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sommario Terza Serie Anno trentanovesimo novembre-dicembre 2021 bimestrale di politica, economia e cultura EdizionidellaMeridiana

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sommario

Cari lettori p. 3

Romanello Cantini, Quella che forse sarà

la terra di domani 5

Elena Tempestini, Papaveri rossi 11

Franco Lucchesi, Dietro i no vax 15

Gianni Conti, L’importanza di chiamarsi Draghi 19 Massimo Ruffilli, Italia, una Repubblica

presidenziale? 21 Ettore Bonalberti, Come i polli di Renzo? 25

Roberto Paolucci, Prima la persona 29 Giovanna Ceccatelli, L’attualità della scuola

di Barbiana 33

Francesco Gurrieri, Beni culturali e musei di Stato 39 Alberto Giorgi, L’economia circolare

e la valorizzazione dei rifiuti 55 Marco Jodice, Fare e disfare… (seconda parte) 59

Mario Preti, Tursiopi/Tursha, Tursenoi,

Turrenoi, Tirreni (prima parte) 69 Francesco Bandini, Dalla “Berakah”

all’Ultima Cena 79 Gabriele Parenti, Julie: nella Nouvelle Héloïse

il dramma di una personalità fragile,

intrepida, passionale 85 Piero Cioni, I Lorena e la Toscana. Francesco III 91

Giovanni Malanima, Il cenotafio di Dante

in Santa Croce 97 Ilaria C. Urciuoli, Macchiaioli, la bellezza

quotidiana dell’Italia del Risorgimento 101 Carlo E. Casini, Quasi quasi ammazzo un muflone 107 Corrado Marsan, Margherita Guidacci 113

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Terza Serie

Anno trentanovesimo novembre-dicembre

2021

bimestrale di politica, economia e cultura

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Associazione Idee di Governo idee di governo

bimestrale di politica, economia e cultura (già il governo)

diretto da Franco Lucchesi condiretto da Gianni Conti

Una rivista libera, curata da volontari, che vuole aiutare a riflettere sul nostro tempo, sulle nostre città, sulla nostra cultura. È distribuita gratuitamente agli iscritti all’As- sociazione Idee di Governo che riceveranno sia i sei numeri che le eventuali uscite straordinarie dell’anno.

Quota associativa annuale ordinaria euro 50,00 Quota associativa annuale sostenitore euro 100,00 I versamenti si effettuano tramite

- bonifico bancario a favore di «Idee di Governo»

iban: it90w0306902901100000007695 - PayPal da sito internet www.ideedigoverno.it I numeri singoli sono acquistabili a Firenze - presso l’edicola giornali di piazza San Marco

- presso la Libreria Salvemini (piazza Salvemini 18, tel. 055 2466302)

Registrazione, ai sensi della legge 8.2.1946 n. 47, in data 2.4.2019 al n. 6096 del pubblico registro tenuto presso la Cancelleria del Tribunale di Firenze

Le immagini di questo numero sono opera di Marco Jodice e Andrea Ulivi

Direttore responsabile Massimo Ruffilli

Coordinamento editoriale Ass. Idee di Governo, via Carrand 19 - 50133 Firenze Editor-in-chief Andrea Ulivi

Stampa Polistampa, Firenze

isbn 978-88-6007-383-9

© 2021 Capire Edizioni, Forlì

Edizioni della Meridiana, Firenze edmeridiana@gmail.com

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Cari lettori,

ci lasciamo alle spalle un altro anno di incertezza e di paure, con la speranza che alla fine anche questa dura prova venga archiviata e si possa tornare veramente a una piena vita di relazione.

Abbiamo cercato di tenervi compagnia uscendo con buona regolarità, anche se è stato uno sforzo non da poco.

Affrontiamo il nuovo anno con la stessa voglia di portare un piccolo contributo non solo a un modo meno banale di passare il tempo, ma anche cercando di approfondire i molti problemi che stanno di fronte a un Paese un po’ sbandato e come impaurito.

Solo che abbiamo veramente bisogno del vostro sostegno attraverso la sottoscrizione dell’abbonamento. È questa la fonte prima di finan- ziamento e di copertura delle spese. Ed è la sola fonte che giustifica, attraverso il vostro apprezzamento, l’impegno che mettiamo nel fare una rivista e nel farla uscire con regolarità.

Ecco perché confidiamo ancora nella vostra stima.

Quest’anno abbiamo intenzione di ripartire finalmente con gli in- contri in presenza: un modo importante per approfondire i temi sul tappeto, da quelli politici nazionali a quelli amministrativi delle nostre città. Saranno ulteriori impegni di tempo e di risorse ma siamo certi che ne varrà la pena.

Vi ringraziamo per la fiducia che ci avete dimostrato seguendoci in questi anni e siamo certi che ce la confermerete sottoscrivendo l’ab- bonamento e versando la quota di 50 euro sul nostro conto con l’Iban che vi ricordiamo: IT90W0 3069 0290 1100 00000 7695.

Buon anno a tutti!

Il Comitato di Redazione

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Giuseppe Abbati, Dalla cantina di Diego Martelli, 1866 ca., olio su tavola, cm 38x29, collezione privata

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quella che forse

sarà la terra di domani

di Romanello Cantini

I deludenti risultati dei vertici sul clima e la lentezza con cui i governi degli Stati si stanno impegnando per fermare il riscaldamento del pianeta rendono necessario avere consapevolezza piena sulle conseguenze che ci attendono, sperando che questa generale presa di coscienza costringa i riottosi a intervenire prima che sia veramente troppo tardi.

I

risultati raggiunti dal vertice sul clima Cop26 a Glasgow sono abbastanza al di sotto delle aspettative degli ambientalisti e in ogni caso costituiscono un accordo al ribasso rispetto alle ambizioni ini- ziali e anche a intese precedenti. Per quanto riguarda la scelta decisiva e fondamentale della neutralità carbonica si sono fatti addirittura dei passi indietro rispetto agli accordi di Parigi del 2015. In quel docu- mento era stato approvato l’impegno a raggiungere «il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra il più presto possibile» e a eliminare le emissioni di CO2 al di sopra dell’assorbimento naturale (la cosid- detta neutralità carbonica) «nella seconda metà del corrente secolo»

(articolo 4). Su queste premesse l’Unione Europea si era impegnata con la sua decisione definitiva di giugno a ridurre di oltre la metà le sue emissioni entro il 2030 e a dire addio ai combustibili fossili prima del 2050. A Glasgow si è deciso invece di dimezzare le emissioni di carbone in trent’anni e cioè entro il 2050. Inoltre, soprattutto su pres- sione dell’India, l’obiettivo dell’eliminazione delle centrali a carbone è stato sostituito con il proposito più blando della loro “riduzione graduale” dando il via libera alla sopravvivenza a tempo indeterminato di almeno una parte di un’energia fossile a cui si deve l’emissione della metà di tutta l’anidride carbonica presente nell’atmosfera. A questo punto, per rendersi conto di ciò che il nostro pianeta può aspettarsi

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cantini

nei prossimi decenni, va tenuto presente che a fine ottobre, alla vigi- lia dell’incontro di Glasgow, il rapporto Emission Gap dell’Unep – il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente – avvertiva che senza il dimezzamento delle emissioni entro il 2030 la temperatura alla fine del secolo sarebbe aumentata di ben 2,7 gradi. Anche se dobbiamo ancora aspettare ciò che sarà deciso al prossimo Cop27, che si ter- rà l’anno prossimo in Egitto, oggi gran parte degli esperti e degli scienziati ritiene che l’aumento della temperatura di un solo grado e mezzo che si continua a promettere, rimane una semplice pia in- tenzione destinata a essere ampiamente superata se non raddoppiata.

Se così fosse, gli scenari che si aprono per il nostro pianeta nel corso di questo secolo sono ormai stati descritti in molti studi scientifici e in ricerche specifiche. Con la crescita del livello del mare cinquanta città portuali saranno allagate periodicamente o costantemente. Venezia, che negli ultimi venti anni è stata invasa ben cento volte dall’acqua alta oltre il metro, finirà per essere costantemente allagata. Amster- dam, posta come il resto dei Paesi Bassi sotto il livello del mare, può subire da vicino la stessa sorte. Perfino i quartieri di Londra saranno minacciati dall’innalzamento del Tamigi. In America sono a rischio di inondazione New York, San Francisco, Miami, Città del Messico. Nel resto del mondo saranno sommerse città meno viste al cinema, ma che sono immensi formicai umani per numero di abitanti. Secondo uno studio di Nature Communications tre quarti della città di Bom- bay, la capitale industriale dell’India con i suoi 21 milioni di abitanti, sarà sommersa dall’acqua entro i prossimi trent’anni. La stessa sorte rischia in Cina Shanghai, la città più popolosa del pianeta con i suoi trenta milioni di abitanti e in Africa una città di 10 milioni di abitanti come Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo.

Non solo città ma intere regioni dovranno difendersi dall’acqua.

Secondo uno studio ancora di Nature Communications saranno mi- nacciati dalle inondazioni entro la fine del secolo oltre 600 milioni di uomini che vivono nelle più diverse regioni del mondo. 5 milioni si trovano anche nei Paesi Bassi e 3 milioni nel Regno Unito, ma la maggior parte saranno a rischio in Asia, con 36 milioni in India, 43 milioni nel Bangladesh, 24 milioni in Indonesia e 94 milioni in Cina.

Un terzo del territorio della Cambogia, già periodicamente sottopo- sto ad alluvioni e uragani, e un terzo del territorio del Bangladesh che si trova a meno di cento chilometri dalla costa ed è appena sollevato sopra il livello del mare, finiranno con tutta probabilità sottacqua en- tro la fine del secolo. In Vietnam finirà sommerso il delta del Mekong, l’immenso labirinto di fiumi, paludi e isole grande come la Svizzera

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quella che forse sarà la terra di domani

che nutre con la pesca e con il riso ventuno milioni di abitanti. In Mozambico naufragherà la sua grande pianura punteggiata di bao- bab e in Kenya sarà inondata l’intera sua costa lunga quattrocento chilometri e oggi grande meta turistica.

Le altre grandi vittime del riscaldamento saranno i fiumi. Secon- do uno studio di Scientific Reports, l’80% di quarantuno estuari di fiumi nel mondo arretrerà di almeno cento metri rispetto alla loro foce attuale. Lo scioglimento dei ghiacciai e l’aumento della siccità e dell’evaporazione saranno capaci di far scomparire grandi fiumi oltre che ridurre di molto la loro portata. Secondo un’inchiesta con- dotta dal «Washington Post» fra un gruppo di scienziati, il Gange, il grande fiume-divinità in cui ogni indiano si deve immergere per farsi perdonare i peccati, si seccherà entro il 2030 perché il ghiacciaio Gangotri che lo alimenta sull’Himalaya si sta sciogliendo a grande velocità. Anche l’Indo e il Brahmaputra intorno alle cui rive vivono centinaia di milioni di esseri umani sono sottoposti alla stessa mi- naccia seppure più diluita nel tempo. Dopo il 2050 tutti i grandi fiumi che oggi provengono dall’Himalaya e che irrigano Cina, India, Nepal, Bangladesh e Pakistan diminuiranno la loro portata con lo scioglimento dei ghiacciai che li alimentano. Secondo l’International Centre for Integrated Mountain Development (Icimod) di Katmandu in Nepal, dell’enorme distesa dei quindicimila ghiacciai dell’Himalaya, alla fine del secolo ne sarà rimasta solo la metà. In Africa scomparirà il Niger, il grande fiume lungo oltre quattromila chilometri che ha dato il nome alle due nazioni della Nigeria e del Niger e che già oggi si sta progressivamente insabbiando per le stagioni delle piogge sempre più brevi. Con molta probabilità anche il fiume Zambesi metterà fine allo spettacolo delle sue acque che si gettano nel lago Vittoria con le famose cascate che una volta si estendevano per un chilometro e mezzo e che oggi si riducono a qualche zampillo su una grande scar- pata arida. Negli Usa diventerà definitivamente asciutto anche il letto del Colorado, il fiume che è vissuto così a lungo da avere il tempo di scavare il Gran Canyon e che già oggi non riesce più a far giungere le sue acque fino alla foce nel golfo del Messico.

Scompariranno anche laghi dalla lunga storia. Diventerà deserto il letto del lago d’Aral al confine fra Uzbekistan e Kazakistan, forse il più antico lago della terra, un’immensa riserva d’acqua che cinquanta anni fa veniva per estensione subito dietro al mar Caspio e che da allora ha perso i tre quarti della sua superficie assediato da un deserto di sabbia arsa e salata. Anche al Mar Morto, fra Israele e Giordania, il cui livello scende di un metro all’anno, si danno ormai pochi anni di

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cantini

vita. Si prosciugherà in Africa definitivamente il lago Ciad, già ridotto a un decimo di quello che era una volta e su cui si affacciano ben quattro stati africani e trenta milioni di persone. In Bolivia si ridurrà a un deserto di sale il lago Poopó che una volta aveva un’estensione di oltre duemila chilometri quadrati, vale a dire sei volte il nostro lago di Garda e che già ora è ormai un’enorme crosta di sale a quasi quattromila metri di altezza.

Secondo uno studio dell’agenzia France Montagne, tra trent’anni le oltre trecento stazioni sciistiche francesi collocate sotto i 1700 metri di altitudine avranno chiuso i battenti perché non vedranno più la neve.

Negli ultimi tre decenni i ghiacciai delle Alpi si sono ridotti della metà e secondo uno studio pubblicato un anno fa, con un aumento della temperatura di tre gradi alla fine di questo secolo i ghiacciai alpini, che ancora trent’anni fa coprivano un’area grande come la provincia di Firenze, si saranno sciolti. Rimarranno solo i pochissimi ghiacciai superstiti oltre i 3500 metri sulle cime del Monte Bianco, del Gran Paradiso e del Cervino e per il resto non ci saranno più nevi eterne sulle nostre montagne. La maestosa e imponente massa di ghiacciai della Cordigliera Bianca che copre le Ande fino a un’altezza di quasi settemila metri e che da sola contiene un terzo della quantità di ghiac- cio esistente al di fuori dei poli, è già diminuita della metà del suo volume in quarant’anni provocando la nascita di un migliaio di laghi montani, figli ognuno della liquefazione di un ghiacciaio. Secondo il rapporto del 2018 dell’agenzia peruviana National Institute for Re- search on Glaciers and Mountain Ecosystems (Inaigem) la Cordigliera Bianca sarà scomparsa alla fine di questo secolo. In Africa le nevi del Kilimangiaro, le uniche dell’Africa a quasi seimila metri di altezza, rese famose dal romanzo di Hemingway quando erano cinque volte più estese di quelle di oggi, hanno, per quel che ne rimane, una pre- visione di sopravvivenza di non più di quindici anni.

Nel settembre scorso, parlando all’assemblea dell’Onu, Ibrahim Mohamed Solih, il presidente delle isole Maldive, ha detto: «La dif- ferenza fra aumento di 1,5 gradi e 2 gradi è una sentenza di morte per le Maldive». A Glasgow Mia Mottley, la presidente delle Barbados, ha ripreso la stessa espressione: «Due gradi è una condanna a morte per il popolo di Barbuda, di Antigua, delle Maldive, della Dominica, del Kenya e del Mozambico, e per il popolo di Samoa e delle Barbados».

Nelle Barbados la vetta più alta è a 350 metri sul livello del mare.

Ad Antigua è a 400 metri. Nelle isole Salomon è a 63 metri. Tutti questi grandi arcipelaghi di isole coralline che emergono appena a fior d’acqua sono minacciati nella loro esistenza. Secondo un team

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quella che forse sarà la terra di domani

di scienziati dell’agenzia americana Climate Center, con un aumento della temperatura di tre gradi scomparirebbe il 90% delle isole Mal- dive, delle isole Marshall e delle isole Bahamas.

Le conseguenze del riscaldamento si faranno sentire, in un modo o nell’altro, su tutta la popolazione del pianeta. Secondo il Worldwatch Institute di Washington, il miliardo e quattrocento milioni di per- sone che nel mondo già devono combattere con la siccità potrebbe diventare cinque miliardi a metà del secolo. L’85% delle popolazioni africane già subisce le conseguenze dell’inaridimento della terra e del- la diminuzione della piovosità. Secondo un rapporto Oxfam, con un aumento della temperatura di due gradi, i prezzi dei generi alimentari dovrebbero quasi raddoppiare e i paesi in via di sviluppo dovrebbero spendere 270 miliardi di dollari in più all’anno per nutrirsi. L’aumen- to del costo del cibo in conseguenza del minore rendimento agricolo colpirà soprattutto quelle popolazioni che devono spendere quasi tutto quello che guadagnano per sfamarsi. Le ultime stime dell’Onu prevedono addirittura un’inversione di tendenza nella lotta contro la fame che negli ultimi vent’anni ha fatto dei notevoli progressi, con il passaggio dalla costante riduzione all’aumento di oltre cento milioni di uomini fra coloro che soffrono la fame.

Già oggi i migranti a causa del cambiamento climatico si calcolano in 50 milioni. Secondo una ricerca dell’americana National Academy of Sciences basterebbe addirittura un grado in più nella temperatura del pianeta per spingere 200 milioni di persone nel mondo ad abbando- nare il proprio Paese. Uno studio della Banca Mondiale ha previsto in 216 milioni il numero delle persone che saranno spinte a emigrare dai cambiamenti climatici, se il livello delle emissioni continuerà al ritmo attuale. La maggior parte (86 milioni) sono quelle che si muo- veranno nell’Africa subsahariana, la parte del pianeta dove ancora più si vive di agricoltura e più si dipende dalla pioggia, e 19 milioni abbandoneranno la loro terra in Africa del Nord, una delle regioni più povere di acqua del pianeta e più invase dal deserto. 49 milioni se ne andranno in Asia orientale e 40 milioni nell’Asia meridionale, dove cicloni, uragani e inondazioni colpiscono una popolazione ammassa- ta lungo le coste. In genere il movimento spingerà decine di milioni di persone a trasferirsi anche dall’America Latina e dall’Europa orientale verso gli Stati Uniti e l’Europa occidentale. In particolare, la ricerca mette in rilievo che la siccità spingerà all’emigrazione dalla Tunisia, dall’Algeria, dal Marocco, con primo punto di approdo proprio l’I- talia, nonostante in questi paesi non ci siano guerre né particolari persecuzioni contro una parte della popolazione.

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cantini

Anche se i sostenitori del “tempo ormai scaduto” non sono pochi, ci sono ancora margini di recupero per evitare, magari al “novantesimo minuto”, la condanna al peggiore dei mondi possibili. Molto dipen- derà dalla concretezza che si riuscirà a dare, da qui in avanti, a molte delle promesse di Glasgow che sono rimaste estremamente generiche per ottenere il consenso di tutti. Conoscere il mondo che i nostri figli e i nostri nipoti potranno trovarsi davanti è il modo più convincente per misurare la posta in gioco di una partita che dobbiamo giocare oggi, e non domani.

Romanello Cantini, giornalista

Silvestro Lega, L’elemosina, 1864, olio su tela, cm 71,8x124, collezione privata

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papaveri rossi

di Elena Tempestini

Il papavero rosso, un simbolo, una poesia, una canzone; ma anche il segno di un cambiamento nella geopolitica del mondo che ridisegna rapporti di forza, alleanze, conflittualità trasversali in vista di nuovi equilibri non necessariamente frutto di guerre.

O

gni anno alle ore undici dell’11 novembre, nei paesi del Com- monwealth, si osservano due minuti di silenzio, per ricorda- re tutte le vittime delle guerre che sono state combattute nel xx e xxi secolo. Non solo la prima Grande Guerra, ma anche quelle di Iraq e Afghanistan. Quest’usanza fu istituita da re Giorgio v nel 1919 per proseguire fino ai giorni nostri.

La ricorrenza è conosciuta come Remembrance Day o Poppy Day, e ha come simbolo un fiore di papavero. Come mai questo fiore?

Perché il papavero è il primo fiore a sbocciare su un campo dove è avvenuta una battaglia. Fu celebrato dalla poesia In Flanders Fields (Nei campi delle Fiandre), scritta il 3 maggio del 1915 da John McCrae, un medico chirurgo impegnato in un campo dell’artiglieria canade- se. Nelle sue rime descrisse i papaveri che crescevano tra le tombe dei soldati. La grande diffusione del fiore era aiutata dal nitrato di ammonio, un semplice fertilizzante molto usato per costruire degli esplosivi potenti. Il colore naturale del papavero fece in modo di dare enfasi all’associazione mentale tra il rosso dei petali e quello del sangue. La poesia fu pubblicata in forma anonima nel dicembre dello stesso anno su una rivista. Fu letta da Moina Belle Michael, una pro- fessoressa americana impegnata in attività umanitarie, che ne rimase talmente colpita da rendere il papavero il simbolo del sacrificio dei caduti in guerra.

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In Italia, la sensibilità poetica di Fabrizio De André gli fece scrivere la canzone La guerra di Piero; la storia di un soldato che in un moto di clemenza verso un militare nemico, non osò sparargli e questa esitazione gli fu fatale, ricevendo dal nemico un colpo che lo uccise:

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papaveri rossi

«Dormi sepolto in un campo di grano, non è la rosa non è il tulipano

che ti fan veglia dall’ombra dei fossi, ma sono mille papaveri rossi».

Parole di pace, a ricordare che in guerra tutti perdono e nessuno vince mai veramente.

Perché questo Poppy Day 2021 potrebbe essere una data da ricordare nel futuro?

In questo anno – e specialmente negli ultimi mesi – ci sono sta- te importanti trasformazioni geopolitiche mondiali. Il mondo sta cambiando con una velocità e intensità che sembrano spesso senza precedenti.

Tenendo bene a mente un precetto di Winston Churchill, la regola base che dice che: «senza un orientamento, il popolo è perduto», possiamo anche comprendere che le previsioni non si rivelano sempre completamente esatte, dal momento che nessuna tendenza è immu- tabile e che, come spesso avviene, possono verificarsi eventi impreve- dibili che alterano prepotentemente il corso della storia.

Così, l’inarrestabile ascesa dell’Asia sembra mettere alle spalle circa due secoli di predominio mondiale da parte del continente europeo e degli Stati Uniti d’America. La globalizzazione non potrà fermarsi, proseguirà; ma gli attori saranno in continuo cambiamento e soprat- tutto con valori molto diversi. Sarà proprio questo gap a mettere in contrapposizione i principali protagonisti della scena mondiale.

La nuova alleanza tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, siglata il 15 settembre del 2021 con l’acronimo di aukus, è avvenuta solo poco più di un mese prima dell’evento del G20 tenutosi a Roma. Il vertice di ottobre ha puntato a facilitare la condivisione di informazioni e la cooperazione in aree strategiche. E se il G20 ha messo in evidenza le parole chiave – persone, pianeta e prosperità – atte a produrre i concetti di innovazione, responsabilità e creatività, non possiamo tralasciare che “il nuovo, vecchio asse tripartito” nell’Indo-Pacifico rinsalda l’al- leanza anglo-americano-australiana.

A difesa dall’influenza cinese creatasi nell’area indo-pacifica, l’Au- stralia si è dotata di una flotta di sottomarini a propulsione nucleare prodotti nel Regno Unito che ha messo fuori gioco la commessa miliardaria che doveva essere stipulata tra Canberra e la Francia, creando una frattura con Parigi. L’estromissione francese dalla commessa si è di fatto mostrata nei suoi intenti, allontanandoli da partner preziosi all’interno dell’Indo-Pacifico, dove vivono oltre un milione e mezzo di francesi dei territori d’Oltremare e che racchiude

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tempestini

il 90% della zona economica esclusiva francese. Possiamo dire in assoluto la più grande del mondo.

La complessa situazione che si è creata tra alleati Nato non è di sempli- ce soluzione. Nel momento in cui la Cina, per volere degli Stati Uniti d’America, è entrata nell’agenda dell’Alleanza atlantica, si è creata una competizione, una rivalità per mantenere il vantaggio tecnologico e militare. La rivoluzione tecnologica, infatti, con le sue applicazioni incide su quasi tutti i settori e gli aspetti della società. La tecnologia digitale è in continuo cambiamento; la progettazione informatica, entro il 2025, dovrà contare su una cooperazione internazionale per il lavoro di standardizzazione di tutti i settori.

Dovrà essere creato anche un fronte per la difesa da qualsiasi attacco, ma non per questo dovrà necessariamente attivare un conflitto. Una sorta di nuova guerra fredda che ricorda gli Accordi di Helsinki, forse il primo seme che ha visto nascere la Russia di oggi. Un passaggio importante nella storia, in quanto l’atto finale di Helsinki pose le basi per costruire la pace europea.

Quel distintivo a forma di papavero rosso, sfoggiato da Boris John- son, dal principe Carlo e dal canadese Justin Trudeau, davanti alla Germania e alla Francia, potrebbe anche essere il simbolo della nascita di una flotta oceanica che ambisce a proiettare le proprie forze anche a grande distanza, una visione strategica, asimmetrica ma anche “mor- bida” nella protezione dello scacchiere dell’Indo-Pacifico.

A ricordo della poesia dei papaveri rossi: che nella divisione e nella guerra, possiamo essere tutti perdenti.

Elena Tempestini, giornalista e scrittrice

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dietro i no vax

di Franco Lucchesi

Le proteste contro il vaccino e il green-pass non vanno sottovalutate perché la loro consistenza e durata mostra la presenza anche inconscia di uno stato d’animo di paure e rabbia che ha la sua origine in anni di impove- rimento della classe media e di insensibilità della politica.

L

e manifestazioni di protesta che hanno accompagnato la cam- pagna di vaccinazione contro il virus del Covid-19 hanno sor- preso un po’ tutti. Erano troppo recenti i sentimenti di dolore per le decine di migliaia di persone stroncate da questo virus e quelli di paura per la sua subdola capacità di diffondersi e infettare, per pensare che uno strumento in grado di bloccarne l’azione o anche solo attutirne gli effetti non sarebbe stato accolto con unanime sollievo e apprezzamento. Così non è stato. E se ha sorpreso che ci siano state persone che hanno contrastato la sola azione che la scienza metteva a disposizione per fronteggiare la pandemia, hanno sorpreso ancor di più sia il loro numero che la pervicacia della loro protesta. Una protesta, fra l’altro, estesa a buona parte del mondo occidentale, quel- lo ritenuto più evoluto e responsabile. La visceralità delle posizioni espresse da questi manifestanti, l’irrazionalità di molti ragionamenti, il disprezzo per l’evidenza di fatti e dati, l’inconsistenza delle mo- tivazioni ha portato e porta molti a liquidare il fenomeno nel suo complesso relegandolo o a espressione di sottocultura o a strumentale occasione di presenza per movimenti violenti e marginali al sistema.

Una lettura che certamente ha una parte di verità, ma che a un esame più attento appare superficiale e incapace di cogliere quanto di vera- mente allarmante si agita nel profondo di quel certo stato d’animo che si manifesta in modo così apparentemente grossolano. Anche

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lucchesi

perché non sono poche le voci di rifiuto e contestazione che si levano da persone con buon livello di cultura, con posizioni di rilievo nelle professioni e nella società, con storie di impegno sociale.

Inoltre, i temi agitati non toccano tanto l’efficacia dei vaccini e gli aspetti più squisitamente sanitari, quanto piuttosto – come viene gridato ai quattro venti – la compressione delle libertà individuali, le prevaricazioni delle autorità di governo e la dittatura delle multina- zionali, in questo caso quelle del farmaco.

Sono dunque diversi gli elementi che portano a chiedersi cosa ci sia veramente dietro questo moto di protesta e a non fermarsi agli aspetti più folcloristici o irrazionali. Elementi che suffragano l’ipotesi che, in realtà, questa esplosione di rabbia sociale sia il prodotto di un pro- cesso di accumulo progressivo di ansie e di recriminazioni che hanno avuto il loro acme nella paura del Covid e che hanno visto nelle nuove restrizioni selettive applicate in base ai vaccini il detonatore che ha fatto saltare il coperchio di questa grossa pentola in ebollizione.

In effetti ansia, scontento e rabbia hanno sostanzialmente accompa- gnato tutto il primo ventennio del secolo nel quale, cadute le illu- sioni di un nuovo ordine mondiale incentrato sulla pax americana, si è consumata una rivoluzione sociale che ha spazzato via gli assetti formatisi nel lungo e prospero dopoguerra del secondo Novecento.

Sono stati venti anni segnati dal terrorismo, da guerre, da crisi eco- nomiche, dall’accentuarsi delle disuguaglianze economiche e sociali, da un generale impoverimento, soprattutto di quella classe media che, dalla Rivoluzione francese in poi, aveva costituito l’ossatura delle economie e delle democrazie dell’Occidente evoluto.

Tutto questo è accaduto auspice una classe politica che prima ha ca- valcato l’illusione di un liberismo sfrenato quale modello in grado di garantire sviluppo continuativo e di autoregolarsi, poi, di fronte alle crisi speculative e alle storture del modello, si è dimostrata incapace di correre ai ripari e di ripristinare almeno quel minimo di regole in grado di riportare un po’ di equilibrio nella competizione sui mercati.

Se a queste criticità aggiungiamo gli egoismi degli stati che si sono chiusi a qualsiasi ipotesi di condivisione sovranazionale, l’impossibilità di affrontare disoccupazione e crisi sociali in un sistema deregolato e completamente aperto alla concorrenza, la volatilità di un elettorato privo di riferimenti ideologici, la ripulsa dei momenti e dei soggetti della mediazione (dai partiti alla stampa e ai media), l’affermarsi della stagio- ne dei diritti rispetto a quella dei doveri, il dilagare attraverso i social della comunicazione e dell’informazione incontrollata e spesso falsa, si comprendono fenomeni come i populismi e l’astensione dal voto.

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dietro i no vax

E si comprende lo stato d’animo di frustrazione e di paura del futu- ro che porta a chiudersi nella protezione del proprio particulare e a coltivare sentimenti di rabbia e di contestazione, soprattutto di una qualsiasi autorità che comunque si imponga ma che non è in grado di risolvere i problemi esistenziali di quanti sono stati espulsi dalla tavola di una abbondanza che si è concentrata su pochi, potenti e protetti.

Le manifestazioni di protesta, anche irrazionali, che hanno accom- pagnato le campagne vaccinali in nome di una libertà compressa e denegata hanno anche – se non soprattutto – questo retroterra alle spalle. Ci sono senz’altro i contrari ai vaccini, o a questo vaccino, per motivazioni sanitarie in cui credono ciecamente, ma in generale chi è sceso in piazza a protestare, anche senza riuscire a spiegarlo, ha espres- so un disagio represso e accumulato progressivamente nel tempo che ha trovato in quella protesta l’occasione per manifestarsi apertamente.

Questi fattori generali di frustrazione e di rabbia non dovrebbero essere ignorati. Anche perché, se nel caso specifico hanno costituito il terreno fertile su cui i no vax hanno fatto leva per diffondersi e trovare consensi altrimenti insperati, anche se e quando la vicenda Covid si dovesse concludere, questo retroterra resterà con tutta la sua carica di rabbia, di individualismo, di anarchia. E sarà pronto a riproporsi per qualsiasi altra situazione che offra occasione di manifestarsi.

È dunque un errore liquidare queste espressioni di dissenso eviden- ziando la loro irrazionalità e spesso la loro stupidità.

Occorre andare più a fondo e cogliere l’ansia di speranza disattesa che caratterizza molta parte dei sentimenti manifestati, sia pure con argomenti di superficialità e non senso, da chi è sceso in piazza for- malmente contro l’obbligo vaccinale.

E occorre, allora, dare a questo scontento una risposta positiva e farlo in fretta, se non si vuole che questi sentimenti si radicalizzino e si diffondano mettendo a rischio la stessa democrazia. Su questi stati d’animo, infatti, fanno leva sia quanti auspicano risposte autoritarie, sia quanti invocano sovranismi e autarchie. E non è casuale che sia in atto un processo di critica verso le democrazie occidentali reputate inadatte a fronteggiare le situazioni di emergenza.

Sta dunque al governo, ma soprattutto a Parlamento e partiti, dare una risposta efficace e sollecita alle ansie e alle attese delle fasce sociali più indebolite dalle crisi, dalle tasse, dalla disoccupazione, dall’infla- zione e da ultimo anche dalla pandemia.

Avendo cura di non limitare questa attenzione agli aspetti squisitamen- te economici, magari in una prospettiva di breve periodo che risparmi di dover fare quelle riforme di sistema così difficili da definire e attuare.

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Certo, sostenere il potere d’acquisto di quanti sono stati impoveriti dalla miopia della politica e dagli interessi egoistici della grande finan- za è comunque un passaggio doveroso e importante, ma non basta.

Almeno qua da noi la depressione che l’ultimo rapporto Censis rileva come stato d’animo diffuso degli italiani necessita di un supplemento di coraggio e di fantasia, un colpo d’ala che riapra una prospettiva di speranza che impegni un arco temporale lungo e individui una ragione forte di rinnovato impegno verso cui indirizzare le energie migliori che il Paese può esprimere, a partire dai giovani e dalle donne.

C’è bisogno di visione e di certezza nel futuro. E non mancano obiet- tivi necessari e ambiziosi attorno a cui trovare consenso: lavoro e ambiente sembrano proprio i due appuntamenti capaci di mobilitare e di motivare; e sono gli appuntamenti che, almeno a parole, tutti dichiarano di voler affrontare. Ciò che manca è la determinazione nel perseguirli e soprattutto la visione di un nuovo modello di sviluppo in cui inserirli. Una visione capace appunto di restituire speranza perché rappresentazione di una nuova stabilità nel segno di una rinnovata giustizia sociale e non casuale o estemporanea azione di breve durata e incapace, quindi, di reale cambiamento.

Nessun partito, al momento, sembra orientato a caratterizzare la pro- pria azione politica in questo senso e tutto il dibattito è assorbito dalle schermaglie attorno alle nuove maggioranze o al nuovo presidente della Repubblica. Ma quanto potrà durare questa insensibilità prima che tutto sia messo a rischio?

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l’importanza di chiamarsi draghi

di Gianni Conti

L’incertezza del momento, non solo per la pandemia ma anche per la politica, se da un lato apre una prospettiva di ruolo ad attori politici che si richiamino all’esperienza dei cattolici democratici, dall’altro imporrebbe la conferma dei protagonisti di questa tenue ripresa.

I

n moltissimi paesi, soprattutto in quelli più poveri e in via di svi- luppo, la sicurezza sociale di questa lunga stagione di pandemia è pressoché assente. Povertà, guerra, disagio sociale, malattia, incre- mentano una ripresa sempre più consistente di fughe verso un ideale di salvezza e futuro, con numeri elevatissimi di profughi e sbarchi.

In questo contesto di generale pressione per la ripresa crescente dei numeri del Covid-19, con paesi dell’Europa centrale e orientale forte- mente prostrati da una recrudescenza del virus, il malessere che l’Italia sta vivendo sul piano politico sembra non essere più tanto causato dalla pandemia e dalla crisi economica che ci ha investito quanto dallo stato di incertezza per il risultato che le prossime elezioni politiche potrebbero rivelare.

Elemento non trascurabile di questa incertezza è da ricercare anche nelle decisioni che potrebbe assumere l’attuale presidente del Con- siglio Mario Draghi: rimanere a Palazzo Chigi o proiettarsi verso il Quirinale? Questa percezione di insicurezza, che registra un possibile altalenare di sapore trasformistico di alcuni partiti presenti anche nell’attuale Parlamento, è dovuta all’esito elettorale dei Cinque Stelle e alla non chiara collocazione di Forza Italia, se unito al centro-destra oppure libero dai vincoli già assunti.

In questo quadro dai contorni non definiti, che difficilmente proietterà scenari di nitida messa a fuoco fino all’elezione del presidente della

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conti Repubblica, sarebbe immaginabile che i cattolici-democratici si pre- parassero a uno scuotimento collettivo, a una grande iniziativa che li possa vedere protagonisti della nuova stagione politica, possibilmente con Draghi, per evitare una possibile affermazione dell’estrema destra.

Oggi che le vecchie ideologie sono in crisi sarebbe auspicabile che il cosiddetto “mondo cattolico” – che grazie ai vecchi partiti oggi scomparsi non ha mai vissuto di filosofie totalizzanti – riacquistasse capacità di iniziativa, di persuasione, di innovazione, di movimento unitario. Possibilmente all’interno di schemi di centro-sinistra, per essere in linea con l’Europa e il mondo occidentale.

Tutto questo per evitare avventure: per dare concreto risvolto alla giustizia sociale, alla promozione umana, al pieno e totale rispetto della persona, oggi più che mai necessario di fronte allo spauracchio della disoccupazione, in particolare di quella giovanile.

Insomma, per uno sviluppo che sia guidato dalle regioni oltre che dal governo nazionale, da una nuova e più incisiva cultura delle risorse, da una maggiore attenzione ai nuovi soggetti che emergono in campo tecnologico e a un equilibrio vitale tra uomo e ambiente, in armo- nia con quanto auspicato dal presidente Draghi per salvaguardare il pianeta Terra.

L’augurio è che i partiti italiani, nessuno escluso, lottino per questo in tutte le sedi, in particolare nelle aule parlamentari.

Ogni tanto, tra amici, ci poniamo la domanda: cosa farà Mario Dra- ghi durante il semestre bianco? Resterà alla Presidenza del Consiglio dei ministri oppure accetterà una possibile candidatura alla Presiden- za della Repubblica?

Confesso che lo scenario che prediligo vedrebbe Mattarella al suo secondo mandato e, possibilmente, la conferma come primo mini- stro per Mario Draghi. Questa continuità rafforzerebbe la stabilità politica, economica e sociale del nostro Paese.

La “salita in politica” senza Draghi pone, con la massima serietà, una questione centrale di governabilità, oltre a un riordino morale, di continua qualificazione culturale, per assicurare e garantire piena attenzione al mondo del lavoro.

Avanti, allora, con Mario Draghi: per assicurare continuità, per pro- grammare la strada da fare e anche correggere la rotta, se necessario.

Fare con lui le riforme indispensabili che il Paese attende da molto tempo, quella fiscale in primis. Contare su un buon timoniere signi- fica avere davanti la prospettiva di una buona navigazione. Coraggio e avanti: il consenso è al massimo.

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italia, una repubblica presidenziale?

di Massimo Ruffilli

Ai cambiamenti politici e sociali che hanno caratterizzato l’Italia della cosiddetta seconda repubblica, alcuni degli ultimi presidenti della Re- pubblica hanno fatto fronte dando ai poteri che la Costituzione ha loro riservato una lettura interventista che porta a ritenere maturi i tempi per una riforma della Costituzione in senso presidenzialista.

I

cittadini francesi e quelli americani, con il voto eleggono i presi- denti dei loro paesi. In Italia, invece, il presidente della Repubblica lo elegge il Parlamento. La nostra Costituzione, infatti, ebbe a sta- bilire che il nostro Paese sarebbe stato una Repubblica parlamentare.

La nostra Carta costituzionale risale al 1948, ma il modo in cui i poteri reali del capo dello Stato italiano, nel tempo, da Scalfaro in poi, sono stati interpretati è decisamente cambiato. In apparenza l’articolo 87 della Costituzione aveva attribuito al nostro presidente della Repub- blica poteri piuttosto limitati. Non partecipava alla formazione delle leggi né indicava i ministri, non proponeva strategie né formazione di governi.

Francesco Cossiga è stato il primo a deviare da questa impostazione

“notarile”. Fu definito, infatti il “picconatore” della Repubblica ed è stato lui a inaugurare un nuovo corso.

Dopo di lui, Scalfaro, Ciampi e soprattutto Napolitano, hanno in- trodotto in Italia un “semipresidenzialismo di fatto”, trasformando la Presidenza della Repubblica italiana da istituzione con poteri “lar- gamente simbolici” a nuovo soggetto politico con un ruolo che si spinge, ormai, a indirizzare e coordinare anche il potere esecutivo.

Giorgio Napolitano, definito un comunista al Quirinale, chiamato “re Giorgio” dal «New York Times», sugli anni della sua presidenza aveva

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ruffilli

affermato: «In questi anni ho potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia un capo di Stato europeo do- tato delle maggiori prerogative. Il solo Paese al quale la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi è quello italiano».

Il presidente della Repubblica italiana è divenuto, così, un punto di riferimento politico del nostro Paese.

Anche perché, nel frattempo, il progressivo indebolimento dei partiti ha fatto sì che la figura del presidente della Repubblica abbia potuto assumere un ruolo strategico esaltato dall’estrema debolezza dell’in- tera classe politica della seconda repubblica nel suo insieme.

Con la scomparsa del partito dei cattolici che aveva a lungo governato il Paese mantenendo un equilibrio sociale e politico e con l’avvento di una società secolarizzata e individualista, è stata persa quella cen- tralità del governo ed è riemersa l’antica mancanza di educazione democratica.

Dunque, non c’era stata alcuna rivoluzione o colpo di stato, ma sem- plicemente una lenta interpretazione politica “di fatto” che probabil- mente non avrebbe potuto verificarsi con presidenti della Repubblica provenienti da schieramenti di destra.

L’Italia, infatti, è un Paese fondamentalmente conservatore nel sen- timento popolare. Tuttavia, nel dibattito pubblico, se si esprime un punto di vista diverso o addirittura contrapposto rispetto al senti- mento progressista imperante sui media e nel vasto mondo della cul- tura, non è facile sostenerlo perché si è subito isolati.

Si viene anche bollati e accusati di autoritarismo, di essere cultural- mente retrogradi o, ancor peggio, nostalgici di regimi del passato.

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italia, una repubblica presidenziale?

Bisogna attendere qualche voto segreto in Parlamento per misurare veramente gli umori e riscontrare risultati non previsti: ultimo esem- pio il disegno di legge Zan.

Dunque, i vituperati anonimi “franchi tiratori” spesso altro non so- no se non l’espressione della vera volontà politica dei rappresentanti eletti dal popolo di destra e di sinistra.

Negli ultimi anni si sono spesso succeduti al Quirinale presidenti “di sinistra” e quella lenta e progressiva lettura “interventista” dei poteri del capo dello Stato è potuta avvenire senza particolari contrasti da parte del Parlamento e dei presidenti del Consiglio che si sono suc- ceduti nel tempo.

È peraltro vero che l’elezione del presidente della Repubblica a camere riunite ha riservato sempre grandi sorprese. Amintore Fanfani, per due volte candidato, fu tradito dai “franchi tiratori” democristiani che portarono alla presidenza prima Giovanni Leone e poi Giuseppe Saragat, il primo presidente “laico”, un socialdemocratico. E, anni dopo, ci furono la sofferta bocciatura di Franco Marini e quella di Romano Prodi, anch’egli tradito dai famosi 101 franchi tiratori, ov- vero da coloro che riteneva alleati e sicuri elettori.

La nascita e la caduta di molte candidature hanno sempre caratte- rizzato l’elezione dei presidenti della Repubblica. Anche l’elezione di Sergio Mattarella, eletto dopo tre “fumate nere”. Vi ebbe un ruolo determinante l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi: battuti Massimo D’Alema, Pierferdinando Casini, Giuliano Amato e Silvio Berlusconi, risultò vincente la candidatura dell’ex democristiano di sinistra Sergio Mattarella, fratello di Piersanti, il presidente della Re- gione Sicilia assassinato dalla mafia a soli quarantacinque anni. Un simbolo, un martire della Repubblica. Ebbene, anche il presidente Mattarella, che aveva esordito dichiarando «il presidente è un arbitro che deve essere e sarà imparziale», è stato protagonista di importanti scelte politiche. Ultima e significativa la nomina di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio dei ministri, candidatura voluta dallo stesso presidente della Repubblica dopo aver constatato l’impasse della politica dei partiti.

Così, anche Mattarella si è caratterizzato come un capo di Stato “pre- sidenziale”: una figura importante e significativa alla guida del nostro Paese, avvertita soprattutto nei difficili momenti del coronavirus.

Alla luce di questa realtà, forse il nostro ordinamento costituzionale ha davvero bisogno di essere aggiornato.

“La più bella costituzione del mondo” – come è stata definita – risa- lente alla fine della seconda guerra mondiale, redatta a quel tempo da

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ruffilli

uomini decisamente “illuminati” come Giorgio La Pira, Aldo Moro, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti, presenta ormai alcune contraddizioni che, forse, è giunto il momento di chia- rire, anche ponendosi questa domanda: “L’Italia di oggi è veramente una Repubblica parlamentare?”.

Se il presidente della Repubblica – come sembra – ha ormai, di fatto acquisito nuovi e consolidati poteri politici, non è forse giunto il momento di dare, democraticamente, al popolo italiano, il diritto di scegliersi direttamente il suo presidente attraverso il voto?

La discussione non è certo nuova e si protrae, nel tempo, da molti anni. Il timore “dell’uomo solo al comando”, che ci rimanda al to- talitarismo della dittatura e della guerra, fa ancora parte della nostra memoria storico-politica?

Sono in molti a sostenere che non abbiamo ancora rimosso totalmen- te il ricordo del ventennio fascista e dei possibili rigurgiti che, ancora, si manifestano. In effetti, fu proprio questo timore che, nell’imme- diato dopoguerra, portò i costituzionalisti a scegliere la Repubblica parlamentare. Tuttavia oggi la classe politica può e deve ammettere che la maturazione del popolo italiano a favore dei valori democratici, della giustizia, della libertà, della pace e del benessere della collettività è ormai largamente avvenuta.

Nella condizione attuale, le elettrici e gli elettori italiani, privati della mediazione riconosciuta dei partiti, non vogliono e non devono più essere esclusi dal dibattito pubblico e dalle scelte politiche che ne con- seguono, ovvero da una forma di democrazia diretta, pena il sempre maggiore assenteismo e astensionismo dalle consultazioni elettorali.

Quanto alla politica, questa non si deve trasformare sempre più in una odiosa oligarchia fatta di privilegi, rinchiusa nei palazzi e relegata nei talk show televisivi.

L’elezione del presidente della Repubblica resta un momento e un evento fondamentale per la vita e il destino del nostro Paese. È dav- vero auspicabile, dunque, che questa possa avvenire, in un futuro non più lontano, attraverso l’elezione diretta del capo dello Stato da parte di tutto il popolo italiano. Sarà così che l’Italia, come le maggiori democrazie dell’Occidente, potrà divenire anch’essa, a tutti gli effetti, una Repubblica presidenziale.

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come i polli di renzo?

di Ettore Bonalberti

Al di là di nostalgici e impossibili tentativi di ricostituire la Democrazia Cristiana, ci sono le condizioni per evitare la fine dei “polli di Renzo” e riunire le molte espressioni della cultura cattolico-democratica che si ispi- rano alla dottrina sociale degli ultimi papi impegnandosi per il ritorno della prevalenza della politica sull’economia e la finanza e per una legge elettorale proporzionale con sbarramento e preferenze.

N

ella grave crisi di sistema che stiamo vivendo, è acuta l’afonia della cultura politica cattolico democratica e cristiano sociale, salvo alcune voci che si rincorrono sul tema della costruzione del nuovo centro della politica italiana. È divisiva e fuorviante la discus- sione sulle alleanze che, da alcuni esponenti e gruppi, viene svolta senza tener conto della legge elettorale che, alla fine, governo e Parlamento decideranno di adottare e senza un confronto serio sui contenuti di un programma politico economico, sociale e finanziario all’altezza della situazione locale e delle attese dei ceti medi produttivi e delle classi popolari. All’altezza, cioè, delle attese di quell’oltre 50% di renitenti al voto, altra espressione della grave crisi della democrazia italiana.

Non mancano tentativi di ricomposizione politico organizzativa, co- me quelli che dal 2012 si stanno svolgendo, per dare pratica attuazione alla sentenza della Cassazione n. 25999 del 23 dicembre 2010, secondo cui: «la Dc non è mai stata giuridicamente sciolta», come quelli che Federazione Popolare Dc, Insieme, Rete Bianca e altre numerose as- sociazioni, movimenti e gruppi, stanno svolgendo, ispirati dalle stesse motivazioni ideali.

Ci sono poi alcuni che, molto sbrigativamente, sostengono l’impos- sibilità o impraticabilità di tentare questa strada, quasi che ci fosse in

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bonalberti molti la velleitaria pretesa di ricostruire tal quale la Dc finita politica- mente nel 1993. Appare condivisibile il giudizio di Bodrato: «la Dc era come un cristallo che si è rotto, frantumandosi in mille pezzi non più ricomponibili»; ma questo non porta a demordere e si continua a per- seguire il progetto di ricomposizione di un’area politico culturale che si ritiene, anche oggi, indispensabile per superare la crisi di sistema.

A chi chiede quali sarebbero le motivazioni per tale impegno, si risponde che, come nei tempi più importanti della storia politica nazionale ed europea, anche nell’età della globalizzazione, spetta ai cattolici il dovere di impegnarsi in politica per tradurre nella città dell’uomo gli orientamenti pastorali indicati dalla dottrina sociale della Chiesa, così come espressi nelle ultime encicliche sociali: dalla Centesimus Annus di papa san Giovanni Paolo ii, Caritas in veritate di papa Benedetto xvi e Laudato si’ e Fratelli tutti di papa Francesco. Se la Rerum Novarum fu la pietra miliare dell’impegno politico dei catto- lici, quale risposta alla questione sociale posta dalla prima rivoluzione industriale, le ultime encicliche sono quelle che hanno affrontato in maniera più rigorosa i temi posti dalla globalizzazione e i drammatici problemi delle crisi energetica e ambientale del nostro tempo.

Avvilente è constatare come, di fronte a queste eccezionali emergenze economiche, finanziarie e climatico-ambientali, che stanno metten- do in gioco non solo le democrazie, ma la stessa sopravvivenza della nostra specie e del pianeta, la vasta e complessa realtà di quest’area politico-culturale continui nella diaspora, rischiando di fare la fine dei polli di Renzo. Non solo si continuano a coltivare le divisioni tra le di- verse casematte costruite nei vent’anni che separano dalla fine politica della Dc, ma, all’interno delle stesse, si consumano quotidianamente diatribe e scontri espressione di una diffusa stupidità, come descritta da Carlo Cipolla : stupido è colui che con i suoi comportamenti fa del male e se stesso e agli altri.

Due sono le principali questioni alle quali, alla luce dei principi ispira- tori della dottrina sociale cristiana, si dovrebbe porre attenzione, che si aggiungono a quelli etici non negoziabili: il tema del superamento del noma (Non Overlapping Magisteria) assai ben descritto dal pro- fessor Zamagni; ossia del prevalere della finanza sull’economia reale e sulla stessa politica, ridotta a un ruolo ancillare e servente agli interessi dei poteri finanziari dominanti; e il tema della crisi di sistema, da affrontare sulla base dei principi di solidarietà e sussidiarietà, tenen- do conto del ruolo dell’Italia nel quadro geopolitico mediterraneo, europeo e internazionale.

In merito alla crisi di sistema, riproponendo una tesi già esposta

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come i polli di renzo?

all’inizio della seconda repubblica, ossia della necessità di convocare un’assemblea costituente attraverso la quale procedere con metodo democratico ai necessari adattamenti della nostra Carta costituzio- nale, si ritiene indispensabile avviare un dibattito sulla nuova legge elettorale da adottare per le prossime elezioni politiche. E sarebbe opportuno sostenere una legge proporzionale con sbarramento e preferenze, per superare il bipolarismo forzato dimostratosi, dalla riforma Segni in poi, corresponsabile dell’ingovernabilità. Una de- mocrazia retta dal 50% di non partecipanti non è democrazia. De Gasperi diceva che la democrazia muore se non vi è partecipazione.

Una legge elettorale di tipo proporzionale con preferenze è il modo efficace per risanare istituzioni in super critica sofferenza e restituire una classe dirigente diversa e rappresentativa di interessi reali della società. La legge elettorale, infatti, è, per buona parte, la madre per un’articolazione istituzionale democratica popolare.

Molto opportunamente, come scrive la professor Campus, sarebbe il caso di costruire un movimento di opinione che sostenga il tema:

bipolarismo forzato all’italiana = no-democrazia, anche al fine di evi- tare che le modifiche sulle leggi elettorali restino un make-up della politica e degli attuali partiti che, con il rosatellum, hanno espresso “il parlamento dei nominati”, oggetto del rifiuto di quasi il 60% degli elettori italiani. Evitiamo, dunque, di fare la fine dei “polli di Renzo”

e attiviamoci seriamente a sostegno della riforma della politica eco- nomica e finanziaria e di una legge elettorale proporzionale di tipo tedesco, con sbarramento e preferenze.

Ettore Bonalberti, presidente Alef e direzione nazionale Dc

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Odoardo Borrani, Mietitura a San Marcello. La raccolta del grano sull’Appennino, 1861, olio su tela, cm 54x126,5, Viareggio, Istituto Matteucci

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prima la persona

di Roberto Paolucci

Famiglia e giovani costituiscono ancora i presupposti per realizzare, at- torno alla valorizzazione e tutela della persona umana, quella versione moderna dell’esperienza politica popolare che ha segnato la storia più bella del nostro Paese e che può ancora rispondere ai bisogni di una società che ha perduto il senso stesso del lavoro e della democrazia.

N

essuno avrebbe scommesso una lira su quel piccolo prete sici- liano di Caltagirone, don Luigi Sturzo, quando cent’anni fa ebbe l’idea – ma soprattutto il coraggio – di fondare, nell’Italia appena uscita dalla prima guerra mondiale e immersa in una profonda crisi di ricostruzione e di riconciliazione, un nuovo partito, il Partito Popolare. Sturzo ebbe la forza di ripartire dalla persona, sfidando i liberali, i socialisti e perfino la Chiesa, che riuniva le proprie forze so- ciali e politiche nelle unioni cattoliche conservatrici dirette dal conte Della Torre, direttamente nominato dal papa. Oggi, come allora, dopo il ventennio fascista e l’esperienza luminosa di De Gasperi, dopo la fine ingloriosa, nel 1994, del maggiore partito italiano del dopoguer- ra, la Democrazia Cristiana, non esiste in Italia quel partito popolare di ispirazione cristiana che Sturzo invece seppe tirare fuori dalla sua decennale esperienza fatta nelle campagne galatine, imparando dalla scuola politica e religiosa dell’impegno e del sacrificio, nelle lunghe ed estenuanti riunioni nelle quali prevaleva la ricerca di una mediazio- ne fra il proletariato contadino e il padronato che possedeva le terre.

Ci si domanda se sia possibile tirare fuori, in questo momento storico, l’esperienza antica e nuova di una vera e incisiva partecipazione po- polare alla vita politica della parte più produttiva e fondamentale del nostro Paese, le famiglie e le piccole e medie imprese dell’economia

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paolucci reale. Sappiamo che la famiglia è stata definita di recente dal presi- dente Sergio Mattarella, non tanto il tessuto connettivo dell’Italia, ma l’Italia stessa. E le piccole e medie imprese dell’economia reale, in Italia e in Europa, sono il 98% di tutte le imprese e generano due su tre nuovi posti di lavoro. Ci sono poi le nuove generazioni, altra grande e gioiosa struttura di sostegno del nostro futuro. Se coniu- ghiamo allora il valore della persona umana, da cui dipende tutta la storia civile, sociale, economica, culturale, spirituale, tecnologica, del progresso umano, diventa conseguente affermare che è sulla persona che si fonda, che cresce e che si consolida la società umana e che non esistono né barriere né muri alla sua piena realizzazione, nel rispetto delle peculiarità e delle applicazioni che siano al servizio del benessere dell’uomo e della sua piena maturazione economica e civile.

La crisi politica dell’Italia di oggi riflette la drammatica situazione del paese, con il debito pubblico che ha superato il muro del 150% del Pil, con una disoccupazione giovanile superiore a quella del dopoguer- ra, con migrazioni in massa all’estero, con un calo clamoroso della produzione industriale, con una povertà ingravescente soprattutto al Sud, con l’incremento delle diseguaglianze e degli “scarti umani”

(come hanno affermato papa Benedetto nella Caritas in veritate e papa Francesco in Evangelii gaudium e Laudato si’). Né la classe po- litica, incardinata in una strenua difesa dei propri interessi personali e associativi, ha dimostrato di essere all’altezza di affrontare le grandi problematiche che la iv rivoluzione industriale in atto ha innescato.

In primo luogo, la destrutturazione del rapporto capitale lavoro. Il capitale, oggi, non ha più bisogno del lavoro: c’è la delocalizzazione con trasferimento di capitali e di strumenti produttivi in altri paesi, i robot non fanno sciopero e si sta consumando la scomparsa nei prossimi vent’anni del 56% dei profili professionali (i dattilografi, ad esempio, non ci sono già più).

In secondo luogo, si è avuto il passaggio da un capitalismo industriale a un capitalismo finanziario. Nel 1980 il Pil mondiale degli stati era ugua- le al Pil bancario e finanziario; oggi il volume finanziario è cinquan- taquattro volte quello mondiale dell’economia reale, con sostituzione dalla cultura del profitto – che veniva reinvestito in gran parte nel ciclo produttivo – a quella della rendita, che è invece parassitaria. Sappiamo che il profitto è produttivo se è poi reinvestito in lavoro; la rendita è improduttiva perché si arricchisce nella speculazione, con conseguen- te incremento delle diseguaglianze. Vale ricordare che lo stipendio di Valletta nel 1950 era venti volte superiore allo stipendio di un operaio, oggi il presidente della Fiat prende cinquanta volte di più dell’operaio.

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prima la persona

In terzo luogo, si è verificata la più grave conseguenza della globalizza- zione, cioè la rottura del rapporto fra democrazia e capitale, di cui in Italia è vietato parlare. Cioè la democrazia non tiene più in equilibrio e bilanciamento il capitalismo; prima erano i politici che dettavano l’agenda economica, ora sono i grandi gruppi economici e finanziari.

La novità di oggi è che si può avere capitalismo senza democrazia, ed esempi ne sono la Cina, l’India, la Turchia e altri paesi dove non esi- ste libertà ma il Pil comunque cresce anche del 4-5% l’anno. Questo pone dei grossi problemi nel contesto internazionale, problemi che possono sfociare anche in potenziali minacce per la pace.

È evidente che in una situazione globalizzata nella quale i grandi gruppi finanziari e le tecnologie dirigono le economie nel mondo, ci sia poca rilevanza e poco interesse nel valore della persona umana, considerata una merce, un numero, un disvalore. Ed è ugualmente conseguente che dai partiti tradizionali del secolo scorso, nati in Italia da una strenua lotta contro le dittature, si sia approdati a movimenti populisti, a partiti radicali di massa, a gruppi politici di combinazione che hanno dimenticato e/o trascurato i valori dell’uomo a vantaggio di una perfezione finanziaria che impone regole perverse a favore solo di determinati gruppi e che mette in fondo all’agenda la persona e le sue peculiarità strategiche nella conduzione dello sviluppo dell’uomo, di tutto l’uomo (come specifica san Paolo vi nella Populorum Progressio).

In realtà le regole dell’umana, pacifica convivenza, della crescita e piena realizzazione, insieme al rispetto della vita umana dal grembo materno in poi, le regole dell’ordine nei rapporti interpersonali in ambito so- ciale, civile e religioso, la solidarietà che trova garanzie nell’articolo 2

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paolucci (l’architrave della carta lo definì Aldo Moro) della nostra Costituzione, la garanzia di tutelare il lavoro e il giusto salario, come dice l’articolo 36, la libertà e il valore sociale dell’impresa, come nell’articolo 41, sono sempre stati – e lo sono ancor oggi – i capisaldi del popolo italiano e della sua vocazione europea ( come ci hanno indicato i padri fondatori De Gasperi, Schuman e Adenauer).

Noi non possiamo deviare dal valore della persona e dalla sua collo- cazione pacifica e creativa nel mondo globalizzato, dove non esistono muri e dove si vive in libertà, anche e soprattutto per essere consolati, quando ci trovassimo in situazioni difficili e non direttamente dipen- denti dalla nostra volontà. L’Europa, che non è un’espressione geogra- fica ma la sintesi di una lunga storia, il culmine di un approdo di pace e di benessere, ci indica nelle sue linee essenziali che la soluzione dei tanti problemi passa attraverso la presenza di alcune famiglie politiche che escludono sia i radicalismi di massa che i populismi guerrafondai.

Ispirati dunque dal popolarismo di Sturzo e dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi – che ne è stata la prosecuzione, ma non il compimento, per la sua fine ingloriosa – possiamo affermare che l’idea di un parti- to popolare moderno, attuale e attivo in Italia, costituito da persone, gruppi, associazioni e partiti aggregati e fusi tra loro nella famiglia po- polare, che credano nel valore della persona umana nel suo tutto intero e naturale percorso vitale, possa contribuire alla realizzazione di quella civiltà dell’uomo fondata sulle regole condivise, sul rispetto reciproco, sul riconoscimento del diritto naturale alla vita dal concepimento al termine naturale, sulla volontà di risoluzione delle criticità più grandi e non risolte del secolo scorso, nonché delle nuove sfide globalizzate.

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l’attualità della scuola di barbiana

di Giovanna Ceccatelli

Le linee pastorali e pedagogiche tracciate da don Lorenzo Milani hanno segnato l’esperienza di molti e anticipato un pensiero che solo dopo anni è diventato patrimonio condiviso, anche se l’involuzione in atto nella scuola sembra allontanarla sempre più da quell’urgenza verso i nuovi ultimi che costituì la molla dell’azione di don Lorenzo.

L

a figura di don Milani ha occupato uno spazio importante nei miei anni giovanili. Quando è uscita la Lettera a una professoressa avevo finalmente cominciato a lavorare alla mia tesi di laurea in Scienze politiche. Infatti, dopo il completamento degli esami avevo preso una pausa dagli studi, occupandola con altre cose: il matrimonio, due bambini a breve distanza l’uno dall’altro, ma anche della prosecu- zione del mio lavoro di assistente sociale (che avevo iniziato durante l’università) nei quartieri di “case minime”, prima all’Isolotto, poi ai Ciliani di Prato e infine al Galluzzo. Sempre occupandomi degli ultimi:

immigrati dal Sud, famiglie numerose e povere, ragazzi a rischio devian- za; e prendendomi cura dei loro problemi, sulla scia dell’insegnamento del prete di Barbiana, il cui lavoro continuavo a seguire, dopo che avevo cominciato a conoscerlo attraverso i racconti di don Bensi, il parroco di San Michelino in via dei Servi, che lo aveva ordinato sacerdote e che era il nostro insegnante di religione al Liceo Galileo di via Martelli. Un insegnante molto particolare devo dire, perché, aperto al mondo e ai suoi problemi, ci spiegava le sostanziali somiglianze fra le tre religioni che credono in un unico Dio, pur chiamandolo con nomi diversi. E il mes- saggio d’amore del Vangelo come una potente rivoluzione del pensiero.

A quei tempi (la fine degli anni Cinquanta) Lorenzo Milani era appena approdato a Barbiana, esule per punizione in una sperduta parrocchia

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ceccatelli

di montagna, dopo la criticata esperienza di cappellano a San Donato di Calenzano, accanto ai giovani operai licenziati, ai ragazzi sfruttati e malpagati, alle rivendicazioni sindacali. E aveva pubblicato, in con- trasto con la Curia, Esperienze pastorali, dove aveva raccolto le testi- monianze dei parrocchiani e descritto la difficile esperienza di un prete attento alla loro vita quotidiana, oltre che alla loro fede.

Fino da allora, così, devo moltissimo alla lettura delle sue opere, che mi hanno profondamente segnato: come insegnante, come ricercatrice, come persona. Perché attraverso il suo linguaggio scarno, appassionato e mai retorico, ho prima compreso, poi condiviso e infine testimo- niato quello che considero l’obbiettivo centrale di tutto il suo lavoro e anche della sua vita: la necessità di un radicale ribaltamento della rilevanza sociale e culturale fra gli ultimi e i primi, come vera e concreta trasformazione della realtà quotidiana e dell’organizzazione politica.

La grande lezione cognitiva e metodologica di don Milani, al di là della sua testimonianza spirituale e religiosa, è stata, infatti, insieme semplice e straordinaria: spostare sempre lo sguardo dal centro della scena verso le cornici e le periferie; prestare attenzione curiosa e since- ra proprio alle persone più lontane dal mondo in cui viviamo e averne cura; non banalizzare mai chi ci sta davanti, evitando regole e schemi di valutazione ovvi e precostituiti; e amare la conoscenza non come patrimonio esclusivo di pochi, ma come forza individuale e “bene comune”, da redistribuire a tutti, e soprattutto da costruire colletti- vamente, con il contributo di chiunque, anche del più inaspettato ed emarginato dei partecipanti. Perché tutti hanno delle conoscenze importanti, anche se spesso la maggior parte, quelle legate al saper fare, sono considerate irrilevanti dalla cultura codificata.

Oggi, in un clima ecclesiale profondamente diverso da quello che emise la sentenza del suo esilio nella solitudine di Barbiana, e dopo che papa Francesco gli ha dedicato il suo rispetto e la sua partecipazio- ne con una visita a quel piccolo e solitario villaggio, si torna a parlare di questo ruvido prete che, proprio come Francesco, non aveva “paura della tenerezza” e della difesa dei più deboli, ma la cui intera vita può essere letta come disobbedienza al potere e come provocazione sistematica al conformismo, all’ipocrisia, alla rassegnazione e perfino alla retorica delle buone maniere. E se ne parla come di un profeta che aveva compreso e combattuto, con mezzo secolo di anticipo, la discriminazione sociale e scolastica degli ultimi, l’obbedienza acriti- ca alle leggi inique e ingiuste e aveva lottato per un mondo diverso, utopico, rigoroso e finalmente liberato dalle disuguaglianze. Capace di sorridere come un fanciullo, nelle immagini che lo ritraggono in

Riferimenti

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