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Alla fine della storia: esiti individuali delle traiettorie post-infortunistiche

Dopo l’infortunio: le traiettorie individuali, tra attori istituzionali, organizzazioni e mercato del lavoro

8.4 Alla fine della storia: esiti individuali delle traiettorie post-infortunistiche

Siamo giunti quasi al termine del nostro percorso di disamina e ricostruzione delle traiettorie di gestione post-infortunistica. È ora il momento di cambiare nuovamente livello di analisi: dopo esserci focalizzati sull’interazione tra individui e attori istituzionali e tra

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individui e contesti di lavoro, torniamo ora a soffermarci sulle traiettorie di singoli/e lavoratori/trici. Tale restringimento del focus è indispensabile per portare a compimento il nostro proposito iniziale, vale a dire il superamento di un approccio all’analisi dell’infortunio inteso come evento circoscritto, in favore di un’ottica di traiettoria e processo. A tale scopo, infatti, dopo aver ricostruito i diversi posizionamenti sul continuum centralità/marginalità di lavoratori/trici prima dell’infortunio (cap. 6), è necessario guardare a come tali posizionamenti si riconfigurino dopo l’evento.

A questo punto, dunque, non resta che esaminare se − ed eventualmente in quali modi − l’episodio di infortunio possa costituire un turning point (Davies e Harré, 1990), un punto di snodo dirimente entro i percorsi lavorativi e biografici degli/lle intervistati/e.

La prima delle tre categorie emergenti dall’analisi della parte finale delle traiettorie infortunistiche e lavorative è relativa agli/lle infortunati/ e che potremmo definire stabili:

coloro che, a seguito dell’infortunio, non vedono intercorrere nelle proprie traiettorie mutamenti di particolare rilievo:

Sono stata via, non mi ricordo bene, circa 3 mesi. Poi sono rientrata e tutto come al solito.

[…] Dopo di allora, curandomi bene, non ho mai più sofferto. Anche perché mi hanno insegnato le posture corrette da tenere. Poi noi abbiamo i corsi annuali dove ti insegnano i vari movimenti per potersi muovere in maniera adeguata. E se tu capisci che il movimento corretto è indispensabile per la tua salute, poi lo metti in pratica quasi automaticamente. Tu lavori e ti viene spontaneo.

[5A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

Sì, io lavoro sempre per la stessa ditta. […] Siccome io sono responsabile della mensa, della scuola, qui a ***, per cui poi sono tornata nel mio posto di lavoro. […] Ma io l'ho vissuta… era talmente stupida la faccenda che io non me ne sono neanche resa conto subito! E poi, no, non è cambiato niente. Non ho paura di lavorare, no, no, assolutamente.

[10B_Donna, 52 anni, cuoca di mensa scolastica, Italia]

Le parole delle intervistate ben esemplificano la tipologia delle traiettorie stabili (spesso legate a infortuni di non particolare gravità): a seguito del percorso di indennizzo e cura, il rientro al lavoro risulta complessivamente improntato a una serena ripresa delle proprie attività abituali, senza che intercorrano mutamenti di sorta: né ritorsioni, né tensioni tra colleghi/e, né strascichi di tipo fisico o emotivo. L’evento infortunistico, che giunge a spezzare la routine lavorativa quotidiana, non rappresenta quindi, in questo caso, un punto di snodo rilevante.

La stabilità, occorre tuttavia precisare, non annulla le differenze preesistenti tra lavoratrici/tori e i due stralci qui selezionati sono in questo senso rappresentativi. Nel primo caso, siamo di fronte ad una lavoratrice assunta “volontariamente” a termine, nel settore delle mense scolastiche: settore che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, impiega quasi esclusivamente manodopera femminile, che richiede di non essere impiegata nei mesi estivi, solitamente per esigenze di conciliazione famiglia-lavoro22. Nel secondo caso, siamo di fronte ad una lavoratrice a termine di lunghissimo corso nel settore delle RSA, mai rientrata in alcuna forma di stabilizzazione, che torna anch’essa alla propria, diversa e precaria routine.

Ancora una volta, inoltre, corre l’obbligo di rilevare come la stabilità delle traiettorie si associ ai due contesti lavorativi che abbiamo già segnalato come tendenzialmente virtuosi

22Rispetto alla volontarietà degli impieghi part-time o a tempo determinato in tale settore, cui molte delle intervistate si indirizzano per esigenze di conciliazione famiglia-lavoro, corre l’obbligo di fare riferimento, a margine della trattazione, alla questione della segregazione orizzontale di genere nel mercato del lavoro, legata ad una serie di stereotipi e assunti culturali che indirizzano diversamente i percorsi lavorativi e la distribuzione dei carichi di cura tra uomini e donne.

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e istituzionalmente meglio permeabili – per l’appunto le mense scolastiche e le RSA pubbliche. Si conferma dunque la bontà di una lettura processuale delle traiettorie lavorative e infortunistiche, che riesce a intrecciare felicemente livelli di analisi differenti, quali appunto quello micro dei percorsi individuali, quello meso del contesto organizzativo e quello macro delle istituzioni.

Una seconda categoria nelle traiettorie finali è relativa a coloro che, a seguito dell’infortunio, si spostano addirittura dal margine verso il centro del nostro continuum analitico:

Dopo l’infortunio ho cambiato. Sono andata via, anche perché loro sicuramente non potevano aspettare me, avevano bisogno del personale. Appena sono guarita sono andata in un altro albergo e lì sono rimasta fino a dicembre. Probabilmente in inverno sarei potuta tornare, ma avevo già trovato e non ho neanche più pensato di tornarci. Non mi è mancato, comunque, anche perché mi sono trovata benissimo dove sono andata. Mi trovavo meglio, sicuramente, dal punto di vista dei datori di lavoro: più rispettosi, tutta un’altra cosa.

[7B_Donna, 56 anni, cameriera ai piani, Italia]

Comunque sono stati abbastanza comprensivi, giustamente insomma. E niente, io sono stata sostituita dopo alcune settimane da un’educatrice di sostegno, insomma da un altro operatore e per quanto riguarda l’amministrazione, nel senso dei rapporti con l’ufficio, io ho semplicemente comunicato tutti i miei certificati, le mie cose. […] Poi la sostituzione su cui ero stata assunta [un’educatrice in maternità] si è trasformata in un trasferimento per la ragazza e quindi io ho preso ufficialmente il suo posto e addirittura da tempo determinato sono passata a tempo indeterminato.

[6A_Donna, 31 anni, educatrice disabili]

Si tratta di un esito che può apparire paradossale e che tuttavia emerge dall’analisi del materiale empirico, sebbene in un numero circoscritto di casi. Le traiettorie di miglioramento del proprio posizionamento sono duplici. L’episodio di infortunio può infatti rappresentare un turning point, come ad esempio nel primo dei due stralci selezionati:

esso concorre a destabilizzare ulteriormente un clima e dei rapporti lavorativi poco soddisfacenti, sfociando in una interruzione del rapporto di lavoro. La fine del rapporto di lavoro, tuttavia, non genera una traiettoria di marginalizzazione, bensì di spostamento verso il centro del continuum, giacché conduce a trovare una occupazione più soddisfacente, sotto vari punti di vista (sicurezza, orari, retribuzione, clima organizzativo o, più raramente, inquadramento contrattuale). Nel secondo caso, al contrario, l’infortunio in sé non costituisce un punto di snodo e appare invece ininfluente nel complessivo percorso di carriera. Tuttavia, a differenza delle traiettorie stabili, in questo caso siamo di fronte ad un’organizzazione che non solo gestisce correttamente l’episodio e il rientro, ma che valorizza la propria dipendente con un’assunzione a tempo indeterminato. Ancora una volta, si conferma lo stretto legame tra una cultura improntata al rispetto e alla tutela della salute e sicurezza dei propri dipendenti e una più generale cultura della qualità del lavoro (in questo specifico caso, relativa alle politiche di reclutamento e carriera).

Infine, la terza e purtroppo più nutrita categoria emersa dall’analisi individua percorsi di progressiva marginalizzazione dei lavoratori/trici a seguito dell’infortunio:

No, ho avuto problemi. Non posso più fare la cameriera, se devo tenere il piatto così tremo.

[…] Non potrei più fare la cameriera. Per questo ho fatto tutti quei corsi a Trento, per reinserirmi in qualche posto di lavoro. Ma adesso non trovo niente, da un anno è cambiato da così a così. Siccome stiamo stagionali, se il datore di lavoro vede che sei sempre in malattia ti dice di stare a casa. […] Infatti non sono più tornata a lavorare perché non mi hanno più presa, è questo il problema. Ma non è solo quel posto: in tutti i posti. Tu non devi ammalarti e non devi farti male. […] Da allora non ho più trovato lavoro. Sono stata due anni sotto l’INAIL,

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ho fatto corsi di formazione a Trento e sono un’ora e quaranta ad andare e un’ora e quaranta a tornare, quindi fuori casa dalle 07.00 alle 19.00 per farmi otto ore di lezione. Se questa è vita….

[6B_Donna, 48 anni, cameriera di sala, Moldavia]

È stata tutta una catena, che alla fine anche i medici non capivano più niente...[...] sono stata curata con un sacco di robe, ero sempre da un ospedale all'altro. È stata una catena, praticamente, dalla frattura agli interventi che ho avuto. Una dietro all'altra. […] Mi hanno passato il 46% di invalidità per tutti i miei problemi. […] Poi ci sarebbero le fasce protette ed entrare in queste fasce permetterebbe un lavoro più leggero. È solo quello che mi interesserebbe.

[2B_Donna, 56 anni, barista, Italia]

[Dopo l’infortunio] Mi hanno lasciato a casa. Da lì in poi non mi hanno più chiamato, neanche per un ruolo minore. Dopo 33 anni. Sono andato all’INPS e mi hanno dato l’invalidità rivedibile. Adesso me l’hanno tolta senza fare visite e ho fatto ricorso. Mi sono ritrovato senza neanche un grado di invalidità, perciò il lavoro che faccio per la cooperativa mi salta. Ho fatto ricorso e stiamo aspettando.

[15B_Uomo, 61 anni, chef de cuisine, Italia]

I casi di marginalizzazione, più frequenti nel settore turistico, alberghiero e della ristorazione, raccontano di traiettorie declinanti, in cui a seguito dell’infortunio non solo si perde il precedente lavoro, ma soprattutto si sviluppano difficoltà crescenti (e schiaccianti) nel ritrovare un’occupazione stabile. A tale proposito, si conferma in primo luogo il carattere composito e diramato del danno infortunistico, che continua a manifestare i propri effetti nel tempo, in taluni casi anche in maniera permanente. Si tratta di individui il cui recupero fisico appare tutt’altro che pieno ed ottimale e che, pertanto, non sono più nelle condizioni di poter svolgere la propria occupazione precedente, o quantomeno non agli stessi ritmi e nelle stesse condizioni usuranti. Va inoltre rilevato come questa categoria di lavoratrici/tori sia spesso coincidente con quella che incappa in traiettorie di cura

“tortuose”: una gestione problematica del percorso di recupero fisico che si lega alla ripresa della traiettoria lavorativa. Ciò conferma ulteriormente la proficuità analitica di un approccio processuale allo studio della salute e della sicurezza lavorativa, che consente di mostrare l’intreccio e la reciproca influenza di varie dimensioni che, nel loro effetto combinato, concorrono a differenziare i percorsi individuali.

Infine, appare opportuno mettere in evidenza la dimensione intersezionale che anima anche i percorsi di marginalizzazione, in questo caso molto frequentemente connessi alla questione dell’età: visto il carattere spesso “diramato” nel tempo degli infortuni, e/o la loro collocazione entro una più ampia “carriera infortunistica”, appare chiaro come il carattere incrementale del rischio e della vulnerabilità (fisica e sul mercato del lavoro), sia connessa strettamente all’avanzare dell’età, che rende sempre più complesso imporre al proprio corpo una performance resiliente. Per questa categoria di lavoratori/trici, le maglie del mercato del lavoro si fanno sempre più strette, tanto da rendere necessario, allo stato attuale, l’intervento di politiche di reinserimento lavorativo, rispetto alle quali può tuttavia venirsi a creare una situazione di dipendenza e incertezza costante.

L’ultima sfaccettatura di marginalizzazione che vorremmo qui evidenziare attiene infine a una dimensione emotiva e intima:

Dopo ho fatto le pulizie, ho fatto la colf. Adesso sto cercando. Anche adesso ho un contratto, ma è solo da 15 ore. […] Quando fa freddo sento ancora male, malissimo [al dito, a seguito della perdita di una falange, dovuta a un taglio mal curato]. Devo mettere i guanti. Sento qualcosa qui, perché manca un pezzo, sento che c’è qualcosa di diverso. […] È cambiato tutto. Volevo anche andare da uno psicologo, poi non ci sono più andata. Quando tutti i giorni

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vedi una mano, un dito che non è normale… Ci sono persone che ti chiedono il perché, a volte dici la verità, mentre altre volte dici di esserti fatta male da piccola. […] Non posso mettermi lo smalto sulle unghie, non posso tenere bene una forchetta. Adesso io non sono sposata né fidanzata, a volte quando sono con un uomo tengo la mano chiusa.

[20B_Donna, 34 anni, aiuto cuoca, Marocco]

Questa cosa ha cominciato a corrodermi lo stomaco, perché l’amarezza si è accumulata.

Adesso faccio tutti questi controlli, mi dicono che è tutto a posto ma io non sto bene. Ed è causato da tutte queste cose, che si accumulano. […] Con il tempo e con gli anni certo, ci sono amiche che sono sfinite, dopo dodici anni e io sono la prima a dire: “Staccatevi, perché finirete male!”. Nel nostro Paese, l’ospedale psichiatrico è pieno di donne che hanno lavorato in Italia. Sono fuori di testa, finiscono lì. Ho parlato con donne che sono state ricoverate in neurologia per quattro, sei mesi: vomitavano, stavano male. Da lì, hanno parlato della sindrome d’Italia.

[16A_Donna, 43 anni, assistente familiare, Moldavia]

Alcune delle traiettorie di marginalizzazione appaiono segnate non soltanto da un incremento della vulnerabilità lavorativa, dallo scivolamento verso segmenti del mercato più esposti alla dequalificazione e/o alla precarietà, ma anche da una condizione di sofferenza, disagio emotivo e stress. In taluni casi (si veda il primo dei due stralci), un episodio di infortunio particolarmente traumatico – per le sue conseguenze, ma anche per il complicatissimo percorso di gestione con il datore di lavoro − lascia segni indelebili, tanto a livello fisico, quanto a livello mentale, rendendo ulteriormente difficile risollevarsi dalla vicenda. In altri, l’insieme della traiettoria lavorativa, comprensiva di uno o più episodi di infortunio, lascia i soggetti spossati e consumati dal lavoro, in una condizione di burn out che è tipica, non a caso, proprio del settore di assistenza e cura alla persona. È la

“sindrome d’Italia”, citata con etichette differenti da tutte le assistenti familiari intervistate, che si confermano il punto estremo di vulnerabilità anche nell’esame della traiettoria post-infortunistica. Si tratta infatti di lavoratrici che pagano il prezzo più alto sul mercato del lavoro, giacché agli eventi di infortunio si sommano per loro condizioni lavorative quasi sempre estremamente vulnerabili: la ricattabilità legata al percorso migratorio; la fatica dello sradicamento e dell’inserimento in un nuovo ambiente; la complessità emotiva del lavoro di cura in un contesto domestico, spesso affettivamente vischioso e difficilmente permeabile a norme e tutele, che lascia svuotate e in una condizione di fragilità. Come già rilevato al termine del sesto capitolo, la questione qui è: quando le “curatrici” si “rompono”, chi se ne prende cura?

Capitolo 9

Come favorire una formazione “adeguata” nell’attuale contesto

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