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INDICE CAPITOLO 1- INTRODUZIONE pag. 1 1.a

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I INDICE

CAPITOLO 1- INTRODUZIONE pag. 1

1.a – Le problematiche lavorative in Letteratura pag. 2

1.b – Storia e sviluppo della psicologia del lavoro pag. 3 1.c – La necessità di una Psichiatria occupazionale pag. 6 CAPITOLO 2 - LO STRESS: ASPETTI GENERALI, PSICONEUROBIOLOGICI

E CLINICI pag. 11

2.a – Aspetti generali pag. 11

2.b – Correlati neurobiologici centrali dello stress pag. 13 2.c – Correlati neurobiologici periferici dello stress pag. 14

CAPITOLO 3 - DALLO STRESS ALLA MALATTIA pag. 17

3.a – Concetti generali pag. 17

3.b – Eventi stressanti e disturbi mentali pag. 19

CAPITOLO 4 - PSICOPATOLOGIA SPECIFICA DA EVENTI STRESSANTI E

TRAUMATICI pag. 27

4.a – Aspetti storici pag. 27

4.b – Attuale inquadramento nosografico pag. 29

4.c – Limiti dell’inquadramento diagnostico della patologia da eventi pag. 31

4.d – Disturbo Acuto da Stress pag. 33

4.e – Disturbo Post Traumatico da Stress pag. 34

4.f – Disturbo dell’Adattamento pag. 37

CAPITOLO 5 - I RISCHI PSICOSOCIALI IN AMBITO LAVORATIVO pag. 41

5.a – Lavoro e benessere pag. 41

5.b – Lo stress occupazionale pag. 42

5.c- Sindrome del Burn-Out pag. 46

CAPITOLO 6 - IL MOBBING pag. 48

6.a – Mobbing, patologia emergente pag. 48

6.b – Aspetti storici pag. 49

6.c – Caratteristiche dell’azione mobbizzante pag. 52

6.d – Classificazione del mobbing pag. 54

6.e – I protagonisti del mobbing pag. 55

6.f – Epidemiologia pag. 56

6.g – Mobbing e disturbi mentali pag.60

CAPITOLO 7 – SCOPI DELLO STUDIO pag. 64

CAPITOLO 8 – MATERIALI E METODI pag. 65

8.a – Popolazioni in studio pag. 65

8.b – Campione analizzato pag. 65

8.c – Strumenti pag. 66

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CAPITOLO 9 – RISULTATI pag. 72

9.1 – Caratteristiche demografiche e lavorative pag. 72

9.2 – Azioni vessatorie più frequentemente lamentate e possibili cause pag. 72 9.3 – Prevalenza della diagnosi di disturbi psichiatrici nell’arco della vita e in

atto pag. 74

9.4 – Psicopatologia di spettro: differenze nei due sottogruppi pag. 74

9.5 – MMPI: differenze nei due sottogruppi pag. 75

9.6 – Spettri e aspetti lavorativi: differenze nei due sottogruppi pag. 76 9.7 – MMPI e aspetti lavorativi: differenze nei due sottogruppi pag. 77

CAPITOLO 10 – DISCUSSIONE pag. 79

CAPITOLO 11 – CONCLUSIONI pag. 83

TABELLE pag. 84

GRAFICI pag. 110

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1 CAPITOLO 1

INTRODUZIONE

Nel mondo industrializzato, l’avanzare di moderne tecnologie e i cambiamenti dell’organizzazione lavorativa, determinano un radicale mutamento delle tipologie di lavoro, con conseguenti modificazioni dei rischi e delle patologie professionali. Infatti, da un lavoro prevalentemente agricolo, si è pervenuti ad una fase industriale che ha raggiunto il culmine negli anni ’80 con il 41,5% di occupati nel settore, mentre il terziario (commercio, banche, telecomunicazioni, assicurazioni, servizi vari, etc.) ha subito un incremento continuo e costante, partendo dal 14,4% alla fine dell’800 per attestarsi al 63.2% nel 2002. I cambiamenti socio-economici ed organizzativi (privatizzazioni, fusioni, accorpamenti, nuove forme di lavoro e nuove tecnologie, trasformazioni delle mansioni, mercato sempre più competitivo, richiesta di flessibilità del dipendente, fatica mentale correlata alle innovazioni) hanno contribuito a modificare lo scenario del lavoro e probabilmente anche creato le premesse per lo sviluppo di condizioni di logorio psicofisico. Le mutate condizioni lavorative hanno quindi determinato da una parte la riduzione o la scomparsa di alcune malattie da lavoro, dall’altra il prospettarsi di nuove patologie stress-correlate che trovano, nel lavoro d’ufficio ed in concetti di efficienza talvolta male applicati, terreno di coltura fertile per il proliferare di condizioni di disagio lavorativo (Cesana et al., 2006). Pertanto in tutti i settori lavorativi si è verificata una crescente convinzione che l’esperienza dello stress sul lavoro ha delle conseguenze indesiderate per la salute e sicurezza degli individui, nonché per la salute delle organizzazioni di appartenenza (ISPESL, 2002).

Negli ultimi decenni, si è osservata una crescente attenzione verso il ruolo che gli eventi stressanti possono acquisire nella patogenesi dei disturbi psichiatrici, tuttavia la ricerca

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psichiatrica attuale così come la psicopatologia classica hanno scarsamente approfondito le relazioni tra la patologia psichiatrica e aspetti legati al mondo produttivo lavoro.

1.a Le problematiche lavorative in Letteratura

Le relazioni fra patologia psichiatrica e problematiche lavorative sono state studiate marginalmente dalla Psichiatria e dalla Psicologia.

Alcuni accenni sono reperibili nelle opere “Psicopatologia della vita quotidiana” e “Il disagio della civiltà” di S. Freud (1904, 1929) il quale pur riconoscendo all’attività lavorativa un elevato valore per la costruzione della società e per la realizzazione soggettiva dell’individuo, non considerava la possibilità che caratteristiche dell’ambiente di lavoro potessero costituire un fattore determinante di salute o malattia psichica (Pozzi, 2008a).

I grandi Autori della Psicopatologia classica come Jaspers, Kretschmer, Schneider, hanno ampiamente speculato sulla comprensibilità dei sintomi psichici in relazione alle condizioni esistenziali del paziente, o al ruolo che gli eventi potevano svolgere nella genesi e nella progressione della malattia, tuttavia, fra gli eventi, non è mai ipotizzato un possibile ruolo da parte del lavoro produttivo (Nolfe, 2007). Jaspers ad esempio ha sottolineato che la “capacità lavorativa e la volontà di lavorare vengono gravemente colpite dalle malattie psichiche. La curva di lavoro è una misura della capacità di prestazione individuale. La terapia del lavoro è una via per rendere più benigno il decorso delle manifestazioni psichiche morbose”. Egli quindi evidenzia gli effetti negativi della malattia psichica sul lavoro e focalizza l’attenzione sul concetto di normalità inteso come integrità della funzionalità psicosociale e lavorativa, ma non valuta la possibilità di un nesso causale fra lavoro e malattia (Cassano et al., 1999).

La scarsità e la genericità dei riferimenti all’attività lavorativa nelle opere dei grandi maestri del passato potrebbero essere spiegate con la carenza di prospettive di riabilitazione nell’operare psichiatrico di quei tempi o con una mutata sensibilità verso sofferenze della vita oggi divenute

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evitabili e dunque poco accettabili tanto nel lavoro quanto in altre esperienze basilari dell’esistenza (Pozzi, 2008a).

Tuttavia “…lo studio dell’uomo al lavoro è oggetto di inevitabile confronto e talvolta di incontro, tra scienze della natura e della materia, e scienze dei comportamenti, dei processi cognitivi e di apprendimento, delle relazioni sociali. Ma il confronto si estende a comprendere le scienze biomediche, se non si vuole dimenticare l’influenza delle situazioni di lavoro sulla salute dell’uomo, e i bisogni dell’uomo di salvaguardare il proprio benessere fisico, mentale, e sociale, nella vita di lavoro. Se lo studio dell’uomo è inteso,…, comprensivo degli stati di salute, l’incontro delle discipline è difficilmente rinunciabile…” (Maggi B., 1990).

1.b Storia e sviluppo della Psicologia del lavoro

Le lacune mostrate dalla psicopatologia classica sono state negli anni colmate dalla psicologia sperimentale e dalla Psicologia del lavoro, una disciplina che si propone di studiare il lavoro in una prospettiva psicologica. I mutamenti della realtà socio-economica e del contesto storico, dalla fine dell’800 ad oggi, hanno messo in luce la necessità di interventi interdisciplinari fra lavoro e salute e, in questo contesto si sviluppano la psicologia sperimentale e, parallelamente, la Psicologia del lavoro.

È un periodo storico in cui si osserva una trasformazione dello spirito del capitalismo, la seconda Rivoluzione Industriale è ormai imminente, nasce un interesse attorno alla soggettività lavorativa (Gabassi, 1998), emergono nuove esigenze correlate allo sviluppo di innovative metodiche di produzione e commercio che inducono il datore di lavoro, soprattutto nelle grandi aziende, ad avvalersi della consulenza di personale esterno per la costituzione di un’organizzazione lavorativa. Fu un ingegnere, Taylor (l’autore del libro Principles of Scientific Management, 1904), pur non avendo specifica formazione psicologica, a cogliere alcuni temi legati alle persone dei lavoratori, e pose le basi per una programmazione razionale del lavoro dando origine allo Scientific Management, noto anche come fenomeno del “Taylorismo”, al quale si riconosce

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di “aver squassato e riplasmato il lavoro umano di tutta un’epoca storica” (Accornero, 1980). Egli propose di organizzare il lavoro in tre fasi fondamentali (analisi scrupolosa delle caratteristiche di un determinato lavoro; estrapolazione delle qualità, psichiche e somatiche necessarie all'espletamento del lavoro in esame; selezione del lavoratore ideale) per perfezionare l’attività produttiva adattando l'uomo al lavoro.

In questo sistema l’uomo è considerato quasi come un’appendice della macchina ma, nel corso degli anni, emerge la necessità di organizzare l’attività lavorativa al fine di adattare il lavoro all’uomo.

Nel 1913 lo psicologo Hugo Munsterberg pone le basi per lo sviluppo della Psicologia del lavoro introducendo nel volume “The Psychology and Industrial Efficiency” il termine di Psicotecnica, “…una parte della psicologia applicata che ricerca i mezzi psicologici capaci di rendere il lavoratore più adatto al lavoro e il lavoro più confacente al lavoratore, ai fini del perfezionamento della produzione; perfezionamento armonicamente coordinato con la difesa e con l’elevazione della personalità di coloro che lavorano” (Ponzo, 1934). La peculiarità di questa disciplina consiste pertanto nell’oggetto di studio ovvero l’uomo inserito nell’ambiente lavorativo, in cui spende una parte cospicua di vita, in termini di energia e di tempo (De Carlo e Maeran, 2008).

Nel primo dopoguerra si assiste ad un nuovo fervore Mondiale ed Europeo. Nasce uno dei più famosi istituti di Psicologia del lavoro del mondo, il National Institute of Industrial Psychology, ad opera del medico e psicologo Charles Myers, in cui si indagavano le problematiche lavorative associate al lavoro ripetitivo: sia nella prospettiva della psicologia sociale, analizzando l’influenza degli atteggiamenti, il ruolo delle motivazioni e del morale sull’abbassamento delle prestazioni e sulla comparsa dei sintomi relativi alla fatica; sia in chiave psicotecnica, cioè in termini di selezione, orientamento ed ergonomia (termini utilizzato a partire dal 1949). In Germania negli stabilimenti Krupp nasce il primo laboratorio di Psicotecnica. Lo psicanalista australiano Elton Mayo, ideatore e iniziatore del management, è stato l’ispiratore delle lotte

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tendenti ad umanizzare il lavoro. In Italia si evidenzia la necessità di integrare la psicologia nelle facoltà scientifiche e si assiste ad u incremento del numero di cattedre di psicologia sperimentale. Il fervore di questi anni, tuttavia, trova un arresto con l’avvento dei regimi autoritari. In Italia prevale lo scetticismo da parte del mondo del lavoro, che si manifesta con un divario rilevante tra l’ambiente industriale, non ancora disposto a recepire le nuove tecniche, e gli studiosi che, invece, lavorano in sintonia con la cultura europea. Nel 1924 in Italia inizia l’attività psicotecnica del Laboratorio di Psicologia e Biologia diretto da Gemelli. Ma la situazione è particolarmente critica, dato che lo sviluppo della psicologia viene ostacolato dalle reazioni della cultura ufficiale, impregnata di filosofia idealistica, che mettono in discussione la sua stessa natura scientifica. Inoltre le leggi promulgate in materia di lavoro, che attribuiscono allo Stato la gestione dei rapporti tra imprenditore e lavoratore, comportano l’eliminazione delle tecniche di selezione, di orientamento e di organizzazione aziendale. Questa forte opposizione alla psicologia determina l’isolamento del nostro Paese dalla cultura psicologica internazionale. Alla fine degli anni venti mentre negli Stati Uniti si sviluppa la psicologia sociale e la sociologia dell’industria e in Inghilterra la psicologia tende ad affermare la propria indipendenza in quei settori che, nel nostro Paese sono ancora un campo prevalente di studio della fisiologia e della medicina del lavoro, la psicologia industriale italiana è ancora di carattere prettamente psicotecnico.

Nel 1929 si assiste ad una crisi economica mondiale che riacutizza le tensioni sociali, la disoccupazione e l’impoverimento, incidendo sul mondo produttivo e determinando una battuta d’arresto per lo sviluppo della psicologia. In America si assiste al cambiamento del concetto di uomo al lavoro: dall’uomo economico-razionale si passa all’uomo sociale, da un’impostazione centrata solo sulla tecnologia si passa alla necessità di uno studio multidisciplinare e di una più attenta analisi e programmazione economica e dei mercati (De Carlo e Maeran, 2008). Parallelamente Mayo conduce ricerche che evidenziano come lo stile della leadership, il clima sociale e le norme sviluppate dai gruppi informali hanno un influsso sulla prestazione e sulla

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soddisfazione del personale. L’attenzione al gruppo darà l’impulso alla trasformazione della psicotecnica in psicologia dell’industria.

In Italia la crisi si fa sentire in ritardo ma non avviene alcuna trasformazione in quanto mancano le condizioni sociali e politiche adatte. Anche in Europa è un periodo di riduzione degli studi sulle condizioni di lavoro e l’avvento della guerra ne determinerà l’arresto completo.

In generale si osserva comunque il superamento del concetto di uomo come energia meccanica cioè il taylorismo e l’organizzazione scientifica del lavoro, l’epoca di Munsterberg e della psicotecnica possono considerarsi definitivamente concluse.

Nel dopoguerra l’American Psychological Association costituisce la sezione dedicata all’Industrial and Business Psychology e sancisce l’autonomia della disciplina della Psicologia del Lavoro. È un periodo in cui emerge la necessità di disporre di teorie organizzative multidisciplinari e si sviluppa un modello di intervento nelle organizzazioni che punta ad incentivare lo sviluppo di strutture organizzative flessibili, a migliorare i rapporti interpersonali, a ridurre i conflitti.

In Italia la situazione subisce un rapido cambiamento nel 1968, anno in cui le agitazioni studentesche e le lotte operaie e sindacali creano un nuovo clima culturale che si concretizza con l’istituzione del corso di laurea in Psicologia a Roma e a Padova con indirizzi in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni. Quest’apertura in ambito accademico ha un riflesso anche in ambito produttivo portando ad una maggiore attenzione alle problematiche psicologiche in senso lato e anche in ambito lavorativo (De Carlo e Maeran, 2008).

1.c La necessità di una Psichiatria occupazionale

Dopo la metà del XX secolo nasce la “Psichiatria di comunità” col fine di sviluppare le proprie competenze nei contesti ordinari di vita e identificando nell’ambiente di lavoro una potenziale area di intervento per la tutela della salute mentale (Pozzi, 2008a).

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Il sistema di diagnosi e classificazione dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (DSM) annovera i problemi lavorativi tra le ulteriori condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica da parte dello psichiatra al pari di problemi come lutto, scelte di identità, acculturazione, attraversamento di fasi della vita (APA, 2000). Nella corrente edizione del Kaplan & Sadock’s Comprehensive Textbook of Psychiatry a cura di Sadock e Sadock (2005) si reperisce la definizione seguente : “ la Psichiatria occupazionale e la sua espansione che comprende la psichiatria dell’organizzazione focalizzano specificamente gli aspetti psichiatrici dei problemi lavorativi, compreso il disadattamento professionale”.

La Psichiatria ufficiale ha dedicato sino ad oggi un’attenzione marginale ai problemi lavorativi tuttavia lo psichiatra contemporaneo non può mancare di rivolgere il proprio interesse professionale e scientifico al mondo del lavoro in virtù del fatto che l’attività lavorativa in sé può rivelarsi sia dannosa che benefica da un punto di vista psicologico.

Vi è uno stretto rapporto fra stress e disturbi mentali in quanto se in condizioni ordinarie, il 20% degli stressori quotidiani minori sono attribuibili a situazioni lavorative (i tre quarti a relazioni interpersonali negative con superiori e colleghi), in contesti particolari (come ristrutturazioni aziendali o marcata disfunzione nell’organizzazione delle risorse umane), in cui la situazione ambientale cambia in senso peggiorativo, lo stress lavorativo può essere più intenso con riflessi negativi sulla salute mentale del lavoratore, fino al punto di osservare l’esordio di un disturbo clinicamente rilevante. Inoltre il lavoro, nella psichiatria moderna, può rappresentare una risorsa per il paziente poiché il reinserimento socio-lavorativo dei pazienti può favorire l’ampliamento dei contatti sociali, un’indipendenza economica, lo sviluppo di capacità di coping nei confronti dei sintomi, l’efficacia personale, e può ridurre il ricorso ai servizi psichiatrici e la dipendenza da questi (Carozza, 2006). La possibilità di assicurare un inserimento lavorativo a persone con disturbi mentali riguarda marginalmente le patologie psichiatriche gravi mentre può interessare altre condizioni cliniche eterogenee, quali Disturbi d’Ansia, dell’Umore, da Uso di Sostanze e di Personalità. Nelle suddette condizioni si può assistere ad una riduzione della capacità di svolgere

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una mansione lavorativa con affidabilità e sicurezza per sé o per gli altri, e ad una compromissione, transitoria o definitiva, dell’idoneità lavorativa, tuttavia il crescere di strumenti terapeutici a disposizione dello psichiatra, e la collaborazione psichiatrica specialistica in ambito lavorativo, sia ai fini di prevenzione che di riabilitazione, potrebbe incrementare il numero di soggetti idonei al lavoro.

La presenza di psicopatologia rappresenta una quota rilevante delle cause di assenza per malattia e della disabilità lavorativa e nei Paesi sviluppati la disabilità lavorativa imputabile a disturbi mentali tende ormai a superare quella dovuta alla patologia somatica. Inoltre la salute mentale ha costi notevoli sia per la società in genere che per il sistema produttivo in particolare. Questo argomento è la potente leva che ha definitivamente sollevato il problema della psicopatologia nel mondo del lavoro in Nord-America e in Europa. Nella Unione Europea i costi annui diretti (quali cura, riabilitazione) e indiretti (quali perdita di produttività) della salute mentale vengono calcolati in oltre 300 miliardi di euro, pari al 3-4% del PIL dell’Unione Europea e si stima che fra poco più di dieci anni i disturbi e le disabilità di natura psico-comportamentale andranno a costituire la voce più pesante della spesa socio-sanitaria nel vecchio continente (Pozzi, 2008a; Sanderson e Andrews, 2006; Sun W. et al 2011).

Nell’indagine epidemiologica National Comorbidity Survey replicata negli anni 2001-2003 (NCS-R), compiuta sulla popolazione generale degli USA, è stato studiato un sottocampione di soggetti che avevano un lavoro di almeno 20 ore al giorno nell’ultimo mese. Essi sono stati valutati in aggiunta all’intervista psichiatrica con lo strumento WHO Health & Work Performance Questionnaire dell’Organizzazione Mondiale della Sanità . Considerando solamente gli episodi di disturbo dell’umore diagnosticati secondo i criteri del DSM-IV, il numero di giorni equivalenti – indice ottenuto dalla combinazione dei giorni di assenza dal lavoro per malattia (assenteismo) e dei giorni di presenza ma con disfunzione lavorativa in atto (presenteismo)- persi nell’anno da ciascun individuo risultava pari a 65,5 per il Disturbo Bipolare, 27,2 per il Disturbo Depressivo Maggiore. Dal momento che nell’ultimo anno oltre il 6% dei lavoratori aveva

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presentato episodi sintomatici di Depressione Maggiore e circa 1% episodi di Disturbo Bipolare, si stima una perdita di produttività dell’ordine di circa 50 miliardi di dollari l’anno riferita all’intera popolazione adulta degli USA per i soli Disturbi dell’Umore (Kessler et al., 2006). Uno studio epidemiologico europeo che ha preso in considerazione insieme alle diagnosi psichiatriche in atto anche la percentuale di giorni di lavoro perduti nell’ultimo mese, documenta l’impatto sostanziale sulla produttività dei lavoratori riconducibile ai disturbi più diffusi nella popolazione generale: si rileva mediamente il 22% di giorni di lavoro persi nell’ultimo mese in concomitanza con un qualunque disturbo psichiatrico in atto e ciò soprattutto per effetto della diagnosi di Distimia, Episodio Depressivo Maggiore, Disturbo Post-Traumatico da Stress, Fobia Sociale e Disturbo di Panico (The ESEMED/MHEDEA 2000 Investigators 2004). In particolare, nel sottocampione italiano, mentre i soggetti di controllo non affetti da alcun disturbo mentale non riescono ad attendere all’attività lavorativa nel 3% dei giorni di lavoro nell’ultimo mese (pari a circa 1 giorno di malattia al mese dovuto ad affezioni somatiche) quelli affetti da un qualunque disturbo d’ansia vedono compromesso quasi il 20% dei giorni lavorativi, quelli affetti da un qualunque disturbo dell’umore quasi il 30% e quelli affetti da dipendenza alcolica il 100% dei giorni del mese (De Girolamo et al., 2006). I disturbi mentali si associavano a più elevati livelli di disabilità e di compromissione della qualità della vita, pari o superiori a quelli causati dai disturbi fisici cronici esaminati (artrite/reumatismi, malattie cardiache, malattie polmonari, diabete, disturbi neurologici). I soggetti affetti da un qualsiasi disturbo depressivo perdevano in media il quadruplo dei giorni di lavoro, i soggetti affetti da un qualsiasi disturbo d’ansia quasi il triplo dei giorni di lavoro rispetto ai soggetti non affetti. La presenza di tre o più disturbi mentali in comorbidità nell’ultimo anno, si associava ad un indice del numero di giorni di lavoro persi nell’ultimo mese circa due volte superiore rispetto a chi aveva sofferto di un solo disturbo e cinque volte superiore rispetto a chi non aveva avuto alcun disturbo. L’entità della compromissione lavorativa era diversa nei diversi disturbi mentali: il Disturbo Post-Traumatico da Stress, la Fobia Sociale, il Disturbo di Panico, l’Agorafobia e la Depressione Maggiore erano

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fra i disturbi associati al maggior grado di disabilità mentre le Fobie Specifiche, la Distimia, il Disturbo d’Ansia Generalizzata avevano un impatto notevolmente inferiore (De Girolamo et al., 2006).

Dinanzi a suddette problematiche appare evidente la necessità come sostiene Stansfeld nell’editoriale comparso sul British Journal of Psychiatry (2002) di raggiungere una comprensione più approfondita dell’impatto del lavoro sulla salute mentale sia ampliando la visuale teorica dell’argomento e concedendo più spazio alla Psichiatria Occupazionale sia ponendosi a confronto con altri specialisti (medici del lavoro, psicologi dell’organizzazione, tecnologi della produzione, direttori del personale, consulenti legali) su patologie considerate minori per gravità ma il cui impatto economico e sociale è di rilevante entità. Secondo Insel e Fenton (2005) nella disciplina psichiatrica dovranno trovare sempre più spazio nuove modalità di esercizio della pratica clinica, non solo all’interno dei servizi psichiatrici ma in altre aree come l’ospedale generale, la medicina di base, la sanità pubblica.

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CAPITOLO 2

LO STRESS: ASPETTI GENERALI, PSICONEUROBIOLOGICI E CLINICI

2.a) Aspetti generali

Il termine stress, che attualmente è entrato a far parte del linguaggio comune, è utilizzato in fisica dei materiali e nell’ingegneria delle costruzioni, per intendere la tensione o sforzo a cui viene sottoposto un materiale rigido in condizioni di sollecitazione; lo strain invece, è la deformazione geometrica di un materiale, determinata dall’applicazione di una forza, e quindi è una conseguenza dello stress (Pozzi, 2008b). Nel 1936 Selye ha importato il termine stress, applicandolo agli esseri viventi, per identificare una reazione monomorfa dell’organismo, denominata “Sindrome generale di adattamento” basata sull’attivazione dell’asse ipofisi-corticosurrene. Egli osservò che stimoli di tipo diverso, definiti stressors, erano in grado di determinare una reazione biologica (stress) aspecifica, pressoché uguale per tipi diversi di stimoli. Nacque così il primo modello teorico dello stress definito approccio Response-based (1983) in cui per la prima volta si stabiliva l’esistenza di una relazione tra stimoli esterni pericolosi, o minacciosi, e reazione interna dell’organismo; pertanto la reazione di stress rappresenta una funzione di adattamento e di difesa ad opera dell’organismo. Negli anni successivi, Selye arriverà poi a sottolineare come lo stress non sia solo una reazione difensiva ma una necessità fondamentale dell’essere biologico per il suo adattamento(Argentero, 2008). Lo stress è quindi una reazione unitaria a diverse tipologie di stimoli (sia fisici che psichici) che coinvolge più sistemi dell’organismo, ed è finalizzata a favorire un adattamento dinamico alle richieste ambientali, tentando di garantire la sopravvivenza dell’individuo e della specie. Questa reazione si articola con modalità scritte in istruzioni genetiche che preparano, fin dalle prime fasi della vita, i circuiti nervosi e neuroendocrini ad un articolato insieme di reazioni (ad es. le modificazioni comportamentali, emozionali, fisiche e metaboliche della risposta di lotta o di fuga) (Biondi e Pancheri, 1999).

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Il mutare e l’avanzare di metodi e conoscenze nella ricerca, dai primi studi degli anni ’40 sul sistema neurovegetativo, a quelli di psiconeuroendocrinologia degli anni ’70, a quelli di psiconeuroimmunologia degli anni ’80, hanno permesso di riconoscere e identificare un sempre maggior numero di funzioni dell’organismo e di evidenziare che anche fattori emozionali e psicosociali, attraverso la mediazione del sistema nervoso e degli altri sistemi ad esso connessi, possono influenzare l’insorgenza e il decorso di malattie (malattie cardiovascolari, patologie neoplastiche, patologie infettive) (Biondi e Pancheri, 1999)

Dalla sua prima formulazione e applicazione nel campo della medicina, ad opera di Selye, il concetto di stress ha subito una progressiva evoluzione.

Tra i vari Autori che si sono occupati dell’argomento, John Mason (1975), uno studioso americano, effettuando studi sui primati, osservò che la reazione di stress era caratterizzata dal coinvolgimento delle strutture del sistema limbico e da una “risposta multi ormonale”, non solo l’asse ipofisi-surrene ma molti altri assi endocrini (come ad esempio l’asse ipotalamo-midollo surrenale, l’asse tiroide, l’asse GH e l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi). Il sistema limbico, è il luogo di coordinamento e di controllo della reazione di stress: l’attivazione emozionale indotta dallo stimolo, organizzata a livello limbico, si manifesta sia a livello biologico-somatico, con modificazioni neurovegetative ed endocrine, sia a livello psicologico-comportamentale, con le sequenze motorie dei comportamenti di lotta o di fuga. Dopo le prime ricerche di natura biologica e fisiopatologica sono stati indagati gli aspetti psicologici dello stress nell’uomo. Alcuni studi rilevarono come nel caso dell’uomo fosse frequente che individui diversi reagissero allo stesso stimolo stressante con risposte assai diverse. Questo fece supporre che lo stimolo venga elaborato dal sistema nervoso centrale attraverso processi di tipo cognitivo, acquisisca una sua specifica coloritura emozionale, e, successivamente, si verifichi la reazione di stress (Biondi e Pancheri, 1999). Il più attuale e completo modello di stress nell’uomo è quello transazionale (Lazarus, 1991) che suggerisce come lo stress sia il risultato di un processo costante e continuo di scambio e di interazione tra

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individuo e ambiente. Nel modello vengono prese in considerazione le caratteristiche individuali che regolano il processo dello stress, e gli stili di coping che gli individui mettono in atto in risposta agli stimoli ambientali. Nell’ottica transazionale, per stili di coping, si intendono l’insieme di attitudini cognitive e comportamentali dell’individuo utili a fronteggiare le avversità della vita nel modo più efficace, e a gestire le richieste interne o esterne della transazione persona/ambiente. La natura transazionale del processo di coping pone in particolare risalto il ruolo delle valutazioni cognitive ( valutazione primaria o secondaria) attuate dai soggetti relativamente alle richieste ambientali. Nella valutazione primaria gli individui attribuiscono un significato alla situazione che si presenta loro e valutano le risorse personali necessarie per affrontarla. La valutazione secondaria riguarda la percezione del soggetto di possedere o meno le strategie di coping adatte ad affrontare la situazione avversa (Argentero, 2008).

Il progredire delle ricerche nel campo dello stress ha inoltre messo in luce come la reazione di stress abbia altre finalità oltre quella difensiva, come ha sottolineato Pancheri (1982) sviluppando una teoria in cui distingue tre programmi di stress: un programma di stress individuale, un programma di stress riproduttivo, un programma di stress da attaccamento e perdita.

Il primo è strettamente associato alla sopravvivenza dell’individuo, ed è pertanto quello più simile al concetto di stress come reazione difensiva secondo la prima formulazione di Selye; il secondo è strettamente associato alla sopravvivenza della specie; il terzo è infine implicato nella creazione, mantenimento e perdita di legami di coppia e sociali, importanti per la sopravvivenza del gruppo.

2.b) Correlati neurobiologici centrali dello stress

I primi dati biologici, derivati da ricerche condotte negli anni ’80, sembravano evidenziare un coinvolgimento primario del locus coeruleus (LC), il principale nucleo noradrenergico situato al livello del tronco encefalico, e dei sistemi catecolaminergico ed oppioide; le conoscenze più

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recenti sulla neurobiologia delle risposte all’ansia, alla paura e allo stress hanno aperto nuove prospettive che sostengono l’esistenza di un modello più complesso.

Questo prevede l’intervento di diversi circuiti neuronali integrati, di neurotrasmettitori e peptidi, nonché di molteplici alterazioni psicoendocrine e neurovegetative e di modificazioni dell’espressione genica a livello del Sistema Nervoso Centrale (Giller 1990, Mason, 1975; Charney, 2004). È stato, infatti, dimostrato che le risposte fisiologiche e comportamentali che si associano all’ansia e alla paura sono integrate e mediate da strutture del lobo limbico, quali l’amigdala, il talamo, l’ipotalamo, l’ippocampo, ma anche da numerose aree corticali, in particolare la corteccia prefrontale, mentre il LC viene relegato al ruolo di centro che controlla tutta una serie di risposte di tipo neurovegetativo. Un aumento del livello di scarica del LC, indotto artificialmente, produce modificazioni comportamentali, simili a quelle che si osservano nella paura naturale, tuttavia le stesse reazioni si verificano anche stimolando l’amigdala.

Gli studi di neuroimaging evidenziano differenze tra soggetti con PTSD e controlli sani a livello di ippocampo, amigdala e corteccia fronto-mediale, confermando l’ipotesi di un’integrazione di più circuiti neuronali (Nutt, 2004).

A livello dell’amigdala e dei circuiti ad essa connessi sono modulati le reazione di paura, il processo di condizionamento, l’estinzione, la sensibilizzazione, i fenomeni di kindling e il richiamo di memorie traumatiche. In alcuni studi preliminari è stata segnalata una riduzione di volume dell’ippocampo, espressione forse di una involuzione neuronale di tipo distrofico secondarie ad azione protratta di glucocorticoidi prodotti dall’esposizione cronica a stressor (Marazziti, 2006).

2.c) Correlati neurobiologici periferici dello stress

Il sistema nervoso vegetativo è stato uno dei sistemi più indagati nel campo della psicobiologia dello stress.

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In seguito a stimoli emozionali, le più comuni modificazioni cui va incontro il sistema cardiovascolare sono l’aumento della frequenza cardiaca e uno stato di iperattivazione adrenergica (iperattivazione del sistema orto-simpatico, dell’asse ipotalamo-surrenale, del sistema renina-angiotensina) che determina un’elevazione della pressione arteriosa sia sistolica che diastolica. Tuttavia sono anche documentate, in condizioni di stress acuto, reazioni a predominanza vagale, che possono accompagnarsi clinicamente al quadro della sincope vaso-vagale.

Anche l’apparato gastrointestinale mostra una spiccata sensibilità a stimoli emozionali mostrando modificazioni della funzionalità e reattività gastrointestinale, mediate dal sistema parasimpatico, ma anche da sistemi peptidergici, quali la bombesina, il Gastrin releasing peptide, CCK, CFR e TRH. Il ruolo di questi peptidi è stato segnalato sia nella regolazione della motilità nel piccolo e grande intestino che nella genesi delle ulcere gastriche da stress.

Il sistema endocrino reagisce a situazioni di stress psicofisico o emozionale con una risposta multiormonale (attivazione del sistema ipotalamo-ipofisario con aumento dei livelli plasmatici dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) e del cortisolo, delle catecolamine, e in molti casi, anche del GH, e della prolattina) che ha un significato adattativo, poiché garantisce un appropriato adeguamento metabolico dell’organismo al mutare delle richieste ambientali.

L’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene è stato, dai tempi degli studi di Selye sullo stress, ovviamente uno dei più indagati. Di fronte ad uno stimolo stressante, la risposta dell’ACTH è rapida, con l’inizio dell’elevazione e picco entro pochi minuti; più lenta è la curva di elevazione del cortisolo plasmatico, con un picco a partire dai 10-15 min successivi. In condizioni di stress emozionale, è comune rilevare valori plasmatici di cortisolo anche doppi o tripli rispetto ai valori normali.

Gli studi sul rapporto tra stress e immunità hanno dimostrato come condizioni di stress emozionale producano significative alterazioni della funzionalità immunitaria e quindi una temporanea riduzione o soppressione della funzionalità di vari parametri e risposte immunitarie,

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sia umorali che cellulari che possono favorire una aumentata suscettibilità allo sviluppo di malattie infettive, e probabilmente, anche allo sviluppo di patologie tumorali. Già Selye in passato aveva rilevato come nella reazione di stress fossero tipicamente presenti linfocitopenia, ipotrofia del timo e aumentata suscettibilità ad infezioni (Biondi e Pancheri, 1999).

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Capitolo 3

DALLO STRESS ALLA MALATTIA

3.a ) Concetti generali

Nella letteratura psichiatrica il termine evento stressante indica la proprietà che ha un avvenimento di provocare nell’individuo una risposta biologica e comportamentale finalizzata ad affrontare l’evento stesso, spostando l’organismo ad un nuovo livello di omeostasi: evento stressante è dunque un evento che richiede uno sforzo di adattamento (Biondi, 1999). Nella specie umana possono determinare una reazione di adattamento eventi reali, simbolici o immaginari. Inoltre un evento vitale può non esaurire i propri effetti stressanti nell’immediato, ma esercitare “…effetti prolungati con meccanismi di riverbero ambientale o di eco psicologica…” (Dimsdale, 2005).

La reazione da stress presenta tre fasi sequenziali (allarme, resistenza ed esaurimento) e si esprime su un fronte somatico-metabolico (di preparazione) e psicologico-comportamentale (di attuazione), ha un’intensità variabile da caso a caso ed è limitata nel tempo (Pozzi, 2008b). L’esposizione a stimoli stressanti influisce sulle prestazioni mentali e comportamentali dell’individuo (percezione, cognizione, motricità) secondo una particolare relazione dose-risposta (a “U rovesciata”) per cui si osserva dapprima un incremento, poi un declino e infine il crollo qualora la stimolazione risulti troppo intensa e prolungata. Il fenomeno viene mediato dal livello di attivazione del sistema nervoso e si esprime sia con sintomi di tipo somatico (iperreattività cardio-circolatoria) che psichico (ansietà). Anche l’apprendimento e la memoria sono influenzati dal livello di attivazione, coerentemente con la funzione vitale della risposta da stress. Così mentre da un lato gli eventi stressanti sono meglio ricordati (aiutando a distinguere un’esperienza significativa da una neutrale), sotto stress il richiamo di memorie precedentemente acquisite risulta meno efficiente (lasciando che il campo di coscienza si focalizzi sulla gestione del pericolo attuale); inoltre l’esposizione a stressori estremi determina la costituzione di

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memorie patologiche (ovvero non sufficientemente integrate) mentre tra le sequele negative di condizioni stressanti croniche si annovera un certo declino cognitivo (con incapacità ad apprendere efficacemente nuove esperienze). Quindi, mentre la reazione da stress di tipo acuto modifica le prestazioni cognitive e mnesiche in modo tale da giovare alla salvezza dell’individuo, in condizione di attivazione abnorme o cronica si osservano marcate interferenze con i sistemi di apprendimento fino a perdere la sua natura adattiva, e rappresentare un fattore patogenetico per una malattia somatica o mentale (Pozzi, 2008b). Non è ancora chiaro se talune alterazioni neuro anatomiche riscontrate nei soggetti con severe patologie da stress riflettano una conseguenza di esso oppure costituiscano un antecedente biologico che conferisce il rischio di sviluppare il disturbo a parità di esposizione ambientale (van der Kolk, 1996; Drevets e Charney, 2005).

Dal punto di vista pratico, suddette condizioni possono essere ricondotte essenzialmente a quattro reazioni patologiche principali: l’eccesso di stress acuto, lo stress con blocco dell’azione, lo stress cronico, lo stress ordinario in un organismo disabituato o in stato di esaurimento funzionale.

Nello “eccesso si stress acuto” (reazioni di iperstress) la reazione acuta di stress, innescata da stimoli sia fisici che psicosociali, è troppo intensa e può essere alla base di reazioni patologiche: ulcere gastriche acute da stress in soggetti con estese ustioni e traumi, episodi di cardiopatia ischemica o di incidenti cerebrovascolari, o di destabilizzazione elettrica cardiaca. In questi casi l’iperattivazione catecolaminergica dello stress comporta uno scompenso di sistemi cardiovascolari.

Nello “stress con blocco dell’azione” è presente uno stato di attivazione biologica in mancanza di una possibilità di reazione comportamentale aperta contro circostanze esterne o interne all’individuo (di natura psicosociale). In questi casi si ha praticamente una reazione di stress con blocco dell’azione. È questa una condizione particolare che potrebbe essere chiamata in causa in una gran parte delle malattie riconosciute come stress-dipendenti.

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Lo “stress cronico” è una condizione in cui l’esposizione protratta a stressors prosegue nel tempo, al di là delle possibilità di reazione dell’organismo.

La condizione di “stress ordinario in un sistema con inibizione cronica della reazione di stress”, può produrre effetti particolari, molto più potenti e deleteri, rispetto agli effetti biologici che vengono prodotti in un organismo “allenato” allo stress. Studi sperimentali su animali hanno mostrato che “proteggendo” a lungo e artificialmente un organismo dalle normali stimolazioni stressanti, la risposta a normali stressors, anche di moderata entità, risulta anormale ed eccessiva: sul piano biologico una iperrisposta dell’asse ipofisi-surrene, sul piano comportamentale una maggiore disorganizzazione e incapacità a impostare una reazione di lotta/fuga adeguata. Nell’uomo condizioni simili possono essere presenti in particolari tratti di personalità (Disturbo di Personalità Evitante) ne quali il soggetto organizza uno stile duraturo di vita che evita il più possibile gli stressors, e in ogni caso ne filtra e minimizza comunque l’impatto emozionale. Questo atteggiamento favorisce l’evitamento sistematico dell’attivazione della normale reazione di stress, producendo uno stato di inibizione cronica dello stress. È pertanto possibile che di fronte ad un evento non evitabile e grave (ad es. un evento di perdita affettiva), l’organismo subisca facilmente una reazione di stress in eccesso, e maggior rischio di sviluppo di malattie stress-dipendenti (Biondi e Pancheri, 1999).

3.b) Eventi stressanti e Disturbi mentali

Gli eventi stressanti esistenziali possono determinare delle modificazioni sulla neurochimica centrale attraverso l’azione su sistemi neurotrasmettitoriali e peptidergici centrali, favorendo la manifestazione di alcuni disturbi psichiatrici.Questa prospettiva offre una nuova chiave di interpretazione dei tradizionali problemi del rapporto tra mente e cervello, e più specificamente scioglie alcune contrapposizioni tra interpretazione psicologica e interpretazione biologica di alcuni disturbi mentali; tuttavia l’eziopatogenesi dei principali disturbi psichiatrici è molto complessa e certamente non riducibile solo all’azione di fattori emozionali stressanti.

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Stress e Depressione Maggiore

Il rapporto tra stress e Depressione Maggiore è stato indagato sia da un punto di vista clinico, che neurochimico.

Esistono studi clinico-sperimentali retrospettivi in letteratura che dimostrano che esiste un carico di eventi vitali recenti nei depressi, superiore a quello della popolazione generale (Kendler et al., 2004, Hammen et al., 2004, Farmer e Mc Gufifn 2003, Rojo-Moreno et al., 2002, De Graaf et al., 2002, Kohn et al., 2001, Mundt et al., 2000, Mazure et al., 2000, Cornelis et al., 1989, Emmerson et al., 1989). Recenti eventi di perdita affettiva sono poi altamente frequenti nell’anamnesi di suicidi e soggetti con tentativi di suicidio e spesso hanno un ruolo scatenante l’atto. Tuttavia nel rapporto tra stress e depressione contribuiscono, in maniera combinata e con pesi diversi, la predisposizione genetica, le caratteristiche di personalità, l’atmosfera e gli eventi occorsi durante lo sviluppo, il supporto sociale, gli eventi e le situazioni stressanti passate e recenti. Uno studio di Kendler et al., (2004) condotto su 1360 gemelle, ha esplorato la predizione di episodi di depressione maggiore secondo un modello eziologico integrato. Sono stati esaminati nove predittori potenziali: fattori genetici, calore parentale, perdite infantili, traumi nel corso della vita, nevroticismo, supporto sociale, pregressi episodi depressivi, difficoltà recenti, recenti eventi stressanti esistenziali. I risultati hanno mostrato che quattro di questi erano quelli principali: eventi stressanti esistenziali, fattori genetici, storia precedente di episodi di depressione maggiore, nevroticismo. Gli Autori concludevano sottolineando come la depressione maggiore sia risultata un disturbo multifattoriale, la cui eziologia richiede la comprensione e l’integrazione rigorosa di fattori di rischio temperamentali, genetici e ambientali.

Per quanto riguarda gli aspetti neurochimici è stato indagato il rapporto tra stress, modificazioni della NA centrale e depressione. Weiss et al. (1989) hanno dimostrato che la depressione stress-indotta è strettamente associata ad una deplezione NAergica nel locus coeruleus. Suddetta deplezione si sviluppa progressivamente nel corso della esposizione a stimoli stressanti

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inevitabili, che dapprima esaurisce la capacità di risposta e, in seguito, la riserva funzionale del sistema NA. A ciò segue una ridotta stimolazione dei recettori alfa-2 pre-sinaptici (inibiscono la scarica generalizzata dei neuroni del LC) a livello del locus coeruleus con conseguente aumento della scarica nei campi di proiezione NA del LC e sovra stimolazione dei recettori post-sinaptici beta-2. Protraendosi la condizione di stress, e quindi di iperattivazione, si giunge ad uno stato di esaurimento funzionale anche nei campi di proiezione NAergici, con ipersensibilità recettoriale post-sinaptica. Il trattamento con antidepressivi triciclici evita la deplezione NA a livello del LC. Questo modello mostrerebbe come alcune alterazioni neurotrasmettoriali e sinaitiche, ritenute tipiche della depressione, possano essere, almeno in determinati casi, il prodotto finale delle modificazioni neurochimiche indotte primariamente da eventi stressanti.

Un altro sistema indagato è quello serotoninergico che è implicato nella patogenesi sia dell’ansia che della depressione. In realtà, il quadro è molto complicato dall’esistenza di classi recettoriali diverse (sottoclassi 5-HT1, 5-HT2) che possono mediare effetti anche opposti a livello comportamentale. Pertanto i dati sul rapporto tra stress, 5-HT e patologie psichiatriche sono meno chiari rispetto a quelli del sistema NAergico. È stato tuttavia proposto un modello di ipersensibilità recettoriale post-sinaptica serotonergica indotto da stress, che potrebbe rappresentare la base o la condizione scatenante per un episodio depressivo. Secondo questo modello, in una prima fase, dopo esposizione sufficientemente protratta ad agenti stressanti, il rilascio di 5-HT aumenta significativamente, con aumento del turnover. Si genera quindi una iper-stimolazione degli autorecettori pre-sinaptici, che danno un ridotto rilascio di 5-HT. Se la condizione di stress è stata piuttosto intensa e protratta, il meccanismo di controregolazione potrebbe portare ad eccessiva auto-inibizione. Ne conseguirebbe una riduzione eccessiva della liberazione di 5-HT con sviluppo di uno stato di ipersensibilità recettoriale 5-HT post-sinaptica. Il modello è suggestivo ed interessante, poiché in accordo con l’azione terapeutica sia dei farmaci triciclici che degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina.

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Stress e Disturbo Bipolare

Allo stato attuale delle conoscenze non è possibile stabilire e generalizzare l’esatto ruolo dello stress nella precipitazione degli episodi maniacali (Kennedy et al., 1983; Bebbington et al., 1993; Pardoen et al., 1996). Alcuni studi hanno tuttavia sottolineato come l’inizio di essi possa essere innescato, o precipitato, da eventi e condizioni esistenziali stressanti (conseguimento di obiettivi, alterazione dei ritmi sonno veglia) tuttavia, sembra che, l’effetto degli eventi sia limitato alla manifestazione del primo episodio, mentre gli episodi successivi, nonché la ciclicità tipica del Disturbo Bipolare, appaiono influenzati principalmente da fattori biologici. È inoltre da valutare quanto l’eventuale presenza di eventi stressanti precedenti l’insorgenza dei disturbi rappresenti realmente un fattore che precede il disturbo (eventi “indipendenti”) oppure rappresenti semplicemente l’effetto delle prime manifestazioni del disturbo psicopatologiche, subcliniche (eventi “dipendenti”), provocate da azioni del soggetto stesso

Stress e Disturbi d’Ansia

Alcuni studi hanno riportato che nel Disturbo d’Ansia Generalizzato eventi esistenziali stressanti possono precipitare o acuire alcune manifestazioni psicopatologiche del disturbo (Finlay-Jones e Brown, 1981; Blazer et al., 1987; de Beurs et al., 2001) ed un parametro decisivo è la controllabilità/incontrollabilità dell’agente stressante. Drugan et al. (1989) hanno rilevato che mentre nell’esposizione a stressors incontrollabili dopo una attivazione segue uno stato di incapacità (helplessness), nel caso in cui vi sia la possibilità di affrontare e gestire l’agente stressante si verifica una maggiore attivazione del sistema GABA/BDZ, con inibizione della reazione d’ansia a livello comportamentale. L’attivazione GABA, prodotta ad esempio dalla somministrazione di benzodiazepine ma ipoteticamente anche da interventi non farmacologici, ha in generale l’effetto di inibire la risposta dell’asse HPA sotto stress, in modo tempo e dose-dipendente, inibendo il rilascio di CRF. Una ricerca condotta da Biondi et al. (1986) rilevò in effetti che soggetti con ansia cronica che avevano fatto con successo un trattamento di 20 sedute di terapia di rilassamento mostravano livelli significativamente più bassi di ACTH e prolattina

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alla fine rispetto alle sedute iniziali; inoltre, maggiore era la riduzione dell’ansia, maggiore era la riduzione di ACTH e prolattina. Si ipotizza quindi che la terapia di rilassamento abbia prodotto un potenziamento dell’attività GABAergica, come se avesse agito un ansiolitico endogeno, con la conseguente riduzione di ACTH plasmatico periferico.

Nella patogenesi degli episodi critici d’ansia tipici del Disturbo di Panico è stato proposto un ruolo del sistema centrale NA. Alcuni studi clinici hanno rilevato che eventi di perdita affettiva (eventi recenti ma anche eventi di separazione in età infantile) spesso precedono l’insorgenza del Disturbo di Panico. È possibile che eventi di separazione e di perdita infantili interagiscano e “predispongano” al successivo sviluppo di Disturbo di Panico in età adulta (Faravelli 1985; Faravelli e Pallanti, 1989; Venturello et al., 2002; Scocco et al., 2007). Sulla base di questi ed altri dati sperimentali, è ipotizzabile che stressors emozionali di rilevante entità, che aumentano il senso di precarietà della propria sicurezza affettiva (ad es. due eventi di perdita in sequenza, altri contemporanei eventi di perdita o cambiamenti importanti) possano favorire in alcuni soggetti (con eventi di separazione vissuti in epoca infantile e predisposizione genetico-familiare per l’ansia) una destabilizzazione del sistema NA centrale a livello del Locus Coeruleus (ovvero una ridotta inibizione tonica della reattività NA) e sul piano clinico si avrebbero così episodi fasici di iperattivazione neurovegetativa ortosimpatica con episodi di attacchi parossistici di ansia. Pochi ripetuti episodi porterebbero facilmente ad una condizione di “sensibilizzazione”. Si verificherebbe un vero e proprio processo di condizionamento tra situazione-stimolo e risposta NA, probabilmente data da una iper-risposta del Locus Coeruleus e conseguente massiccia, breve, iperattivazione adrenergica. È questa che il paziente avverte, con i tipici sintomi soggettivi e oggettivi, psichici e somatici, della crisi di panico. Il comportamento di evitamento delle situazioni temute (in cui si sono verificati attacchi parossistici di ansia) svolgerebbe un’importante funzione protettiva da tali episodi di iperincrezione acuta di NA e delle sue conseguenze, senza il verificarsi dell’estinzione. Il modello delle alterazioni nel Disturbo di Panico è complesso e si basa su un alterato assetto dei recettori beta-adrenergici post-sinaptici. È

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compatibile da una parte con l’evidenza di una alterata regolazione NAergica nel Disturbo di Panico, dall’altro dall’effetto di downregulation dei beta-recettori degli antidepressivi, in particolare noradrenergici, nel trattamento dei Disturbi d’Ansia e di Panico, che rivestirebbe un effettivo ruolo terapeutico sui meccanismi patogenetici del disturbo e permetterebbe la successiva riacquisizione della capacità di esporsi a situazioni temute. Dapprima ciò si verifica sotto protezione farmacologica, mentre successivamente con un’adeguata riduzione lenta della terapia farmacologica viene permesso il riapprendimento ad esporsi, l’estinzione della reazione d’ansia, un progressivo controllo della situazione da parte del soggetto. Questo peraltro può essere una spiegazione dei meccanismi alla base di un trattamento combinato psicoterapeutico-psicofarmacologico del Disturbo di Panico.

Stress e Disturbi Correlati a Sostanze

L’esposizione recente ad eventi esistenziali stressanti, risulta significativamente superiore anche nel caso dei soggetti con Disturbo da Uso di Alcool o altre Sostanze (in particolare eroina) rispetto ai soggetti non abusatori (Cooke e Allan, 1984; Zimmerman-Tansella, 1988; Gorman e Peters, 1990; Macdonald et al., 1998; Brennan et al., 1999; De Graaf et al., 2002; King et al., 2003; Hayaki et al., 2005). Tuttavia gli studi presenti in letteratura presentano problemi metodologici e solo quelli di tipo prospettico permettono di evidenziare il ruolo causale degli eventi stressanti nei disturbi da uso di sostanze, in quanto risulta spesso difficile discriminare a posteriori (sulla base di ciò che dichiarano i pazienti) se una data avversità costituisca un evento realmente indipendente o non sia piuttosto una verosimile conseguenza dell’uso delle sostanze. È stato però rilevato che situazioni di stress possono influire sul decorso, in particolare sulle ricadute in comportamenti di dipendenza in soggetti che stavano effettuando trattamenti di disassuefazione. Secondo alcuni Autori è poi possibile che eventi stressanti abbiano una paradossale azione positiva, favorendo spesso temporaneamente, talvolta definitivamente, l’interruzione del comportamento di dipendenza.

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Disturbi Deliranti e Schizofrenia

Nei Disturbi Deliranti e nella Schizofrenia vi è una minore evidenza del ruolo patogenetico di eventi esistenziali stressanti rispetto ad altre patologie come la depressione. Il ruolo dello stress sembrerebbe limitato alla slatentizzazione del disturbo e, soprattutto, alle ricadute sintomatiche in presenza di una vulnerabilità specifica (Canton e Fraccon, 1985; Malla et al., 1990; Bebbington et al., 1993; Castine et al., 1998; Horan et al., 2005). Gli eventi stressanti sarebbero cioè in grado di palesare una predisposizione individuale alla malattia, che dipende verosimilmente da una combinazione di fattori genetici e ambientali precoci. (Corcoran et al., 2003; Cosci et al., 2004; Dimsdale et al., 2005). Tra i possibili meccanismi neurochimici di mediazione la funzionalità dopaminergica (DAergica) ha un ruolo di primo piano, sebbene certamente non sia l’unico sistema coinvolto, né tutte le potenziali interazioni tra stress e disturbi psicotici possono essere interpretate in chiave DAergica. In condizioni normali l’attività DAergica corticale prefrontale svolge funzione modulatorio-inibitoria sull’attività DAergica sottocorticale, a sua volta invece eccitatoria verso la corteccia. Nel soggetto normale sotto stress il meccanismo di autocontrollo inibitorio cortico-sottocorticale tuttavia sarebbe conservato e funzionerebbe frenando l’iperattivazione DAergica prodotta dallo stress sulla neurotrasmissione DAergica mesocorticale. Nel disturbo schizofrenico si ipotizza una ipofunzione DAergica corticale a livello prefrontale. Questa potrebbe causare una ridotta capacità della normale inibizione cortico-sottocorticale. Pertanto, anche per l’attivazione dei sistemi aminoacidi eccitatori a carico dell’attività DAergica a livello prefrontale, si ottiene una sovraeccitazione non controllabile. È possibile che questo modello spieghi alcune caratteristiche di esacerbazione della sintomatologia produttiva nei soggetti con schizofrenia in condizione di stress emozionale. Tuttavia l’ipotesi dell’interazione stress-sistema DAergico copre solo la componente della sintomatologia positiva-produttiva della patologia schizofrenica, mentre la dimensione negativa e di disorganizzazione del pensiero ne viene più difficilmente spiegata. Rimane da approfondire

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l’interazione tra sistema DAergico e sistema glutamatergico a livello prefrontale, nonché il ruolo degli aminoacidi eccitatori a livello prefrontale.

Anche nel rapporto tra stress e Disturbi Psicotici, dovrebbe quindi essere preso in esame un rapporto a tre, tra modulazione prefrontale corticale della funzione DAergica sottocorticale (mesolimbica e nigrostriatale) e il ruolo degli aminoacidi eccitatori sulla DAergica prefrontale. Resta aperta invece la prospettiva che eventi stressanti acuti attraverso la mediazione di alterazioni DAergiche possano favorire episodi psicotici acuti brevi (come il Disturbo Psicotico Breve del DSM-IV e la Psicosi Reattiva Breve del DSM-III-R).

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CAPITOLO 4

PSICOPATOLOGIA SPECIFICA DA EVENTI STRESSANTI E TRAUMATICI

4.a) Aspetti storici

Le manifestazioni cliniche correlate ad eventi stressanti sono quelle che compaiono in stretto rapporto con gli effetti di fattori ambientali riconoscibili e non rappresentano esclusivamente una slatentizzazione o esacerbazione di disturbi preesistenti. In Psichiatria il concetto di reazione ad eventi era alla base di quadri come la “depressione reattiva” o la “reazione nevrotica”, tuttavia, spesso venivano fusi il concetto di reattività ad evento e il ruolo predisponente, nel disturbo reattivo, di caratteristiche di personalità o di stati conflittuali del soggetto.

Verso la fine del 1800 Oppenheim designò con il termine di “nevrosi da trauma”, quei quadri di ansia morbosa che si manifestavano in risposta a gravi traumi e shock emotivi. Questo concetto fu incorporato da Kraepelin nel Trattato di Psichiatria, e denominò con “nevrosi da spavento” un’entità clinica autonoma, insorta in seguito a fatti o eventi che suscitavano intensa ansia, spavento, shock emotivo, come ad esempio in caso di incendi, collisione o deragliamento di convogli ferroviari.

Bleuler, nel suo Trattato di Psichiatria (1911), sistematizzò come quadri clinici distinti le “reazioni” patologiche, definite anche “disturbi psicoreattivi o psicogeni”, introducendo così il concetto della psicogenesi dei sintomi e il loro possibile rapporto con eventi della vita, ma includendo un ampio gruppo di patologie (costruzioni deliranti, reazioni depressive, agorafobia, neurastenia e nevrosi vegetative, anoressia, isteria, stati crepuscolari). Molto simili all’odierno Disturbo Post Traumatico da Stress sono inoltre i “quadri clinici psicoreattivi circoscritti in base alle cause” che includono nevrosi e psicosi da spavento, nevrosi traumatiche e da pensione. Da un punto di vista clinico, secondo Bleuler, questi quadri sono comunque di gravità in genere moderata, spesso di durata limitata nel tempo e di rado con evoluzione progressiva. Centrale è per Bleuler il fatto che i disturbi psicoreattivi non sono dati dall’evento di per sé ma «si

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sviluppano sempre connessi con la personalità complessiva, rispecchiando le esperienze da questa acquisite nel corso della vita» ed è ritenuta in genere importante una predisposizione a reazioni psichiche morbose.

Meyer (1930), osservò che molti disturbi mentali potevano essere interpretati come reazioni ad esperienze di vita ed espressione dell’adattamento attivo dell’individuo alla realtà e alle circostanze sociali, pertanto riteneva indispensabile, per la corretta interpretazione dei casi clinici, adottare un metodo per indagare in modo cronologico le relazioni tra esperienze di vita e manifestazioni psicopatologiche (la psychobiological life history) (Biondi 1999).

In Europa a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta il concetto di quadri psicopatologici secondari e reattivi ad eventi evolve e matura per merito di K. Jaspers e K. Schneider che hanno sottolineato il ruolo della “reazione” ad eventi quale movente di disturbi psicopatologici.

Jaspers sviluppò il concetto di “reazioni ad avvenimenti”: avvenimenti di vita possono produrre quadri psicopatologici, alcuni mediati dall’intervento di meccanismi “normali” e “comprensibili” psicologicamente, da parte dell’osservatore, sul piano dell’esperienza vissuta, oppure quadri psicopatologici mediati da meccanismi anormali, in cui la comprensibilità non c’è o è molto scarsa. L’inquadramento di reazioni all’avvenimento, tuttavia, non risulta avere precisi correlati nosografici in diagnosi specifiche.

Secondo Schneider le reazioni abnormi all’avvenimento si differenziano da quelle normali per intensità, inadeguatezza rispetto al motivo, durata, con una serie di sfumature intermedie, da queste reazioni abnormi a quelle normali. Sul piano clinico si esprimono con quadri psichiatrici assai diversi, che includono depressione reattiva, disturbi somatici psicogeni, reazioni di spavento, stati crepuscolari, stati d’ansia fino ad alcuni quadri deliranti. Di rado, comunque, disturbi psicotici possono essere inquadrati secondo Schneider come reazioni all’avvenimento. Questa osservazione di Schneider è d’interesse perché contribuisce a chiarire la radice storica della scelta di DSM e ICD di limitare il Disturbo dell’Adattamento a disturbi non psicotici,

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lasciando solo il Disturbo Psicotico Breve come possibile alternativa per l’inquadramento di disturbi psicotici precipitati da eventi.

I precursori dell’odierno Disturbo Post-Traumatico da Stress sono le nevrosi da spavento ma anche le nevrosi di guerra. Quest’ultime fanno la loro comparsa al termine della prima guerra mondiale, ad opera di Ernst Simmel (1918) che per primo propose una patogenesi psicologica per quelle manifestazioni di shock osservate dai medici militari, denominandole nevrosi di guerra.

Negli Stati Uniti, un impulso decisivo alla loro caratterizzazione sarà dato dalla guerra del Vietnam e dai disturbi psichiatrici dei suoi reduci.

Più tardiva è l’introduzione dei Disturbi dell’Adattamento nella nosografia (Biondi 1999).

4.b) Attuale inquadramento nosografico

Nel DSM-IV/TR (quarta versione del Manuale Diagnostico-Statistico dei Disturbi Mentali-Text Revised dell’American Psychiatric Association, 2000) la classificazione si limita alla descrizione sintomatologica dei disturbi. Quelli correlati ad eventi, insieme ai disturbi secondari a malattie mediche od organiche, rappresentano delle eccezioni in quanto sono gli unici per i quali esiste un chiaro nesso temporale tra evento e patologia. I principi utilizzati per ordinare la nomenclatura sono tre: tipo oggettivo di evento, gravità della risposta del soggetto, durata delle conseguenze ed hanno permesso di distinguere tre categorie diagnostiche: Disturbo dell’Adattamento (DA), Disturbo Acuto da Stress (DAS), Disturbo Post-Traumatico da Stress (DPTS).

Una difficoltà all’interno di questa classificazione riguarda la definizione delle caratteristiche dell’evento. Mentre nel caso del DA qualunque evento stressante può essere assunto come evento indice responsabile della psicopatologia, nel DAS e nel DPTS è presente un criterio descrittivo specifico per l’evento “causale”. Dal DSM III fino all’attuale DSM-IV/TR si è assistito al crescere del peso attribuito all’esperienza soggettiva, pur continuando a richiedere

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specifiche caratteristiche di gravità oggettiva per l’evento-indice. Nel DSM-III l’evento doveva essere fuori dall’esperienza umana comune e tale da produrre significativi sintomi da stress nella maggior parte degli individui; nel DSM-III-R veniva richiesto che l’individuo avesse vissuto un evento che è al di fuori dell’esperienza umana consueta e che evocherebbe grave malessere nella maggior parte delle persone, per esempio una seria minaccia per la vita o l’integrità fisica propria o di altri o la distruzione della propria casa. Attualmente il DSM-IV-TR richiede l’esposizione a un evento traumatico con entrambe le seguenti caratteristiche: la persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte o minaccia di morte o gravi lesioni o una minaccia per l’integrità fisica propria o di altri; la risposta della persona comprendeva paura intensa, sentimenti di impotenza o di orrore.

Pertanto l’attuale nosografia ha molto ristretto la concezione di reazione ad eventi come entità clinica a sé stante. Si preferisce individuare la diagnosi descrittiva più adeguata e valutare la eventuale contemporanea presenza di eventi stressanti, senza far entrare nella diagnosi il concetto di reattivo.

Tuttavia, l’assunto teorico su cui si fonda il sistema di classificazione non deve essere assolutizzato poiché la presenza di concause endogene può influenzare la comparsa di queste sindromi cliniche: a parità di esposizione alla noxa ambientale la presenza di psicopatologia concomitante –sia a espressione conclamata sia sottosoglia- gioca un ruolo significativo. Inoltre la “patologia da stress” o “disadattativa” non è un fenomeno qualitativo di tipo tutto-nulla, ma piuttosto una risposta disfunzionale che si distribuisce lungo un gradiente salute-malattia (Charney, 2004; De Kloet et al., 2005). Inoltre, l’aspettativa soggettiva (implicita) delle vittime e i parametri di riferimento oggettivi (espliciti) del valutatore, in ordine al possibile sviluppo di disagio mentale, come conseguenza dell’esposizione a un determinato evento, dipendono e vengono interpretati secondo la cultura di appartenenza. Nel caso delle patologie determinate da una interazione fra caratteristiche individuali e fattori ambientali l’applicazione del concetto di “causa” risulta problematico, laddove nessuna tra le condizioni multifattoriali implicate nella

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comparsa di un fenomeno può dirsi la causa dello stesso: semmai è a volte possibile affermare che una (o alcune) fra esse sia necessaria (ma non per questo sufficiente) al verificarsi dell’esito, con un peso variabile da caso a caso. L’approccio scientifico è fondamentale per una corretta lettura dei fenomeni e interpretazione dei risultati degli studi in questo campo: infatti, data la complessità dei fenomeni e la difficoltà a costruire disegni di ricerca, si è esposti al rischio di accettare come “causali” delle relazioni tra fenomeni destinate a rivelarsi solo apparenti.

4.c) Limiti dell’inquadramento diagnostico della patologia da eventi

Nonostante la diffusione ubiquitaria dei grandi sistemi diagnostici categoriali come il DSM, molti ricercatori avvertono la necessità di ulteriori evoluzioni del sistema nosografico. Fra le ragioni generali vengono adottate la rigidità delle soglie sintomatiche previste dai criteri diagnostici, la parziale indipendenza dei raggruppamenti sintomatici presenti all’interno di ciascun disturbo o all’opposto la possibile sovrapposizione di sintomi fra disturbi diversi. In questo come in altri settori della psichiatria alcuni problemi potrebbero essere affrontati adottando un approccio classificativo di spettro, che in questo caso dovrebbe prendere in considerazione almeno tre assi concettuali: la natura dello stressore, la modalità di risposta individuale, la gravità dei sintomi (Moreau e Zisook, 2002). Ipotizzando un’ampia ristrutturazione del sistema classificativo, numerosi quadri clinici potrebbero essere inseriti nel continuum di uno spettro post-traumatico centrato sul DPTS: Psicosi reattiva breve, Disturbo acuto da stress, Disturbi dissociativi, Disturbo borderline di personalità, Disturbo di personalità post-traumatico, Depressione maggiore post-traumatica, Disturbi d’ansia post-traumatici, Disturbo dell’Adattamento (Horowitz, 1997). Questi disturbi, pur essendo accomunati dal meccanismo traumatico, risultano eterogenei sotto altri punti di vista. Per esempio in associazione con il DPTS si presentano spesso il Disturbo di Panico e la Depressione Maggiore, ma mentre per il primo i meccanismi neurobiologici condivisi con la sindrome post-traumatica sembrano superare quelli indipendenti, per la seconda sarebbe vero il contrario. Invece il

Figura

Figura 1. Variabili per valutare il potenziale stressogeno di una mansione

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