico del lavoro temporaneo, sulla salute occupazione e sulla sicurezza sul lavoro, non si conosce in che modo i diversi fattori di rischio cooperino nel tempo nel dare esito ad un evento infortunistico, né è noto in letteratura che tipo di conseguenze ad esso seguano e come vengano affrontate a livello individuale ed organizzativo. Le difficoltà in tal senso sono dovute alla complicata individuazione e misurazione, sia dei fattori di rischio pre infortunio, sia delle conseguenze post infortunio, poiché gli effetti del lavoro temporaneo sulla salute non si manifestano immediatamente, e spesso la temporaneità dei contratti non lascia sufficiente tempo per l'individuazione e misurazione degli effetti negativi sulla salute. Nel caso del lavoro temporaneo e, più in generale, del lavoro vulnerabile, vi è perciò la necessità di sviluppare approcci e metodi di ricerca più adeguati a cogliere il carattere longitudinale, processuale e socio-tecnico degli infortuni.

È in questa ambiziosa direzione che il progetto di ricerca SICURTEMP intende muoversi.

La finalità ultima è quella di riuscire a stabilire più complesse connessioni causali, che tengano conto non solo del tipo di contratto, ma anche – in un'ottica intersezionale – di alcune caratteristiche individuali, in primis del genere, della provenienza geografica e dell'età dell'individuo, così come dell'expertise accumulata. Non meno importanti sono i fattori strutturali legati alle organizzazioni in cui gli individui sono inseriti, così come le culture organizzative della sicurezza e le culture professionali che definiscono ciò che è

“normale”, “sicuro” o “rischioso”. Infine, il fenomeno va letto alla luce del discorso normativo sul tema della salute occupazionale e di alcune discriminanti di carattere contestuale, come la possibilità per gli individui di accedere o meno al supporto sociale, e più in generale le specificità sopracitate del contesto italiano.

1.4 Un approccio analitico multilivello e processuale

L'interesse progettuale, oltre a porre necessariamente delle scelte metodologiche relative al disegno e ai metodi di ricerca più adeguati a cogliere il fenomeno nella sua complessità, (tema per cui si rimanda al terzo capitolo), richiede un approccio analitico che sia non solo multilivello e multidimensionale, ma anche – e soprattutto – di tipo processuale, in grado cioè di dar conto delle traiettorie degli individui e, più nello specifico, di osservare per così dire la patogenesi degli eventi infortunistici. L'esigenza di trovare nuove lenti concettuali, con cui poter cogliere come diversi fattori nel corso del tempo cooperino non intenzionalmente nella produzione di un incidente, viene sollevata da più parti.

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Se si guarda infatti a come il tema della sicurezza sul lavoro è stato inquadrato sotto il profilo teorico nella letteratura sociologica, si può osservare che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso l'analisi ha assunto carattere multidimensionale, spostando l'attenzione dai soli aspetti economici ed ergonomici legati alle condizioni oggettive di lavoro alla considerazione di più dimensioni, tra loro fortemente connesse, quali l’ambiente organizzativo, gli strumenti e l'organizzazione del lavoro, le comunità professionali e la legislazione (Gherardi et al., 1997). In generale, il dibattito sulla salute e sulla sicurezza dei/lle lavoratori/trici ha iniziato a ragionare in termini di benessere lavorativo e qualità del lavoro. Più recentemente, a fronte dei sopraggiunti mutamenti del mondo del lavoro, e in particolare a fronte della crescente individualizzazione e diversificazione dei percorsi lavorativi e di vita, si osserva un ulteriore sforzo teorico, che punta a integrare nell'analisi, oltre alla qualità del lavoro, anche la vita del lavoratore lungo l'intero suo percorso biografico. L'obiettivo è porre al centro della riflessione non solo la componente intrinseca del lavoro concreto, ma anche gli aspetti estrinseci relativi al legame fra lavoro e traiettoria di vita (Gallie et al., 2012).

La stessa necessità, peraltro, viene sollevata all'interno del discorso normativo italiano.

Nel mutato quadro legislativo, viene infatti riconosciuto il bisogno di un'innovazione culturale che sia in grado di riconsiderare i legami tra fattori organizzativi e sociali durante l’intero ciclo della vita lavorativa, e che sia capace di andare oltre alla valutazione dei rischi oggettivi sul luogo di lavoro (Giovannone e Tiraboschi, 2011). L'obiettivo ultimo, cioè, non è soltanto quello di evitare i danni di un’attività pericolosa, bensì di concepire e costruire processi di lavoro con attributi di benessere. D'altro canto, però, le recenti modifiche sul piano normativo in tema di salute e sicurezza sul lavoro non sembrano in grado di raggiungere tali obiettivi e presentano invece un carattere regressivo rispetto alla precedente legislazione, non garantendo la costruzione di processi di lavoro intrinsecamente sicuri e allontanandosi di fatto dagli obiettivi dichiarati in termini di prevenzione primaria2 (Salento, 2013).

Rispondendo alla necessità di far luce sul carattere processuale e composito della salute e della sicurezza, in questo studio si preferisce adottare il concetto di carriera vulnerabile, che solo parzialmente si discosta da quello di lavoro vulnerabile, in quanto esso risulta più efficace nel cogliere la natura dinamica e incrementale della vulnerabilità. Nello specifico, tale concetto consente di mostrare come i processi di stratificazione di differenti elementi di fragilità si dispieghino nel corso biografico (Bellè et al., 2013a, 2014). Vulnerabilità quindi non solo come concetto multidimensionale, ma anche come categoria analitica processuale.

In altri termini, la vulnerabilità viene qui intesa non solo come condizione data, quale somma di vari fattori di criticità (peraltro già evidenziati ampiamente in letteratura), bensì come processo di accumulazione in cui nel tempo si vengono a trovare variamente congiunti elementi di fragilità prodotti dall'interazione tra fattori sociali, organizzativi e interorganizzativi. Spetta ai soggetti ricucire tempi e spazi di lavoro e di vita, lungo un percorso biografico divenuto discontinuo e frammentato, posizionando se stessi e gli episodi (in primis quelli infortunistici) entro una cornice di senso. Ed è a partire dalla ricostruzione a posteriori di tali percorsi – le “carriere infortunistiche”, come sono state chiamate nel titolo – che è possibile far luce sui meccanismi che stanno alla base di quei processi di costruzione dell'in/sicurezza in cui i livelli micro, meso e macro si ricollegano.

Tuttavia, in via preliminare è bene precisare che cosa si intenda per incidente individuale.

Più in generale, con il termine incidente si intende un evento inaspettato, non voluto e non

2 Un consistente sforzo di adeguamento degli ordinamenti europei alle finalità di prevenzione primaria individuate in sede internazionale è venuto dalla Direttiva-quadro n. 89/391 del 12 giugno 1989, la quale ha generalizzato il principio della prevenzione primaria, integrandola nella progettazione dei processi di lavoro, e che è stata poi recepita dagli ordinamenti dei paesi membri (in Italia dal D.Lgs. n. 626 del 1994 e successivamente dal D.Lgs. n. 81 del 2008).

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desiderato, con conseguenze inattese e particolarmente severe in relazione all’integrità psichica e fisica degli esseri umani, ai danni materiali e/o alle perdite di carattere economico (Baldissera, 1998). In questo lavoro, l'oggetto di interesse sono gli incidenti individuali in cui, diversamente da quelli che accadono alle organizzazioni, una specifica persona è sia l'agente che la vittima dell'incidente (Reason, 1997).

L'approccio analitico adottato concettualizza l'incidente infortunistico come il risultato manifesto dell'interazione (rimasta silente per un certo lasso di tempo) di diversi fattori di vulnerabilità afferenti all'individuo, ma anche all'organizzazione in cui l'infortunio si è verificato e soprattutto il contesto interorganizzativo. L'attenzione è quindi posta, da un lato, sugli individui e le loro carriere vulnerabili. A questo livello, si cerca di far luce sui social understandings della situazione che guidano le decisioni di lavoratori/trici che hanno subìto degli infortuni. Dall'altro lato, si guarda anche ai fattori critici prodotti dai processi socio-tecnici interni alle organizzazioni (nel nostro caso, afferenti a due settori lavorativi specifici). Alcuni fattori critici possono ad esempio riguardare la divisione del lavoro, i sistemi di coordinamento e controllo, la comunicazione o ancora la formazione. A livello organizzativo, l'analisi ricomprende anche le culture organizzative della sicurezza, vale a dire le credenze su ciò che è sicuro e rischioso, e le culture professionali, che elaborano i requisiti del lavoro in relazione alla cultura organizzativa (Gherardi et al.,1997). Infine, si cerca di tener conto anche del contesto interorganizzativo, vale a dire il contesto politico, economico e istituzionale in cui le organizzazioni afferenti ai due settori lavorativi osservati (quello della cura e assistenza alla persona e quello alberghiero, turistico e della ristorazione) operano. Questo modello analitico multilivello ha lo scopo di mettere in luce i meccanismi che connettono il livello micro (individuale) a quello meso (organizzativo) a quello macro (interorganizzativo) (Catino, 2010). Gli ultimi due, infatti, costituiscono al contempo un limite e una risorsa all'azione (livello individuale), e sono pertanto prospettive analitiche fondamentali per comprendere l'agire dei/lle lavoratori/trici, così come la messa in pratica di norme e regolamenti.

Se da un lato l'approccio analitico qui proposto consente un'analisi multilivello, dall'altro lato esso si caratterizza per essere dinamico, in quanto cerca di ricomprendere la temporalità e la ricorsività delle relazioni sociali, organizzative e interorganizzative. In questo senso, l'incidente infortunistico è interpretato come momento di snodo tra un prima e un dopo, sia lungo le traiettorie biografiche, come possibile turning point di riposizionamento del sé (Davies e Harrè, 1990), sia a livello dell'organizzazione, come potenziale occasione di riconfigurazione dei sistemi di sicurezza, in quanto opportunità di apprendimento organizzativo (Catino, 2008) che, più in generale, a livello di gestione istituzionale dell’evento come possibilità di revisione culturale da parte degli attori in campo in uno specifico territorio. L'evento viene così interpretato come il risultato socio- tecnico (Bruni, 2005) dell'interazione fallimentare tra fattori umani, organizzativi e interorganizzativi, e ricostruito seguendone la patogenesi. Sotto questo punto di vista, l'approccio si presenta per certi versi simile a quello che negli studi sulle organizzazioni ha proposto Barry Turner in Man Made Disasters (1978) per l'analisi degli incidenti industriali.

Turner, infatti, interpreta gli incidenti industriali come il risultato dell'agire organizzativo provvisto di una razionalità limitata (Simon, 1985); in altre parole, come l'esito non programmato dell'interazione disastrosa di processi sociali, organizzativi e tecnologici.

Tuttavia, i disastri non sono improvvisi ma attraversano un “periodo di incubazione”

durante il quale una serie di eventi pericolosi si accumulano senza venire notati. Da qui nasce l'idea, all'interno degli studi organizzativi, di distinguere le diverse fasi che danno luogo a un incidente e di analizzare la genesi e la dinamica incidentale quali elementi di comunanza tra i disastri industriali.

Prendendo ispirazione da questa tradizione teorica, nello studio presentato in questo volume lo sforzo è quello di guardare all'infortunio non come evento puntuale e isolato, ma

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