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L’appassionata difesa della caccia da parte di un cacciatore tanto inna-morato di questa ancestrale passione quanto scandalizzato da quanto si è pensato di fare per eliminare la presenza dei mufloni nell’isola del Giglio, animali “alieni” in quell’habitat scelto per loro da chi ora vuole eliminarli.

O

gni sabato mattina, regolarmente, da settembre a gennaio, vesto i miei panni venatori e vado a caccia. Mi accompagna il mio fido setter, Antares, bianco e nero. Arrivato sul posto, dopo il rituale caffè con gli altri amici carnefici, ci distendiamo sui prati e nei boschi, alla ricerca di un’ambita preda. Per me il cult è la beccaccia; il mio socio a quattro zampe mi avverte sempre per tempo di che animale si tratta; a seconda della posizione del corpo, di come fiuta, di come sinuosamente si muove, di come punta, posso in an-ticipo immaginare con quale tipo di preda avrò a che fare: con una puntata ravvicinata mi indica un fagiano, con il muso a terra una lepre, con il naso allungato rispetto al corpo trattenuto si tratta senz’altro di una beccaccia. Mi preparo imbracciando la doppietta in modo ac-concio e stimolo Antares a far “schizzare” la preda. Se il tiro è giusto, incito il mio socio a raccogliere il frutto della battuta e a riportarlo.

La maggior parte dei lettori, per questa rappresentazione di come pas-so i migliori momenti del mio tempo libero, si scandalizzeranno, im-precheranno contro questa razza di assassini autorizzati; si agiteranno per promuovere l’ennesimo referendum per l’abolizione della caccia.

Prima o poi ci riusciranno; noi cacciatori rappresentiamo ormai una specie in estinzione, un po’ perché i tempi sono cambiati e questo tipo di sport non è ormai più condiviso dalle giovani generazioni, un po’

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perché il continuo battage contro la caccia ha creato sull’argomento una condivisione negativa incrementata indubbiamente dalla difficile comprensione di questo antico sport.

Non ho certamente la pretesa di convincere i numerosi “savonarola venatori” di quanto siano in errore, mi limito invece a rappresentare loro cosa sia per me la caccia; può darsi che qualcuno, anche se non tornerà mai sulle proprie convinzioni, possa accettare che accanto ai loro punti di vista, possano coesistere sentimenti e sensazioni altret-tanto apprezzabili.

La sera precedente l’evento procedo a preparare l’attrezzatura: scelgo l’abito più o meno pesante a seconda della stagione, comunque resi-stente e adatto per camminare nel bosco; scelgo il fucile (preferisco la doppietta anche se, per le battute, è preferibile l’automatico); scelgo le cartucce a seconda del tempo previsto, se è asciutto è preferita una pol-vere più spinta, se è umido una più lenta. Per le scarpe, sempre due paia:

gli stivali di gomma e quelli di cuoio; decido sul posto quali indossare.

Un’attenzione particolare è rivolta al socio quadrupede: gli spazzolo il pelo perché faccia bella figura, gli anticipo le mie intenzioni venatorie, facendogli presente che se mi trova una beccaccia sarò veramente felice. Mai lo appesantisco con collari elettronici che emettono quel fastidioso “ bip bip” mentre il socio cerca, oppure un continuo sibilo quando punta; deve sentirsi libero, tanto lui sa che ci sono e se trova un animale si ferma “in punta” e attende che io arrivi prima di “dare”

sulla preda.

A questo punto mi viene voglia di domandare agli scettici lettori che differenza ci sia tra chi prepara l’attrezzatura per una battuta di caccia e chi pone in essere un’analoga preparazione per un’uscita in bicicletta; a parte gli strumenti, l’atteggiamento è il medesimo.

Invero ci sono delle differenze nella successiva fase attiva.

Ecco come vive un cacciatore la sua giornata venatoria. Gli amici si incontrano alla casa di caccia; qui siamo tutti cacciatori: non esiste l’operaio, non esiste il professionista, quello che conta è sfottere il cane dell’amico e sfottere anche l’amico per le padelle della preceden-te cacciata che sicuramenpreceden-te si ripepreceden-teranno anche nell’attuale. E poi scegliere le combinazioni tra i vari cacciatori per realizzare il miglior team in grado di far sfigurare gli altri. Avvantaggiati sono coloro che hanno un buon cane, il che significa che tutti sono avvantaggiati, poiché il proprio cane, a loro dire, è sempre il migliore… Io preferisco piccoli gruppi; il mio cane è geloso e preferisce cacciare solo con me anche perché sa benissimo di essere il migliore… e dunque non vuole intorno agnelli abbaianti che lo disturbino nella sua ricerca. Non gli

quasi quasi ammazzo un muflone

do torto, in effetti è il migliore; lo sanno anche gli altri cacciatori, ma certamente non mi danno soddisfazione.

E anche qui non ci sono differenze con coloro che vanno in bicicletta;

il proprio veicolo è senz’altro il migliore. Le differenze si cominciano a notare invece nello svolgimento dell’attività sportiva: il ciclista è solo con la sua bicicletta e le sue gambe, il cacciatore usa chiaramente le gambe, ha il fucile al posto della bicicletta e in più ha il cane. Questa è una grande differenza: il collegamento che c’è tra i due partecipanti.

Si crea una vera simbiosi e basta un cenno perché il cane capisca dove dirigersi o cercare; basta un cenno del cane perché il cacciatore si pon-ga nella giusta posizione. I due si intendono alla perfezione. Lo scopo è mettere la preda in condizione di non sfuggire. Se l’animale viene abbattuto, il buon socio lo raccoglie e lo porta ai piedi del cacciatore, con soddisfazione di entrambi; se questi invece lo “padella”, per una volta il cane sopporta; alla seconda può anche decidere di andare a caccia per conto proprio, tanto non è il fucile che fa la differenza.

È su questo passaggio che il cacciatore si distingue dal ciclista: quest’ul-timo non uccide nessuno, dunque è meglio andare in bicicletta che andare a caccia, e quindi i cacciatori vanno perseguitati.

Che andare in bicicletta sia cosa diversa da andare a caccia, a que-sto punto nessuno lo mette in dubbio; che la caccia sia finalizzata all’abbattimento di un animale è altrettanto vero; però la domanda che dobbiamo porci è la seguente: è veramente un comportamento aberrante andare a caccia e uccidere una preda? Io sono convinto di no e fornisco una mia spiegazione, senza la pretesa che sia accolta.

La caccia è sempre esistita; una volta era un mezzo di sopravvivenza e serviva per procurarsi il cibo, oggi è senz’altro prevalentemente un’attività sportiva. È giusto allora uccidere per sport?

Prima di esprimere un mio giudizio vorrei rispondere ponendo altre domande: è giusto uccidere o uccidersi svolgendo gare automobili-stiche o motocicliautomobili-stiche? È giusto uccidersi scalando montagne? È giusto uccidere nello svolgimento di regate? Come mai la sensibilità di tanti “savonarola venatori” non si è mai così scatenata contro queste attività sportive che mettono a repentaglio non la vita di un fagiano, bensì quella di tante persone, sia come competitori che come spet-tatori? È più importante la vita di un uomo o quella di un fagiano?

Perché questi signori non propongono un referendum per abolire le corse di formula uno o le arrampicate di sesto grado? Mentre attendo una loro risposta, è doveroso che esprima il mio giudizio sulla caccia.

Avete mai provato a immergervi in una pianura arborata, la mattina, in compagnia del vostro cane? Il silenzio che vi circonda, la natura

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che vi abbraccia in un contesto di armonico equilibrio; il vostro socio che batte il terreno in volute sempre più ampie, per poi schiacciarsi e gattonare al minimo sentore di un selvatico; infine il frullare di una beccaccia o di un fagiano, lo sparo e poi l’abbattimento e il cane che riporta la preda. Ebbene, sì, ho ucciso un fagiano e sono contento, anche perché lo porto a casa, lo faccio frollare e poi lo cucino. Esat-tamente come quando vado al mercato a comprare un pollo; la sola differenza è che il pollo lo faccio ammazzare da altri, cosa che avviene in modo molto meno romantico. Vigliaccheria di chi detesta la caccia ma compra un pollo.

È proprio questo il punto critico cui rivolgere l’attenzione. Che dif-ferenza c’è tra un cacciatore che abbatte un fagiano per poi cucinarlo e mangiarlo, e una massaia che va al mercato, compra un pollo, caso mai già spennato, e poi lo cucina? Se vogliamo spostare la questione su un piano criminale, dato che i cacciatori tali sono definiti, c’è la stessa differenza tra un ladro e un ricettatore; salvo che il ladro-cac-ciatore impegna una quantità di energie e impegni per raggiungere lo scopo, mentre la massaia-ricettatrice, si limita a sfruttare il rischio corso dal primo.

Non solo. Il fagiano viene ricercato e cacciato nel suo ambiente na-turale, c’è dunque il rischio di tornare a mani vuote, senza contare che questo risultato è secondario: l’importante è trovarsi a contatto con la natura, con il cane perfettamente in sintonia con il cacciatore;

caso mai con un amico assassino affascinato dagli stessi sentimenti.

Per la massaia che va al mercato è diverso: trova il pollo già eviscerato, spennato e pronto per l’acquisto; sa benissimo che quel volatile non è stato recuperato attraverso uno sforzo sportivo, bensì è il prodotto di un processo crudele che consiste nel prendere un pulcino, metterlo in un contenitore sempre illuminato e riscaldato, continuamente cibato con prodotti tutt’altro che naturali per poi essere giustiziato in una ecatombe collettiva. A ciò si accompagna il piacere della massaia e della di lei famiglia di mettere in tavola un prodotto che è la risul-tante del processo criminale descritto. E la massaia fa tutto questo senza rischiare niente: può infatti commettere il suo bravo reato di ricettazione correndo il solo rischio di mangiare un pollo chimico.

La critica che potrebbe essere sollevata al mio ragionamento è la se-guente: al di là della commissione del possibile reato di ricettazione da parte della massaia, quale argomentazione viene portata per giusti-ficare la criminale attività venatoria? La risposta è semplice: nessuna giustificazione. Vado a caccia perché mi diverte e questo divertimento trova la sua spiegazione in una naturale inclinazione umana. Sparare

quasi quasi ammazzo un muflone

a un fagiano non è un’attività criminale, è semplicemente uno sport.

È dunque sbagliato il punto di partenza: il cacciatore non deve fornire giustificazione alcuna, poiché svolge un’attività lecita, pari a quella della massaia che va al mercato. Non deve dunque sentirsi frustrato dalla corrente nevrosi degli anticaccia; si tratta di soggetti, purtroppo sempre più numerosi, afflitti dal complesso dell’impotenza intellet-tuale, incapaci di contestualizzare le realtà circostanti. Peraltro, non sfugge a nessuno che una qualsiasi attività, che esce dal canale di un comportamento comune, banale, assuefatto all’appiattimento intel-lettuale, è vista e giudicata con sospetto. Senza contare che l’attività venatoria si scontra con il comune senso del divertimento; chi passa il sabato, in giacca e cravatta, a giro per il centro, a guardare le vetrine, difficilmente potrà apprezzare una passeggiata all’aria aperta, in com-pagnia del proprio cane. Si tratta di cultura, che definirei storica; la caccia è sempre esistita, nella sua più ampia accezione; anche la ricerca di un reperto archeologico è caccia, come lo è la ricerca comparata su un fatto storico; tutto ciò che è ricerca è cultura. Per questo anche la caccia è cultura: perché qualcuno torna a casa con il carniere vuoto, mentre qualcun altro ce l’ha pieno? Si tratta di capacità, di abilità, di conoscenza, dunque di cultura.

La caccia è un aspetto della mia cultura e dunque sono orgoglioso di essere un cacciatore. Parimenti deve essere orgogliosa la massaia che va al mercato a comprare un pollo metabolizzato.

Adesso non manca che il nostro “savonarola venatorio” si trasformi in un “savonarola vegetale” e arrivi a sostenere che anche i polli d’alle-vamento hanno una loro dignità biologica-esistenziale e dunque de-vono essere protetti dalle massaie ricettatrici; così facendo si arriverà alla tutela del cetriolo. Non c’è limite alla stupidità umana; l’ultima dimostrazione ce la forniscono i cosiddetti “no vax”.

Quanto sopra rappresentato non è però lo scopo iniziale per il quale mi sono accinto a scrivere questo articolo. L’impulso era un altro. È di questi giorni la notizia che all’isola del Giglio è in corso una spedi-zione punitiva contro i mufloni: questi si sono talmente moltiplicati, che il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha assoldato un centi-naio di cacciatori per abbattere una decina di mufloni, finanziando l’operazione con la “modica” cifra di 1.600.000 euro. Insomma, cento cacciatori contro dieci mufloni, al costo di 160.000 euro a capo.

Queste sono le notizie riportate dalla stampa.

C’è da osservare: i mufloni all’isola del Giglio non ci sono mai stati, vi sono stati importati dall’homo sapiens, e con questo decidendo di fornire loro un habitat non richiesto. Dunque, rispetto al territorio

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in cui si trovano, appaiono degli alieni. E sembra proprio questa, non essendone state fornite altre, la ragione del loro abbattimento.

Non sembra neppure che sussistano cause collegate a eventuali dan-ni provocati all’agricoltura; risulta infatti che nel corso degli ultimi diciannove anni siano state avanzate richieste di indennizzo per soli 1200 euro. È corretto questo comportamento? Qualche animalista ha sollevato la sua flebile voce… pari al rumore di una noce dentro un sacco vuoto.

È poi vero che i mufloni del Giglio sono troppi? E sono troppi rispetto a cosa, a quale parametro? A mio parere il progetto appare né più né meno che un atto criminale, e questo lo dice un cacciatore. Prima importi i mufloni al Giglio, poi li uccidi. C’è una grave contraddi-zione in questo comportamento.

Diamo comunque per scontato che il soprannumero di mufloni crei danni alla natura, all’ambiente, alla vegetazione autoctona; non c’e-ra altro modo per ricreare il necessario equilibrio, senza ricorrere a una carneficina autorizzata? Secondo la semplicistica risoluzione dei nostri governanti, evidentemente no. Questo, però, non è vero: ci sarebbe stato, e c’è tuttora, un sistema indolore e civilmente corretto, senza ricorrere a un’inutile violenza, la cui premessa, va ricordato, consiste nella non valutata immissione dei mufloni nell’isola.

La soluzione, non violenta e biologicamente corretta, è questa: ba-sterebbe procedere, naturalmente con quel criterio che attualmente appare deficiente, a una controllata sterilizzazione della popolazio-ne importata; basterebbe fornire ai mufloni del cibo con contenuti sterilizzanti, in modo da regimentarne la fertilità, fino a riportare il numero di presenze a quello ideale per ricreare il presunto equilibrio tra flora e fauna. Si eviterebbero così le figuracce per iniziative insulse, la reazione degli animalisti e, soprattutto, si dimostrerebbe la volontà di rispettare la dignità di un animale che niente ha fatto per andare al Giglio e che per il resto si è comportato come un normale sogget-to sessuale. Incidentalmente aggiungo che un’iniziativa del genere sarebbe ottima anche per i cinghiali, ormai ospiti costanti dei nostri centri urbani.

Questa idea, che è un uovo di Colombo, rafforza quanto ho detto sopra: il cacciatore non è un assassino ma è un amante della natura, la conosce e sa rispettarla. L’uccisione di un fagiano è rivolta a gra-tificare un’attività sportiva, non a uccidere tout court. Ecco perché ci si scandalizza quando si uccide un animale non per sport, ma per ricreare un equilibrio alterato proprio da chi adesso impugna le armi a pagamento. Faccio il tifo per i mufloni e per i fagiani a cui sparo!