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Gli “ultimi arrivati”: carriere vulnerabili, carriere ricattabili

Prima dell’infortunio: un'analisi processuale della costruzione del rischio

6.3 Gli “ultimi arrivati”: carriere vulnerabili, carriere ricattabili

La vulnerabilità della carriera lavorativa non si genera soltanto per via della dequalificazione e dell’instabilità contrattuale, ma anche a causa delle condizioni di lavoro esperite all’interno delle varie – e spesso numerose – organizzazioni attraversate.

Naturalmente, questo secondo aspetto non è slegato dalla tipologia contrattuale, né tantomeno dal livello professionale, anzi, le tre dimensioni risultano inestricabilmente intrecciate, tant’è che a condizioni di lavoro contrattualmente instabili e professionalmente dequalificate corrisponde solitamente una bassa qualità del lavoro, quando non addirittura situazioni di abuso. Come per il paragrafo precedente, allo scopo di mettere in luce i differenziali di potere tra lavoratori/trici, la diversa collocazione entro un continuum di marginalità/centralità nel mercato del lavoro, così come, di conseguenza, il differente grado di vulnerabilità, si è scelto di dare conto in primo luogo di esperienze positive, nelle quali i lavoratori hanno un buon margine di scelta circa ciò che è da ritenersi accettabile o meno, in termini di qualità della vita lavorativa:

Alla gastronomia ho lavorato un anno perché poi mi sono stufato dell’ambiente, anche il loro comportamento mi ha portato all’esasperazione e mi ha portato ad andarmene. Il lavoro era anche molto monotono e professionalmente stavo perdendo tutto quello che sapevo fare.

[8B_Uomo, 43 anni, cuoco, Italia]

Se l'ambiente non è sicuro, io ho la fortuna di avere molte possibilità, quindi se non sono a destra sono a sinistra. Quando vedo che la gente vuole venirmi incontro su determinate carenze che hanno proseguo, altrimenti io mi fermo. […] Me ne sono andato via anche dopo un giorno! Proprio perché la situazione non la trovavo corretta. La situazione la vedi subito:

magari in gioventù quando avevi più bisogno di lavorare … adesso sono più sereno sul lato personale.

[3B_Uomo, 39 anni, chef de cuisine, Italia]

I due estratti di intervista provengono entrambi dal settore del turismo, ristorazione e alberghiero, poiché in quello dell’assistenza e cura alla persona non è stata riscontrata nemmeno un’esperienza analogamente positiva, vale a dire caratterizzata così nettamente dalla possibilità di “dire no”, rifiutando condizioni di lavoro ritenute non accettabili. Nel caso di questo solo settore, è possibile rintracciare un numero (esiguo) di racconti incentrati sulla possibilità e libertà di scelta, percorsi lavorativi nei quali le persone hanno avuto la facoltà di opporsi a condizioni insoddisfacenti in termini professionali (“Il lavoro era monotono e professionalmente stavo perdendo tutto quello che sapevo fare”), di clima lavorativo (“Il loro comportamento mi ha portato all’esasperazione e ad andarmene”), così come di sicurezza ambientale e di lavoro (“Se l'ambiente non è sicuro, ho la fortuna di avere molte possibilità”). In entrambi i casi qui proposti, non certo per caso, si tratta di figure altamente professionalizzate (due chef), che hanno quindi la possibilità di far valere

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le proprie competenze, sia nei confronti del datore di lavoro, sia nel costruire traiettorie professionali soddisfacenti. Inoltre, vi è un fattore generazionale che probabilmente incide sulle possibilità di scelta: come avremo modo di vedere a breve, per i cuochi più giovani le regole del mercato sono ormai irrimediabilmente cambiate, nel segno di un potere di negoziazione nettamente diminuito.

A differenza delle due esperienze ora presentate, la maggior parte dei percorsi lavorativi che precedono l’infortunio è invece caratterizzata da una dimensione trasversale e pervasiva di ricattabilità, che forza ad accettare situazioni e condizioni spesso anche molto svantaggiose, nella consapevolezza, non di rado venata di amarezza, di non avere grande margine di scelta, proprio a causa della situazione di vulnerabilità in cui si versa:

I contratti sono quasi sempre stati part-time, il primo contratto a tempo pieno è stato proprio nell’albergo in cui mi sono infortunata. E sempre con contratti a tempo determinato, sempre.

Lavori stagionali. Qui anche con i titoli di studio si ha difficoltà a trovare posti di lavoro fissi.

Qui da noi con lo sviluppo del settore alberghiero la concezione di tempo indeterminato è talmente utopica che non ci facciamo caso più di tanto. È un lavoro stagionale, ti devi adattare a quello che ti propongono e sperare che ti richiamino o di trovare per l’anno dopo.

[7B_Donna, 56 anni, cameriera ai piani, Italia]

Mi hanno stabilizzato quattro anni fa, ho fatto tanti anni di precariato. Tanti… Sono stata fortunata, però, perché mi chiamavano sempre nelle varie case di riposo […] Sono venticinque anni che lavoro in questo servizio, perché io ho sempre accettato tutto, ho sempre fatto da tappabuchi, stavo anche mesi e mesi senza andare in ferie all’epoca. Sai, sei l’ultima arrivata …

[3A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

I racconti presentati, rappresentativi del materiale empirico nel suo insieme, chiamano in causa entrambi un elemento ricorrente e tipico della ricattabilità lavorativa, vale a dire il dover fare mostra di una disponibilità a oltranza, quindi, in altre parole, vedersi privati della possibilità di opporre un rifiuto a richieste e standard lavorativi penalizzanti: condizioni di palese svantaggio economico (“ma prendi pochissimo. Lo fai solo per mantenere il lavoro”) e/o lavorativo (fare da “tappabuchi”, stare mesi senza ferie). Chi transita nel mercato del lavoro entro traiettorie precarie si trova dunque a essere, spesso prolungatamente,

“l’ultimo arrivato”: colui/colei che nel contesto organizzativo in cui è inserito non può “dire di no”, mosso dalla necessità prioritaria di conservare il posto di lavoro, che fa passare in secondo piano il resto, alimentando per l’appunto il circolo vizioso del ricatto e della vulnerabilità.

La ricattabilità si presenta come una dinamica pervasiva, che dalle condizioni lavorative più ampiamente intese giunge a influenzare anche il più specifico tema qui di interesse, vale a dire la salute e la sicurezza. Già prima di sperimentare l’iter infortunistico ufficiale o di incorrere in infortuni di una certa gravità, infatti, i/le lavoratori/trici raccontano di aver esperito, nel corso dell’esperienza lavorativa pregressa, il senso della vulnerabilità fisica, della messa a rischio di salute e benessere, legato proprio al timore di perdere il lavoro.

Secondo me siamo ancora radicati al discorso tempo determinato: quindi non dicono niente, vengono magari con un po' di influenza... È una cosa che ho vissuto anch'io sulla mia pelle:

avevo appena iniziato, ho avuto una bronchite e me la sono tirata avanti, come si fa sempre, per la paura che dicano “Questa inizia già a mandarci malattia”. […] Quando si è a tempo determinato si dice “No, no, tutto a posto” e si va a lavorare.

[2A_Donna, 45 anni, assistente educatrice disabili, Italia]

Diciamo che nel mondo della cucina i piccoli infortuni capitano. Taglio, piuttosto che bruciatura, molte volte sono di lieve entità, già anche il piccolo taglio … a me è capitato di

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fare un bel taglio all'unghia… Avrei potuto con l'occasione chiedere di andare in infortunio, se vai al pronto soccorso e fai partire l'iter. Data la situazione [piena stagione estiva] mi sono armato di cerotti e ho continuato a lavorare, anche per non intasare il lavoro di altre persone.

[…] E comunque in questo mondo lavorativo non viene detto esplicitamente, però se tu hai un dipendente che ad ogni taglietto va a casa… insomma ti guardi bene magari a rinnovare il contratto ad una persona ... no? Questo capita in ogni ambiente lavorativo.

[16B_Uomo, 32 anni, cuoco, Italia]

Come avremo modo di approfondire in seguito, in particolare nel capitolo in cui verranno ripercorse le carriere post-infortunistiche (cap. 8), il corpo, le sue esigenze, i tempi della guarigione passano del tutto in secondo piano rispetto alla necessità di conquistare o mantenere la fiducia da parte del datore di lavoro, allontanando da sé il sospetto di essere dei dipendenti che causeranno problemi (“per la paura che dicano “Questa inizia già a mandarci malattia””). Una forma di fiducia che si conquista per l’appunto dimostrando una disponibilità a oltranza, mostrando di saper mettere il lavoro prima di ogni altra esigenza. Il secondo stralcio, che racconta l’esperienza di un giovane cuoco, evidenzia in primo luogo, come anticipato in apertura di paragrafo, l'abbassamento della qualità del lavoro nel settore di rifermento. Inoltre, si anticipa qui un aspetto rilevante, che avremo modo di discutere nel capitolo successivo e che caratterizza fortemente il lavoro stagionale nel settore alberghiero, turistico e della ristorazione (in modo particolare ma non esclusivo il lavoro in cucina): la pressione dei ritmi stagionali, il senso di responsabilità del non

“intasare il lavoro di altre persone”, mettendo quindi da parte i propri problemi di salute.

Soprattutto, nel racconto echeggia una sorta di velata minaccia, quella del non vedersi più richiamati per la stagione successiva. Si tratta di un rischio rispetto al quale l’intervistato non sembra avere posizioni particolarmente critiche e che sembra invece in una certa misura “comprendere”, a dimostrazione di come i mutamenti strutturali occorsi nel mercato del lavoro influenzino la stessa cultura professionale di lavoratori/trici, a dispetto dei loro stessi interessi. Tale mutamento culturale si lega d’altra parte anche a una questione generazionale, vale a dire, come sottolineato in apertura di paragrafo, all’avere o meno avuto la possibilità di esperire forme di protezione e “regole del gioco” diverse nel mercato del lavoro.

Infine, intrecciata e sommata alla questione della ricattabilità della propria condizione lavorativa (contrattuale e di carriera più ampiamente intesa), dal corpus di interviste emerge con frequenza un altro tipo di narrazione condivisa, relativa all’attuale, prolungata fase di crisi economica:

Oggi ormai accettano qualsiasi tipo di lavoro. Siamo arrivati in un periodo... pur di aver lo stipendio le persone vanno anche nei posti di lavoro dove esiste del rischio, lo fanno comunque, perché siamo arrivati che accetti qualsiasi cosa, il rischio non lo vedi neanche. Il maggiore che vedi è che mancano i soldi a fine mese, nel senso che non riesci a portare avanti la famiglia. E credo proprio che sono solo le ditte che devono mettere in ordine ‘ste cose. Perché uno che è senza lavoro... non guarda se c'è il pericolo. Guarda solo di mangiare il giorno dopo. Stiamo andando indietro invece che avanti.

[2B_Donna, 56 anni, barista, Italia]

Hanno tutti paura di perdere il posto e quindi non dicono niente. Anche perché adesso il rischio, appunto, siamo in una fase italiana assolutamente incerta sui posti di lavoro e si fa così, per non mettere a rischio il posto. […] Adesso che c’è crisi devi cercare di non creare problemi al lavoro.

[5A_Donna, 47 anni, ausiliaria assistenza anziani, Italia]

I cenni alla difficile contingenza economica degli ultimi anni fanno prevalentemente riferimento all’ulteriore riduzione della possibilità di negoziare e rivendicare diritti e tutele,

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sia per quanto concerne la salute e la sicurezza, sia, più in generale, le condizioni di lavoro. La crisi come una sorta di “effetto di rinforzo”, elemento di vulnerabilità aggiuntiva, che si salda e si somma a un più lungo processo di erosione di diritti, contribuendo a polarizzare ulteriormente il mercato del lavoro e ad acuire la vulnerabilità di lavoratori/trici già precedentemente collocati in posizione di marginalità al suo interno.

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