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Contratti di lavoro temporaneo e rischio di infortunio

4.1 Infortuni, salute e lavoro precario

L’attenzione verso la relazione tra salute e lavoro è stata spesso limitata agli effetti del lavoro in termini di rischio di infortunio, e si allarga semmai – specie in anni più recenti – a quello di contrarre malattie professionali. In realtà, i determinanti della salute che hanno una connessione con il lavoro vanno al di là di quelli legati alle dirette cause di infortunio e vi contribuiscono in maniere sia dirette che, soprattutto, indirette.

Il lavoro, attraverso diverse vie, è uno degli aspetti di maggior rilievo per quanto concerne le diseguaglianze di salute, ben oltre a quelli legati agli esiti di infortunio, sia in termini di promozione della salute, sia di interferenza (Vahtera et al., 1999; Quinlan et al., 2001;

Costa e D’Errico, 2006). Il lavoro stipendiato ha effetti benefici per vari aspetti, essendo un determinante primario della posizione socio-economica dell’adulto e dello sviluppo della identità e dell’autostima.

La letteratura scientifica si è frequentemente dedicata, giustamente, all’analisi degli effetti del lavoro – anche di quello precario – in termini di rischio infortunistico, meno in termini di effetti generali sulla salute. Per quanto si discuta ancora sulla validità e sulla confrontabilità degli indicatori del rischio di infortunio – per come sono disponibili nei vari Paesi − questi costituiscono ancora gli strumenti principali e più consolidati per misurare la salute sul lavoro. Paradossalmente, quindi, misuriamo ancora la salute attraverso indicatori che ne indicano la “perdita” e la misurazione avviene su un versante limitato, quello della “lesione all’integrità fisica”, mentre (o perché) siamo meno attrezzati a misurare la qualità dei vari aspetti della salute sul lavoro, concepita – nella sua definizione universalmente accettata – in qualità di complessivo benessere psicofisico e sociale delle persone al lavoro. Questo porta, frequentemente, a descrivere le condizioni di rischio lavorativo unicamente come rischio infortunistico, trascurando invece l’ampio spettro di determinanti lavorativi che direttamente o indirettamente influiscono sulla salute delle persone.

Il fenomeno del lavoro precario e a tempo non è nuovo ma rappresenta un ritorno a forme che esistevano, sebbene in termini formali ben diversi, nei Paesi avanzati nel XIX e all’inizio del XX secolo. Occorre infatti considerare che storicamente il lavoro a tempo pieno e stabile è stato fino ad un certo momento un fenomeno comunque marginale e che nel mondo “non industrializzato” rappresenta tuttora una modalità rara. È nella seconda metà del secolo scorso che il lavoro “fisso” viene a costituire nei nostri Paesi lo standard, in quanto a diffusione e come obiettivo ideale: non lo era prima e lo è sempre meno dopo . Il lavoro stabile, dunque, diventa un modello prevalente in epoca di sviluppo economico, a partire dal secondo dopoguerra e in una parte del mondo, ma in precedenza le forme di occupazione temporanee o precarie erano in ogni caso diffuse, anche se non venivano definite come al giorno d’oggi. Il “mito” del posto fisso si radica in quegli anni, non a caso, anche nel nostro Paese. Al contrario, negli ultimi due decenni si è assistito, spesso con la motivazione ufficiale di favorire una maggiore occupazione, ad una espansione di contratti

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flessibili di vario genere, che hanno accompagnato il progressivo declino dei rapporti di lavoro “standard” (a tempo pieno, a tempo indeterminato).

Gli effetti avversi del lavoro precario sono analizzati in maniera estesa sia in documenti governativi, sia in articoli scientifici e la letteratura scientifica indica che la crescita di incertezza di occupazione e la diffusione di forme di impiego precarie negli ultimi decenni hanno avuto – nel complesso – conseguenze negative per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro (Virtanen, 2005; Ferrie et al., 2008; Cheng e Chan, 2008; La Montagne, 2010; Smith et al., 2010; Scott-Marshall e Tompa, 2011; Virtanen et al., 2011; Tsurugano et al., 2012).

Quando parliamo di contratti di lavoro instabili che possono influire sulla salute dei lavoratori, occorre tenere presente che la definizione di lavoro “precario” subisce sensibili variazioni da Paese a Paese e anche nei diversi studi. Se la condizione più comunemente trattata è quella del lavoro con contratti di tipo “interinale” e a tempo determinato, le categorie rappresentate sono comunque molto differenti e ampie. Peraltro, negli ultimi anni, le tipologie di contratti di lavoro si sono avvicendate e diversificate notevolmente:

anche tale, frequente modificazione normativa nei contratti, oltre ad aver condizionato la diffusione delle nuove modalità di lavoro (spesso non solo nominalmente differenti), ha contribuito a rendere più complessa l’analisi degli effetti. Occorre anche considerare che i confini tra lavoro “fisso” e lavoro “atipico” si sono fatti via via meno precisi, dal momento che nell’analisi devono esser ricomprese fattispecie di rapporti di lavoro anche molto diverse: ad esempio, indubbiamente talune forme “improprie” di lavoro autonomo creano condizioni lavorative non molto distanti da quello precario (Virtanen et al., 2011). Anche gli effetti che si riscontrano tra determinate tipologie di lavoratori dipendenti “non standard”

talvolta si sovrappongono: ad esempio, tra coloro che si classificano come autonomi, la frequenza di alcuni disturbi riportati in alcune indagini è talvolta più elevata rispetto a quella di altre categorie di lavoratori, anche se non si accompagna (comprensibilmente) ad assenteismo e a malattia. In questi studi, i lavoratori autonomi spesso riportano sintomi con frequenza analoga a quella dei precari (ad esempio, lo stress).

Inoltre, come accennato, la definizione di lavoro precario non è univoca: con essa si intende, in genere, una forma di impiego che presenta instabilità, bassi salari, sistemi di protezione deboli e un limitato controllo dei lavoratori sui processi di lavoro o una combinazione tra tali dimensioni. Ma nel corso degli anni e in diverse realtà nazionali si sono verificati cambiamenti che hanno reso alcune forme di lavoro talvolta non direttamente paragonabili. I dati devono essere confrontati con una certa attenzione tra Paesi diversi, in quanto i contratti – benché tendano a riprodursi con diverse analogie – risultano spesso differenti in varie loro ripercussioni sociali e di tutela.

Nonostante l’erosione dei rapporti di lavoro standard riguardi tutti i lavoratori, sono soprattutto le donne, i giovani, i lavoratori meno qualificati, le minoranze, gli immigrati e i disoccupati da lungo tempo che portano il maggiore carico dell’impiego precario. Vi è una Gli effetti della disoccupazione sulla salute sono solidamente comprovati − e gli studi precoci sulla crisi degli anni recenti arricchiscono di nuove evidenze, talvolta anche drammatiche (Kentikelenis et al., 2011; ECDC, 2013) − ma gli indicatori e gli strumenti per misurare gli effetti legati al lavoro precario non sono altrettanto appropriati e precisi. La disoccupazione rappresenta la fonte di maggiore influenza sulla salute: in relazione a tale dato le politiche del lavoro hanno tentato, con esiti variabili, di contrastare la diffusione della inoccupazione, attraverso l’introduzione di forme più flessibili e variabili di lavoro, evidenziando peraltro come anche tali nuove forme di lavoro abbiano comportato e comportino conseguenze legate alla instabilità, alla minore protezione ecc.

È inoltre da osservare che la soglia tra disoccupazione e occupazione si fa via via meno netta e come sia distribuita tra varie forme di lavoro atipico con gradi molto variabili di precarietà e instabilità. Ciò rende conto anche del fatto che le differenze che si rilevano tra

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queste forme nuove di impiego non siano “dicotomiche”, ma assumano al contrario aspetti di gradualità e sovrapposizione. Per tali ragioni, forse, indagini che si basano su categorizzazioni eccessivamente separate possono condurre a risultati contrastanti (Virtanen et al., 2005; Inoue, 2011).

Le modalità attraverso cui le condizioni di impiego condizionano o interagiscono con le condizioni di lavoro (e di rischio lavorativo) sono molteplici: iI lavoro “non stabile”

(temporaneo, precario, flessibile ecc.) assomma diversi di questi fattori negativi, tra cui (Hammaström et al., 2011):

 la ridotta esperienza nel lavoro specifico, in termini di tempo;

 la scarsa integrazione con l’organizzazione aziendale;

 l’incertezza sulla prosecuzione del rapporto di lavoro (o la certezza della sua interruzione);

 lo scarso potere contrattuale;

 la scarsa sindacalizzazione;

 la formazione ridotta;

 la motivazione;

 l’investimento sia da parte aziendale che da parte del lavoratore.

Numerosi studi hanno riportato che i lavoratori impiegati con contratti cosiddetti non standard riportano effetti in termini di salute che si rivelano derivanti dal lavoro: frequenza di alcune categorie di disturbi, specie mentali, stress psichico (Clarke et al., 2007; Vives et al., 2013), ma anche sintomi di natura muscolo scheletrica (Roquelaure et al., 2012). Gli effetti sulla salute fisica sembrano essere legati a esposizioni di più lunga durata, mentre quelli legati alla sfera psichica risultano rilevabili anche in tempi più brevi. L’esperienza di una prolungata/cronica insicurezza occupazionale è legata a reazioni psichiche di stress ed effetti mentali. L’impatto sulla salute mentale della insicurezza d’impiego è ben descritto nel mondo industriale moderno e culmina nell’insicurezza radicale legata alla non occupazione.

La relazione causale tra precarietà e salute mentale deve peraltro essere valutata anche alla luce dell’ipotesi che le condizioni psichiche di lavoratrici/tori possano costituire invece un fattore di preselezione (Clarke et al., 2007), una sorta di “healthy workers effect”, che tenderebbe a privilegiare alcuni lavoratori e a spingere nella precarietà chi presenta già altri fattori individuali di rischio. Inoltre, un frequente riscontro riguarda l’impatto significativo che la precarietà ha sulla salute mentale delle lavoratrici, che confermerebbe la sinergia tra queste modalità di lavoro e le differenze di genere: le donne risultano essere condizionate negativamente dalla flessibilità lavorativa in maniera sensibilmente maggiore rispetto agli uomini.

Peraltro, anche all’interno della categoria del lavoro che tendiamo a considerare “tipico” si sono diffuse condizioni che variano notevolmente in termini di pressione psicologica e psicosociale, di insicurezza e di pressione manageriale. Particolarmente in anni recenti, per effetto della crisi economica, un crescente numero di lavoratrici/tori con contratti permanenti percepisce la propria posizione nel posto di lavoro o nel mercato come insicura mentre, allo stesso tempo, non tutti gli occupati non standard descrivono una sensazione di insicurezza. Ciò conferma la criticità di un’analisi degli effetti della precarietà

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intesa come fenomeno dicotomico tra condizioni di occupazione standard e non standard, poiché, come abbiamo visto, si osservano invece gradienti di associazione tra varie forme di precarietà.

In ogni caso, gli effetti sulla salute dei lavori precari si manifestano sia attraverso i rischi specifici legati alle modalità di impiego (deprivazione sociale o materiale, deficit di protezione ecc.), sia per via delle condizioni di rischio occupazionale effettive. L’accesso a lavori caratterizzati da precarietà contrattuale è infatti maggiore per giovani, donne, persone non qualificate ed è diffuso in particolari settori, talvolta a più elevato rischio (tra cui le piccole imprese). Inoltre, i lavoratori precari possono dover affrontare una domanda maggiore e avere un minore controllo sui processi di lavoro: tutti elementi che conducono a più elevati livelli di stress, di insoddisfazione e a maggiori disturbi alla salute.

Questo insieme di elementi può avere effetti diretti o indiretti sulla salute, attraverso meccanismi psicologici e/o comportamentali. Ricadute importanti si rilevano nell’intreccio tra le condizioni di precarietà e la sicurezza sul lavoro: il lavoro atipico comporta sovente livelli di tutela che, anche se fissati con sempre più forza dalle norme, risultano più bassi rispetto a quelli esperiti dai lavoratori con contratti standard. Inoltre, le stesse misure di prevenzione in azienda possono essere messe in difficoltà dalla presenza di lavoratori precari, che richiederebbe un surplus di formazione, addestramento o inserimento nell’organizzazione. Non solo: in funzione delle modalità di introduzione nel contesto organizzativo, la presenza di lavoratori atipici può comportare, all’interno dell’ azienda, una compromissione dei livelli generali di tutela della sicurezza, per vari ordini di fattori, connessi alla minore formazione, alle interazioni e alle relazioni con il personale esistente, alla separazione di operazioni prima condotte unitariamente, ecc. D’altra parte, l’adozione di appropriate misure di prevenzione indirizzate ai lavoratori atipici può contribuire alla sicurezza generale dell’organizzazione aziendale.

Va altresì rilevato come i lavori instabili o atipici e anche le possibili conseguenze della insicurezza d’impiego siano maggiormente concentrate tra lavoratrici/tori in occupazioni di più basso livello e/o tra lavoratrici e lavoratori immigrati: alcune mansioni a rischio sono spesso oggetto di impiego precario e la precarietà dei contratti aggiunge rischiosità per una serie di fattori. È descritto un maggiore rischio di infortunio per i lavoratori temporanei rispetto ai lavoratori tipici, ma la letteratura in merito non è univoca: non mancano i dati negativi e dubbi (Inoue et al., 2011). Uno studio giapponese (Tsurugano et al., 2010), condotto mediante somministrazione di questionario su 38 mila lavoratori a tempo pieno, con forme permanenti e temporanee di contratto ha evidenziato una associazione significativa tra rischio di infortunio, elevata domanda di lavoro e basso controllo sulle proprie mansioni, tenendo sotto controllo possibili fattori quali dati anagrafici, rischi occupazionali, stili di vita. I lavoratori con contratti temporanei (specie le forme mediate da agenzie) mostravano un rischio maggiore rispetto ai lavoratori con contratti permanenti, ma le differenze tra le forme contrattuali risultavano mediate dalle elevate richieste e dal controllo sul lavoro.

L’influenza delle condizioni lavorative interagisce con altre determinanti sociali e può portare a un differenziale di esposizione, ma anche a un differenziale di suscettibilità (Costa e D’Errico, 2006; Virtanen et al., 2011): i precari potrebbero essere svantaggiati già in partenza e avere così accesso a occupazioni con rischi maggiori e, per effetto dell’iniziale svantaggio, presentare effetti più marcati rispetto agli stessi rischi. Il lavoratore che accede ai lavori precari esperisce infatti più frequentemente una difficile condizione sociale precedente all’impiego, che rende i fattori specifici del lavoro più pesanti (Broding et al., 2010; Virtanen et al., 2011). Diversi studi hanno infatti dimostrato una frequenza di infortunio maggiore tra i precari, quando fossero comparati direttamente lavoratori della stessa categoria o mansione. L’impiego precario sarebbe associato ad un abbassamento dei livelli di tutela di salute e sicurezza nel lavoro anche in termini di conoscenza delle

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procedure e delle regole di sicurezza. I lavoratori impiegati con contratti precari sono dunque esposti in maniera differente ai rischi occupazionali, rispetto ai lavoratori stabili.

In letteratura esistono tuttavia discrepanze nei risultati, che possono risalire anche alle diverse situazioni e classificazioni esistenti nei diversi Paesi. Forti di quanto sta succedendo in anni recenti a causa delle importanti modificazioni indotte dalla crisi economica, dobbiamo considerare anche che, per la natura stessa dei fattori in campo, la dimensione storica non va dimenticata. Anche se non mancano i rilievi negativi, una revisione dei contributi scientifici sull’argomento mostra in molti casi una relazione significativa tra rischio di infortunio e lavoro precario (Saha et al., 2004; Virtanen et al., 2005; Benavides et al., 2006; Inoue et al., 2011;).

Un atro aspetto che occorre tenere in conto è la possibile sotto-notifica degli infortuni: in un periodo nel quale si torna a parlare con preoccupazione della elusione dell’obbligo di denuncia degli infortuni, l’attenzione va posta anche e non secondariamente sulla categoria dei lavoratori precari, in quanto spesso posti in condizioni di maggiore ricattabilità.

Uno studio olandese ha rilevato anche il miglioramento delle condizioni di qualità del lavoro e di salute psicologica quando i lavoratori passano da una condizione di impiego precario ad una stabile (Clarke et al., 2007). Sono inoltre stati riscontrati problemi di sonno distribuiti in misura significativamente maggiore nelle forme temporanee di impiego rispetto a quelle permanenti (Sakurai et al., 2014). Uno studio italiano del 2008 ha confrontato gli infortuni tra lavoratori tipici, interinali e migranti, riscontrando una incidenza significativamente maggiore dei lavoratori interinali rispetto a quelli a tempo indeterminato, mentre gli stranieri sono caratterizzati da un rischio maggiore di infortunio, soprattutto se precari (Patussi et al., 2008). Il lavoro era basato su un’indagine campionaria che ha coinvolto agenzie di lavoro somministrato e 160 aziende, permettendo di comparare direttamente lavoratori delle stesse imprese e costruendo un denominatore con le ore lavorate effettive.

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