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Affacciarsi e transitare nel mercato del lavoro: esperienza professionale, forme contrattuali e in/stabilità

Prima dell’infortunio: un'analisi processuale della costruzione del rischio

6.2 Affacciarsi e transitare nel mercato del lavoro: esperienza professionale, forme contrattuali e in/stabilità

Il più immediato e facilmente isolabile elemento che concorre a costruire carriere lavorative vulnerabili attiene all’instabilità contrattuale. Come vedremo qui di seguito, anche nel caso di una condizione che accomuna tutte le persone intervistate, gli esiti della temporaneità contrattuale non sono gli stessi per tutti, ma si inseriscono entro percorsi lavorativi differenti e, soprattutto, segnati da gradi diversi di vulnerabilità. Rispetto alla questione, che rappresenta d’altra parte uno dei focus principali della ricerca stessa, va operata una prima distinzione, che attiene ai due settori lavorativi in esame. Per quanto concerne il settore turistico, alberghiero e della ristorazione, siamo alle prese con un contesto caratterizzato da sempre in maniera prevalente dalla stagionalità, dunque dall’utilizzo diffuso di contratti temporanei. In questo caso, dunque, non è tanto la forma contrattuale in sé ad essere dirimente, quanto la qualità e la professionalizzazione

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all’interno del percorso lavorativo, come emerge dal confronto di due racconti per certi versi speculari ed opposti:

Inizi ad avere una passione per quello che riguarda l'enogastronomico. Da lì incominci un percorso, poi ti butti a fare la scuola. […] Nel momento dell'assunzione tu hai un iter, parti prima da commis di cucina, un sesto livello, poi vai a crescere e diventi un aiuto cuoco, poi dall'aiuto cuoco sali al capo partita, un capo partita generalmente è un quarto livello, diventi cuoco che è un terzo livello, diventi chef che è un secondo livello e il primo livello è un direttore di cucina. […] Da lì ho iniziato un percorso non negli alberghi, ma con i cuochi. Dove andavano loro, andavo anch'io. E questo ha aiutato a conoscere le persone, nel lato gestionale, ogni località, ogni posto ha un sistema, un lavoro, un'impostazione diversa e lì impari e riesci a capire cosa stai facendo. […] Nel nostro circolo di cuochi, che è abbastanza di élite, riuscivi a gestire e a farti quindici giorni qua e là, più che lavorare andavi ad imparare e cominciavi a vedere, curiosare, immagazzinare.

[3B_Uomo, 39 anni, chef de cuisine, Italia]

Ho fatto trentatré anni qui ad ***, sempre lì, ho fatto sessantasei stagioni. Per trentatré anni mi licenziavano e mi riassumevano, perché ero stagionale. […] Gli ultimi dieci anni ho lavorato nell’edilizia, dato che c’era un imprenditore di *** [località] che poteva prendermi e assicurarmi. […] Praticamente avevo quattro licenziamenti: due da parte dell’albergo dopo la stagione estiva e quella invernale, altri due per i due mesi di lavoro nell’edilizia prima delle stagioni in albergo.

[15B_Uomo, 61 anni, chef de cuisine, Italia]

Il primo stralcio di intervista tratteggia un percorso caratterizzato dall’alto livello di professionalizzazione: il racconto è scandito da tappe precise e sin dai suoi inizi delinea un’evoluzione in una certa misura ideale, fatta di passaggi successivi, l’uno concatenato all’altro, che disegnano una vera e propria carriera, nel corso della quale il soggetto acquisisce competenze via via crescenti, accompagnate da scatti retributivi e di inquadramento. Una traiettoria coerente, in termini prima formativi e poi professionali che, come avremo modo di vedere in seguito, nel settore in questione si fa sempre più rara.

Entro tale quadro, la stagionalità e, prima ancora, la permanenza breve in contesti lavorativi differenti non soltanto non costituisce un elemento di vulnerabilità, ma addirittura rappresenta un’occasione formativa di prestigio, che consente di apprendere il mestiere e i suoi trucchi, permettendo di acquisire competenze gestionali cui segue poi un avanzamento di carriera. Tali esperienze forniscono al soggetto le competenze necessarie a gestire autonomamente l’organizzazione di una cucina, un requisito fondamentale nel determinare il discrimine tra un cuoco che svolge la sua attività ad alti livelli di professionismo oppure in contesti scarsamente qualificati, come d’altra parte emerso in varie interviste.

Nel secondo stralcio ci troviamo invece di fronte ad un percorso che, in maniera apparentemente paradossale, si configura per la continuità della permanenza entro lo stesso luogo di lavoro (il ristorante di un albergo), presso il quale l’intervistato è assunto e licenziato due volte l’anno, per trentatré anni consecutivi. Una traiettoria lavorativa stabile dal punto di vista del luogo di lavoro, dunque della conoscenza da parte del cuoco dell’organizzazione, che tuttavia non giunge ad essere riconosciuta in termini contrattuali, rimanendo illimitatamente sospesa nella temporaneità stagionale. Ed è proprio l’aspetto di permanenza, di stabilità in un contesto organizzativo che evidentemente non valorizza la professionalità del lavoratore in questione, che si lega ad un processo di dequalificazione progressiva, sino a giungere ad una instabilità e frammentazione completa, testimoniata dalla forma di impiego, anche in questo caso temporaneo, in un settore molto distante dalla ristorazione, quale quello edilizio. La vicenda, pur rappresentando un caso limite dal punto di vista del prolungarsi nel tempo di un inquadramento contrattuale instabile entro il

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medesimo luogo di lavoro, evidenzia però in maniera efficace l’ampiezza della divaricazione possibile tra percorsi lavorativi che, seppure entro il medesimo settore, si indirizzano verso posizioni di centralità o, viceversa, progressiva marginalità (e dunque vulnerabilità) all’interno del mercato del lavoro.

Nel caso dell’altro settore oggetto di indagine, quello della cura e assistenza alla persona, siamo di fronte a una dinamica differente: non si tratta di un ambito lavorativo caratterizzato da sempre dalla temporaneità contrattuale, bensì oggetto di mutamenti relativamente recenti, non solo per via del proliferare di forme contrattuali instabili, ma anche per l’accresciuta complessità del settore, legata alla progressiva terziarizzazione del mercato del lavoro e alla sempre maggiore rilevanza dell’economia dei servizi. In tale ambito si moltiplicano inoltre le tipologie di offerta e di strutture: si pensi, a titolo d’esempio, all’ingresso del cosiddetto “privato sociale” nell’area, così come al nuovo fenomeno dell’assistenza domiciliare e a quello delle assistenti familiari. Entro un simile quadro di fondo, emergono percorsi lavorativi segnati profondamente dalla divaricazione tra stabilità e instabilità contrattuale:

Allora io praticamente ho fatto Psicologia a Padova, il tre più due. Ho fatto i tre mi sono laureata e poi ho fatto l’esame di specialistica, l’esame di Stato e poi è previsto un tirocinio di mille ore post laurea. Io l’ho svolto presso una struttura, la stessa dove lavoro adesso, ho fatto mille ore. Dopodiché c’è stata un’educatrice che andava in maternità e mi hanno semplicemente chiamato per la sostituzione, che poi si è trasformata in un trasferimento per la ragazza e quindi io ho preso ufficialmente il suo posto e addirittura da tempo determinato sono passata a tempo indeterminato. Sì, son stata fortunata.

[6A_Donna, 31 anni, educatrice disabili, Italia]

Sono venticinque anni che lavoro in questo servizio. Ho avuto tanti anni di precariato, ventuno anni. Ho fatto cinque case di riposo e ognuna ha una sua gestione, un suo sistema e un suo coordinamento. In una sono stata un anno, nelle altre sono stata cinque o sei anni, poi una decina… Ho avuto soltanto una maternità, altrimenti ho sempre avuto contratti di sei mesi, un anno, tre mesi, otto mesi… Sfortuna mia, perché circa nel 1990 c’è stata una sanatoria per cui se avevi tot anni di servizio passavi da tempo determinato a tempo indeterminato. A me mancava un mese di servizio per entrare. […] Ho anche avuto una vita di sacrifici a livello familiare, perché mia mamma era a casa in carrozzina e quando mi sono iscritta alla scuola poi non ho potuto farla proprio per problemi familiari. Poi, pian piano l’ho fatta, ci sono riuscita e dopo mi sono stabilizzata con l’indeterminato.

[3A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Nel primo caso, siamo di fronte ad una delle rare esperienze, all’interno del campione di persone intervistate, di percorso lavorativo lineare, che dal periodo di studio e formativo procede poi senza soluzione di continuità verso un inquadramento professionale coerente e, soprattutto, che giunge a stabilizzarsi a livello contrattuale nel giro di breve tempo. Una traiettoria che, entro un mercato del lavoro segnato in maniera crescente dall’instabilità, si caratterizza per una sorta di eccezionalità, che traspare infatti dalle parole dell’intervistata stessa, dalla sua consapevolezza di trovarsi in una posizione fuori del comune (“Sì, sono stata fortunata”), a prescindere dalle competenze acquisite con il percorso formativo.

All’estremo opposto si colloca la traiettoria lavorativa successiva – senz’altro assai più comune tra le persone intervistate – che è invece segnata da un lunghissimo periodo di instabilità, sia contrattuale, sia di contesto lavorativo. La seconda vicenda racconta del rimanere letteralmente “intrappolati” in una condizione precaria, in cui gioca un ruolo rilevante anche la questione istituzionale e formativa: l’intervistata rimane prima esclusa da una stabilizzazione, poiché non ha raggiunto un numero di anni di servizio sufficiente per rientrare nei criteri e poi non riesce a frequentare la scuola di formazione, che le consentirebbe il passaggio dalla qualifica di ausiliaria a quella di OSS, con conseguente stabilizzazione.

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Emerge qui con chiarezza come la stabilità o instabilità contrattuale debba essere letta come processo che si dipana nel tempo, condizione risultante da un insieme di fattori, quali appunto la coerenza del percorso formativo, la possibilità di avere accesso a una formazione continua, le problematiche ed esigenze individuali di conciliazione (le difficoltà di iscriversi alla scuola per OSS a causa delle esigenze di cura familiare) e, certamente, le occorrenze e le circostanze “casuali”, vale a dire il punto nel quale i soggetti vengono a trovarsi nel loro transitare nel mercato del lavoro, significativamente restituito dalle due intervistate in termini di fortuna e sfortuna.

I dati raccolti attraverso le interviste non raccontano solo di una diversa vulnerabilità legata alla condizione contrattuale (a lungo temporanea, oppure velocemente stabilizzata): anche i vissuti e le letture soggettive della propria condizione contrattuale divergono, lasciando spazio a interpretazioni differenti tra loro.

Io ho lavorato dal 1995 per undici anni nel settore cura, perché sono un’infermiera professionale, a tempo determinato. Poi mi sono licenziata – perché ho due figlie – e undici anni fa ho iniziato a lavorare nel settore della ristorazione, a tempo determinato: lavoro stagionalmente, faccio tempo scuola da settembre a giugno. Per scelta: nel mio campo potrei essere assunta a tempo indeterminato e lavorare tutto l’anno, ma ho scelto di fare così. […]

È stata assolutamente una scelta. Certo, non faccio il mio lavoro, però sono pagata e sono a casa con le mie figlie. Sono contenta, non è stato un ripiego. L’azienda dove lavoro io punta molto sul fatto di poter conciliare lavoro e famiglia.

[14B_Donna, 37 anni, cameriera di mensa scolastica, Italia]

Mi sono laureata in Lettere, poi degli stage in cose riguardanti relativamente il settore dell'umanistico, in realtà è servito poco o niente, anche in termini di professionalità. […]

Dopodiché ho iniziato a lavorare quasi subito in una scuola privata, come insegnante di materie umanistiche. Nel frattempo ho fatto altri mille lavoretti, comunque ho puntato sempre, al di fuori del fare la cameriera e di altre cose per sopravvivere, a inserirmi nell'insegnamento e a specializzarmi nell'insegnamento di italiano per migranti, oltre a quello per le scuole superiori. Quindi è quello che faccio tutt'ora. Sempre e solo esclusivamente contratti a collaborazione e a progetto, mai nulla di determinato [inteso come lavoro dipendente a termine]. […] D'altra parte è il mondo del lavoro oggi … non è che hai molte alternative. Poi io sono una che cerca di vedere più in positivo che in negativo. […] Nel senso: io voglio svegliarmi felice alla mattina, per cui io decido di rimanere in un settore che è palesemente un settore da suicidio. È chiaro che potrei mollare tutto e fare altro. Ma mi pesa di più rinunciare a una cosa che mi piace e che mi sembra di fare anche bene. Cioè, io sento che quello che faccio mi piace tanto, quindi vorrei portarlo avanti, a discapito di non avere nessun tipo di sicurezze.

[4A_Donna, 42 anni, educatrice minori, Italia]

I due stralci selezionati ben rappresentano la diversità dei percorsi lavorativi possibili, sia in relazione al proprio iter formativo, sia in relazione all’instabilità contrattuale. Le due esperienze, selezionate proprio perché molto diverse fra loro, sono segnate in una certa misura, seppure parziale, da una forma di agency da parte delle lavoratrici. Il primo caso – corre l’obbligo di sottolinearlo, uno dei pochissimi nel complesso del materiale di intervista – ci presenta una scelta lineare e, a quanto pare, priva di conflitti e contraddizioni:

nonostante un percorso formativo di tipo specialistico, l’intervistata decide di cambiare lavoro, dequalificandosi e venendo poi assunta a termine, allo scopo di dedicarsi più intensamente a compiti di cura familiare. Il racconto sottolinea più volte la dimensione della scelta, descrivendo quindi una traiettoria che fa della temporaneità contrattuale una condizione non particolarmente vulnerabile, sia in termini di percezione soggettiva (la soddisfazione per una condizione voluta), sia in termini di garanzie di continuità lavorativa, a prescindere dalla forma contrattuale. L’interruzione estiva è infatti una prassi, nello

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specifico ed esclusivo campo delle mense scolastiche, che permette all’azienda di risparmiare sui costi del personale e alle dipendenti di facilitare le esigenze di conciliazione (come emerso peraltro da altre tre interviste a lavoratrici che si sono infortunate all’interno di tale, specifico ambito).

Diversa e in un certo senso opposta è l’agency che emerge nello stralcio successivo. In questo caso, non è certo la temporaneità del contratto a costituire una scelta, che l’intervistata descrive infatti come imposizione inevitabile (“esclusivamente contratti a collaborazione e a progetto. D'altra parte è il mondo del lavoro oggi … non è che hai molte alternative”). La dimensione di determinazione e volontà attiene invece al tipo di lavoro svolto: l’intervistata “conquista” la propria attuale occupazione attraverso un percorso di studio, formazione e lavoro inizialmente non particolarmente coerente, che va delineandosi e precisandosi nel tempo, come “qualcosa che mi piace e che mi sembra di fare anche bene”, dunque come scelta. È proprio sulla base di tale scelta, dettata dal coinvolgimento, che la traiettoria lavorativa diventa vulnerabile, sospesa in quella che è stata definita come “trappola della passione” (Murgia, 2012): fare il lavoro che piace, per il quale ci si sente portati e che si è pazientemente costruito nel tempo come professione, al prezzo di una costante instabilità (“io voglio svegliarmi felice alla mattina, per cui io decido di rimanere in un settore che è palesemente un settore da suicidio”). A differenza del primo caso, questo secondo è comune a un certo numero di interviste, in particolare concentrate nel settore della cura e dell’assistenza alla persona: tali profili lavorativi sono infatti molto spesso raccontati con le parole della vocazione, della passione, del trasporto, a dispetto di condizioni difficili.

Tuttavia, nel materiale empirico raccolto, la rappresentazione di gran lunga prevalente dell’instabilità contrattuale è, come lecito attendersi, di segno diverso rispetto alle due precedenti e pone l’accento non sull’agency messa in atto dai soggetti, ma proprio sul suo opposto: sull’idea di una condizione subita, che genera ansia e preoccupazione:

Per quanto riguarda il denaro, la sicurezza, l’organizzazione del lavoro eccetera, continuare a cambiare non è così positivo. È logorante, non sai mai se ti rinnovano il contratto, se ti chiamano. […] Ultimamente sono rimasta anche mesi a casa, e poi non hai nemmeno più diritto alla disoccupazione. Io sono rimasta quasi tre mesi scoperta. Se una ha una famiglia con dei figli, pesa. Questo è un danno. Poi per fortuna il lavoro arriva.

[5A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

[La temporaneità contrattuale] ha inciso un po’ per me, perché io da quando avevo diciotto anni che vivo da solo, per cui diciamo che sono fuori da ogni cosa, per cui per me incideva, perché quando hai sulle spalle certe cose – l’affitto di casa, le spese, il prestito della macchina – non è che puoi … Sei sempre lì che pensi “Tre mesi, e poi, cosa mi dice? Due mesi, e poi, cosa faccio? Sei mesi, e poi cosa mi dice?”. Sì, ha inciso sempre un po’ la preoccupazione.

[5B_Uomo, 24 anni, aiuto cuoco, Italia]

I due stralci selezionati, rappresentativi della maggior parte delle esperienze raccolte, pur dando voce ad appartenenze generazionali diverse presentano numerosi aspetti di similarità. Da una parte, l’esperienza di prolungata precarietà di una donna con responsabilità familiari (più precisamente, una famiglia monoparentale con due figlie a carico), dall’altra, quella di un giovane uomo da poco uscito dal nucleo familiare di origine.

Da una parte, dunque, il peso dell’incertezza rispetto alle proprie responsabilità di cura e ad una vita già adulta e, dall’altra, l’impossibilità di programmare un futuro che non vada oltre la scadenza dell’ennesimo contratto a termine. In entrambi i casi, rappresentativi del più ampio corpus empirico, si evidenzia una relazione con il lavoro segnata dall’affaticamento della preoccupazione, che logora l’esistenza (lavorativa e non),

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rendendola progressivamente vulnerabile, disegnando traiettorie lavorative nelle quali ai soggetti rimane ben poco margine di scelta e soggettivazione.

6.2.1 Il lavoro migrante come punto estremo dell’instabilità e della deprofessionalizzazione

Se l’esperienza logorante di una prolungata instabilità contrattuale, con tutti i rischi connessi di deprofessionalizzazione, appare trasversale ai due settori analizzati, così come a diverse fasce di età, essa trova il suo punto estremo nelle interviste alle lavoratrici migranti:

Attualmente svolgo un lavoro di cameriera di sala con un contratto a tempo determinato. Si tratta della professione che ho svolto negli ultimi quindici anni. Io in realtà ho acquisito una qualifica di designer attraverso la scuola, però non lavoro più in quell’ambito. Risiedo qui da circa undici anni e ho sempre fatto questo tipo di lavoro: la cameriera. A volte mi è capitato anche di svolgere lavori di pulizia all’interno delle camere. Perché in albergo funziona così:

se manca qualcuno può essere sostituito anche da persone che non svolgono esattamente la sua mansione specifica. Mi è capitato anche, a volte, di lavare i piatti, anche se non è il mio lavoro.

[9B_Donna, 38 anni, cameriera di sala, Croazia]

Ho il diploma in Dattilografia e una laurea in Scienze motorie. Nel 2000 sono venuta in Italia e ho cominciato a fare la barista e la cameriera di sala in un ristorante-pizzeria. Sempre contratti stagionali. Siamo partiti da Padova, e anche lì ho lavorato, poi siamo finiti qua. A Padova ho lavorato metà giornata in un bar e metà giornata lavoravo a domicilio, facendo assistenza a una signora anziana che era sempre a letto. Io dovrei fare lavoro d’ufficio, ma ho cominciato a fare tutt’altro lavoro, tutta un’altra esperienza e quindi bar, sala …

[6B_Donna, 48 anni, cameriera di sala, Moldavia]

La maggioranza o, per meglio dire, la quasi totalità delle esperienze raccolte entro tale categoria del campione, è segnata da una dequalificazione di partenza: le lavoratrici migranti giungono in Italia e trovano occupazioni del tutto lontane dal precedente percorso formativo e lavorativo, spesso anche altamente qualificato e/o specializzato. L’avvio della traiettoria lavorativa è dunque già segnato dalla vulnerabilità, dovuta alla condizione di

“straniere”, che determina un posizionamento in partenza marginale all’interno del mercato del lavoro.

Tale dinamica, trasversale ai due settori in esame e alle diverse occupazioni, risulta tuttavia particolarmente evidente e netta nel caso delle assistenti familiari intervistate.

Lavoravo in un’agenzia statale per il commercio, facevo l’economista. Ho fatto le scuole superiori, poi ho frequentato l’università per quattro anni ma, per motivi familiari, non ho terminato gli studi. […] Mia figlia ha cominciato a studiare all’università e non ho avuto altra scelta se non quella di andare a lavorare per pagarle gli studi, perché da noi l’università è a pagamento per tutti. […] Prima sono arrivata a Roma e sono stata lì, poi qualcuno mi ha consigliato di venire a Trento, ho trovato un lavoro e sono sempre rimasta qui. Ho sempre lavorato come assistente agli anziani.

[18A_Donna, 54 anni, assistente familiare, Moldavia]

Le assistenti familiari intervistate, nella totalità dei casi, descrivono percorsi migratori che

Le assistenti familiari intervistate, nella totalità dei casi, descrivono percorsi migratori che

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