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Il continuum tra pubblico e privato: le traiettorie possibili del lavoro di cura Nel terzo capitolo, dedicato all'illustrazione della metodologia e del contesto della ricerca,

Un incidente sul lavoro difficilmente è incidentale

7.1 Contestualizzare gli infortuni sul lavoro

7.1.1 Il continuum tra pubblico e privato: le traiettorie possibili del lavoro di cura Nel terzo capitolo, dedicato all'illustrazione della metodologia e del contesto della ricerca,

è stato offerto un quadro delle assunzioni avvenute nel 2013 nei due settori in cui è stata svolta l'indagine. Per quanto riguarda il lavoro di cura e assistenza alla persona sono stati registrati circa 5.000 avviamenti delle principali figure professionali che popolano questo complesso ed eterogeneo settore: intorno alle 3.400 assunzioni di addetti all'assistenza personale e circa 1.600 tra professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali e quelle degli specialisti nell'educazione e nella formazione di soggetti diversamente abili. A questo quadro occorre tuttavia aggiungere quantomeno un altro tassello per ricomporre la fotografia del lavoro di cura sul territorio provinciale nella sua interezza, vale a dire le assunzioni che hanno interessato le assistenti familiari – professione registrata sotto l'etichetta di “badante” – pari a circa 2.200 nel solo 2013. Per tale ragione, nonostante l'INAIL di Trento non abbia ricevuto alcuna richiesta di riconoscimento di infortunio da parte di assistenti familiari con contratti a termine nell'intervallo di tempo considerato (2007-2011), nella costruzione del disegno della ricerca – in particolare per quanto riguarda gli episodi infortunistici che non sono stati denunciati – si è ritenuto opportuno includere anche la figura professionale dell'assistente familiare. In questo modo è stato possibile ricostruire una sorta di spirale del lavoro di cura sul territorio trentino, a partire dalle posizioni più centrali e tutelate in questo spicchio di mercato del lavoro, fino ad arrivare alle posizioni più marginali e vulnerabili. Emergono così i differenziali di potere tra lavoratori/trici, risultato delle esperienze pregresse e degli assetti istituzionalizzati del mercato del lavoro e più in generale della vita sociale. Il grado di vulnerabilità esperito in questo settore dai lavoratori – o, meglio, dalle lavoratrici, dal momento che si tratta professioni svolte quasi esclusivamente da donne – dipende infatti non soltanto dalla traiettoria biografica, ma anche dalla collocazione dell'organizzazione in cui si lavora in una sorta di continuum tra la dimensione pubblica e quella privata.

L'analisi delle dimensioni pubblica e privata solitamente chiama in causa la tradizionale distinzione, fin troppo a lungo proposta dalle definizioni sociologiche e dagli studi sul lavoro, tra attività lavorative retribuite e non retribuite (Beechey, 1987; Pahl, 1988; Bradley, 1989; Glucksmann, 1995; Tancred, 1995). Questo riduzionismo, retaggio dei cambiamenti che hanno avuto luogo durante l’industrializzazione, ha portato a separare la sfera pubblica da quella privata, definendo la prima come il luogo del lavoro economicamente produttivo, e la seconda come non economica, ossia il luogo dove venivano svolte le attività non riconosciute come “lavoro”. Tale dicotomia ha fin da subito assunto delle connotazioni legate alla configurazione dei rapporti di genere, costruendo la sfera pubblica della produzione come un ambito specificatamente maschile, mentre le donne venivano definite in relazione alla sfera privata della famiglia e della riproduzione (Acker, 1992;

Gherardi, 1995). In questo sede, tuttavia, la dicotomia pubblico/privato non è affrontata tanto in relazione agli aspetti monetari e di “quantificazione” del lavoro, quanto piuttosto in riferimento ad altri due sensi in cui pubblico e privato possono essere intesi.

Un primo significato è legato alla distinzione tra le mura domestiche e gli spazi al di fuori di

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esse. Questa differenza, infatti, non è legata esclusivamente alla dicotomia tra economia formale e informale, laddove la seconda viene prestata in forma gratuita e per i propri familiari, ma rimanda anche al luogo fisico in cui il lavoro viene svolto: la casa della persona assistita – è il caso delle assistenti domiciliari e delle assistenti familiari – o le strutture di assistenza sociosanitaria. Un secondo significato individua invece due differenti settori dell'economia formale, vale a dire i servizi erogati dalla pubblica amministrazione e quelli gestiti invece dal settore privato o dal mondo della cooperazione.

A tal proposito, la ricerca condotta in provincia di Trento mette in evidenza le maggiori tutele offerte dal settore pubblico, in cui sono tendenzialmente più alti i tassi di sindacalizzazione e si rilevano migliori condizioni di lavoro. Le persone intervistate che lavorano nelle strutture pubbliche, prevalentemente case di riposo, riportano infatti una situazione di sostanziale rispetto della normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro.

Tutti sicuri, se non vuoi assicurarti te, però non ti manca niente, niente. Le case di riposo sono come ospedali, anche di più. Sono veramente organizzati: sulle flebo, sul catetere che fai ai pazienti, tutte le regole, tutte le cose. Se vuoi essere preciso, non ti manca niente, fino ad adesso. Le regole sono rispettate e sono anche severe. Se sbagli anche un paziente, una cosa, tutto è precisato, devi scrivere se hai sbagliato. No, per questo non puoi dire niente.

[1A_Donna, 55 anni, infermiera professionale, Albania]

Ciò non significa, tuttavia, che le strutture residenziali socio-sanitarie non debbano affrontare delle problematicità legate ai mutamenti di questa specifica attività lavorativa.

Negli ultimi due decenni sono infatti state applicate a scopo di lucro, anche nel settore pubblico, delle strategie manageriali che hanno ridefinito le professionalità del mondo della cura e dell'assistenza alla persona (Armstrong e Armstrong, 2005). L'organizzazione del lavoro ha subìto dei profondi mutamenti, legati soprattutto all'intensificazione dei ritmi di lavoro, alla carenza di personale e al cambiamento della tipologia degli utenti, fenomeni che saranno approfonditi nel corso di questo capitolo.

L’ambiente di lavoro ha tutti gli ausili e i DPI. La coscienza deve essere nostra, perché siamo stati formati per un corretto utilizzo. Per cui se fai le cose giuste… il pericolo c’è sempre, ma molto meno. Sono convinta che il problema sia più legato allo stress. È proprio lo stress il problema. Soprattutto a causa della mancanza di personale, quella pressione continua che senti nello svolgimento del tuo lavoro. Inoltre, importante è anche l’aspetto dei limiti di tempo che ti vengono imposti. La fretta aumenta il rischio. […] Una volta c’erano anche meno esigenze perché il carico di lavoro non era così forte, perché le persone non erano così gravi.

Con il passare degli anni le persone presenti in struttura sono più gravi e aumenta la necessità di assistenza. E c’è sempre meno personale.

[5A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Nel ripercorrere quella che abbiamo definito la spirale della cura, partendo dal centro – e dunque dalle organizzazioni caratterizzate da condizioni di lavoro tendenzialmente migliori – per andare verso i margini – vale a dire le situazioni più problematiche e meno tutelate – è interessante notare il fatto che il pubblico, in termini di settore economico, rappresenti una garanzia per lavoratori e lavoratrici in misura nettamente maggiore rispetto al pubblico inteso come luogo di lavoro, vale a dire gli impieghi svolti al di fuori delle mura domestiche e delle abitazioni dei soggetti assistiti. Dopo le strutture gestite dall'ente pubblico, infatti, la tipologia di lavoro rappresentata dai soggetti intervistati come caratterizzata da condizioni di lavoro dignitose e rispettose dei propri diritti è proprio l'assistenza domiciliare pubblica.

Noi dobbiamo andare nelle abitazioni degli utenti ed è prevalentemente un servizio di igiene sulla persona e di trasferimento. È un lavoro abbastanza faticoso. Siamo tutte donne. Io lavoro a tempo pieno e quando ho cominciato qui facevo sei utenti al giorno, adesso invece

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ne devo fare otto. Sarebbe un lavoro da fare part-time, invece io lavoro a tempo pieno. […]

Però se penso a noi come pubblico e alle differenze con le cooperative, noi possiamo stare zitte: cominciando dallo stipendio che è minore, poi dai tempi, perché loro calcolano solo il tempo effettivo mentre noi abbiamo anche il trasferimento compreso.

[11A_Donna, 52 anni, assistente domiciliare, Italia]

Se dalla gestione pubblica ci spostiamo verso il terzo settore e ancora di più verso il settore privato – in particolare le strutture gestite da personale religioso – troviamo le situazioni di maggiore vulnerabilità, in cui si riscontrano anche frequenti casi di aggressione da parte degli utenti, nonché casi di infortunio non denunciato. Nelle storie raccolte sono state registrate rilevanti criticità e una percezione tendenzialmente bassa della qualità del lavoro da parte dei soggetti intervistati, anche a causa della temporaneità dei contratti di impiego. Più volte, nel corso della ricerca, in questo tipo di organizzazioni sono inoltre emerse delle problematiche strutturali, legate ad esempio alla scarsa presenza – e in alcuni casi all'assenza – di adeguate strumentazioni tecniche e appropriati dispositivi di sicurezza.

Io ho fatto presente anche al responsabile della struttura che c’erano dei problemi con delle ospiti che al mattino ti picchiano: dai il buongiorno e ti danno una sberla, arrivano a graffiarti.

Lui ha detto: “è la malattia”, io capisco la malattia e mi sta bene, ma ci sono dei mezzi per intervenire su certe patologie. L’altro giorno una signora mi ha dato il piede in faccia io le ho detto di stare ferma e la suora mi ha sgridato: “Non devi urlare!”. Le ho detto: “Suora, lei ha mai preso un piede in pieno viso, quando sta lavando una persona? Quando lo prenderà me lo verrà a dire!” Io non ho dato botte alla signora, ma la mia reazione è stata logicamente quella di spostarmi e dire: “Signora!” […] Vedi, qui ho il dito mi fa male. Non sono andata in pronto soccorso, ma avrei fatto meglio ad andare, perché mi fa male, mi hanno dato il ghiaccio, finita lì. Però, per fortuna, dopo hanno portato le imbragature, perché prima non c’erano. Almeno è servito per quello. Fino a poco tempo fa con un imbragatura dovevamo gestire tutto il piano.

[14A_Donna, 51 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Al termine della spirale su cui sono collocate le posizioni più o meno tutelate e più o meno marginali nell'ambito del lavoro di cura si trovano senza dubbio le esperienze delle assistenti familiari, le cui storie restano spesso taciute, proprio per la difficoltà di oltrepassare le mura domestiche, che per queste lavoratrici rappresentano non soltanto un luogo di lavoro, ma spesso anche lo stesso spazio abitativo. A ciò si aggiunge la quasi totale assenza di tecnologie di supporto alle lavoratrici e la persistenza di uno stereotipo di genere, inestricabilmente legato agli stereotipi associati alla provenienza geografica – spesso si tratta di donne originarie dell'Europa dell'est – che implica un mancato riconoscimento dell'assistenza familiare come attività professionale. Se nei casi precedenti, per quanto si tratti di contesti organizzativi caratterizzati da una marcata segregazione orizzontale di genere, alle lavoratrici viene riconosciuta la propria esperienza professionale, nel caso delle cosiddette badanti le capacità di cura sono date per scontate e dunque non riconosciute, per la supposta propensione delle donne, ancor più se provenienti dall'Europa dell'est, ad occuparsi di soggetti bisognosi di cura.

La signora pesa tanto e non aveva il sollevatore: la dovevo alzare dal letto, spostare sulla sedia a rotelle e da lì andare in bagno e alzarla quando aveva bisogno di fare pipì o fare il bidet. Tutto senza sollevatore. Quindi è successo l’infortunio, ma lavorando in nero e senza contratto non potevo fare niente. Con questo lavoro mi sono fatta male al menisco e ho un’ernia alla quinta e alla sesta vertebra.

[17A_Donna, 53 anni, assistente familiare, Bulgaria]

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Mentre portavo la spesa mi sono inciampata e mi sono rotta una costola. Non potevo camminare, sono andata al pronto soccorso, lì subito mi hanno detto che c’era stata una frattura. È arrivato il datore di lavoro [il figlio della donna assistita] e ha chiesto come fosse successo… sai, per loro erano guai. Al pronto soccorso hanno dato dei moduli da compilare, per avere l’infortunio. Il figlio ha detto che era complicato, che avevano paura e hanno detto:

“Non vogliamo problemi, questo è peggio anche per noi, noi non c’entriamo niente”. Avevano paura, non volevano problemi. Dopo una settimana dovevo partire, sono tornata in Ucraina, ho fatto una radiografia e ho messo il gesso. Mi sono curata lì.

[13A_Donna, 58 anni, assistente familiare, Ucraina]

Gli stralci di intervista presentati mettono in luce sia le criticità legate al dover lavorare in un contesto informale e privo delle attrezzature necessarie, sia il maggiore grado di vulnerabilità a cui sono esposti lavoratori e lavoratrici che prestano la propria attività in assenza di un regolare rapporto di lavoro. Occorre tuttavia sottolineare, per quanto riguarda lo specifico caso delle assistenti familiari, che l'ottenimento di un impiego regolare è in ogni caso una garanzia piuttosto debole per le lavoratrici, vista la semplicità dell'eventuale rescissione del contratto. Per tale ragione nel corso di questa ricerca, per lo specifico caso delle assistenti familiari, sono state intervistate non soltanto lavoratrici con impieghi temporanei, ma anche con contratti a tempo indeterminato.

Un elemento particolarmente critico di questo lavoro è inoltre legato alla restrizione dei tempi e degli spazi delle propria vita privata. In questi casi non si è in presenza di una confusione tra spazi e tempi di vita e di lavoro, ma ad un assottigliamento, che in alcune situazioni arriva alla quasi completa eliminazione, del tempo privato/familiare e del tempo per sé.

In qualche casa non hai la tua camera, adesso mi hanno offerto un lavoro dicendomi: “Non abbiamo una camera per la badante, dormirai con la mamma e ti mettiamo un letto nella sua stanza”. Se è autosufficiente, perché devo dormire con la mamma? Io vorrei la mia camera:

voglio mettermi al computer e parlare con la famiglia, non voglio andare a dormire alle 19 come la signora e stare in silenzio. Non è giusto.

[17A_Donna, 53 anni, assistente familiare, Bulgaria]

Non possono dirti: “Ma sì, ti diamo 1200€ e in quelle due o tre ore al pomeriggio in cui veniamo a sostituirti tu andrai a fare la spesa, a comprare quello che serve per la casa”. Nel mio tempo libero... E non dormivo di notte! Dovevo cucinare, cambiare, fare la glicemia e le misurazioni. Non era normale: quei cinque mesi li ho fatti, ma uno quanto può andare avanti?

Scendevo anche in città a prendere le medicine perché nel paesino non c’era la farmacia. Lo fai, ma quando la notte ti alzi quattro o cinque volte diventa dura. Io ho lavorato con uno stipendio misero, ti sputano nell’animo: quindi te ne vai via, come una cretina, come nessuno.

[16A_Donna, 43 anni, assistente familiare, Moldavia]

Ad essere sottratti, dunque, possono essere sia gli spazi all'interno del luogo in cui si lavora, che spesso è anche lo spazio in cui si vive, sia i tempi quotidiani, e in particolare quei momenti che dovrebbero appartenere al tempo libero, e che tuttavia vengono invasi dalle richieste di svolgere ulteriori attività lavorative, nonostante il contratto preveda un riconoscimento, seppur minimo, di alcune ore di riposo.

7.1.2 La dimensione organizzativa e il grado di in/formalità: le traiettorie possibili

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