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Le linee pastorali e pedagogiche tracciate da don Lorenzo Milani hanno segnato l’esperienza di molti e anticipato un pensiero che solo dopo anni è diventato patrimonio condiviso, anche se l’involuzione in atto nella scuola sembra allontanarla sempre più da quell’urgenza verso i nuovi ultimi che costituì la molla dell’azione di don Lorenzo.

L

a figura di don Milani ha occupato uno spazio importante nei miei anni giovanili. Quando è uscita la Lettera a una professoressa avevo finalmente cominciato a lavorare alla mia tesi di laurea in Scienze politiche. Infatti, dopo il completamento degli esami avevo preso una pausa dagli studi, occupandola con altre cose: il matrimonio, due bambini a breve distanza l’uno dall’altro, ma anche della prosecu-zione del mio lavoro di assistente sociale (che avevo iniziato durante l’università) nei quartieri di “case minime”, prima all’Isolotto, poi ai Ciliani di Prato e infine al Galluzzo. Sempre occupandomi degli ultimi:

immigrati dal Sud, famiglie numerose e povere, ragazzi a rischio devian-za; e prendendomi cura dei loro problemi, sulla scia dell’insegnamento del prete di Barbiana, il cui lavoro continuavo a seguire, dopo che avevo cominciato a conoscerlo attraverso i racconti di don Bensi, il parroco di San Michelino in via dei Servi, che lo aveva ordinato sacerdote e che era il nostro insegnante di religione al Liceo Galileo di via Martelli. Un insegnante molto particolare devo dire, perché, aperto al mondo e ai suoi problemi, ci spiegava le sostanziali somiglianze fra le tre religioni che credono in un unico Dio, pur chiamandolo con nomi diversi. E il mes-saggio d’amore del Vangelo come una potente rivoluzione del pensiero.

A quei tempi (la fine degli anni Cinquanta) Lorenzo Milani era appena approdato a Barbiana, esule per punizione in una sperduta parrocchia

ceccatelli

di montagna, dopo la criticata esperienza di cappellano a San Donato di Calenzano, accanto ai giovani operai licenziati, ai ragazzi sfruttati e malpagati, alle rivendicazioni sindacali. E aveva pubblicato, in con-trasto con la Curia, Esperienze pastorali, dove aveva raccolto le testi-monianze dei parrocchiani e descritto la difficile esperienza di un prete attento alla loro vita quotidiana, oltre che alla loro fede.

Fino da allora, così, devo moltissimo alla lettura delle sue opere, che mi hanno profondamente segnato: come insegnante, come ricercatrice, come persona. Perché attraverso il suo linguaggio scarno, appassionato e mai retorico, ho prima compreso, poi condiviso e infine testimo-niato quello che considero l’obbiettivo centrale di tutto il suo lavoro e anche della sua vita: la necessità di un radicale ribaltamento della rilevanza sociale e culturale fra gli ultimi e i primi, come vera e concreta trasformazione della realtà quotidiana e dell’organizzazione politica.

La grande lezione cognitiva e metodologica di don Milani, al di là della sua testimonianza spirituale e religiosa, è stata, infatti, insieme semplice e straordinaria: spostare sempre lo sguardo dal centro della scena verso le cornici e le periferie; prestare attenzione curiosa e since-ra proprio alle persone più lontane dal mondo in cui viviamo e averne cura; non banalizzare mai chi ci sta davanti, evitando regole e schemi di valutazione ovvi e precostituiti; e amare la conoscenza non come patrimonio esclusivo di pochi, ma come forza individuale e “bene comune”, da redistribuire a tutti, e soprattutto da costruire colletti-vamente, con il contributo di chiunque, anche del più inaspettato ed emarginato dei partecipanti. Perché tutti hanno delle conoscenze importanti, anche se spesso la maggior parte, quelle legate al saper fare, sono considerate irrilevanti dalla cultura codificata.

Oggi, in un clima ecclesiale profondamente diverso da quello che emise la sentenza del suo esilio nella solitudine di Barbiana, e dopo che papa Francesco gli ha dedicato il suo rispetto e la sua partecipazio-ne con una visita a quel piccolo e solitario villaggio, si torna a parlare di questo ruvido prete che, proprio come Francesco, non aveva “paura della tenerezza” e della difesa dei più deboli, ma la cui intera vita può essere letta come disobbedienza al potere e come provocazione sistematica al conformismo, all’ipocrisia, alla rassegnazione e perfino alla retorica delle buone maniere. E se ne parla come di un profeta che aveva compreso e combattuto, con mezzo secolo di anticipo, la discriminazione sociale e scolastica degli ultimi, l’obbedienza acriti-ca alle leggi inique e ingiuste e aveva lottato per un mondo diverso, utopico, rigoroso e finalmente liberato dalle disuguaglianze. Capace di sorridere come un fanciullo, nelle immagini che lo ritraggono in

l’attualità della scuola di barbiana

mezzo ai suoi ragazzi, ma anche di farsi implacabile accusatore delle colpe della sua classe sociale: intellettuale e prete, sospettoso fino alla fobia nei confronti degli stessi intellettuali, visti come responsabili di una cultura astratta, di una cultura imputabile del più grande tradi-mento: quello, appunto, di essersi dimenticata dei poveri.

Fra quelle povere case don Milani creò una scuola che sarebbe dive-nuta entro pochi anni un modello pedagogico di risonanza nazionale e internazionale, meta di visitatori illustri e importanti, e oggetto di straordinaria ammirazione quanto di dure polemiche. Ma che soprat-tutto fu il terreno di coltura di un pensiero critico libero e tagliente, da cui nacquero due documenti – sul dovere di disobbedire all’ob-bligo di uccidere e sul classismo della scuola statale – che avrebbero profondamente colpito l’opinione pubblica e trasformato la cultura e la storia delle istituzioni. Se lo scopo delle gerarchie ecclesiastiche era stato quello di seppellire la sua voce nel silenzio dei boschi di Barbiana, bisogna dire che non aveva avuto l’esito sperato.

In quell’impresa lo ha accompagnato Adele Corradi, che stabilì con lui un rapporto di stima, di amicizia e di collaborazione quotidiana per molti anni, raccontati nel bellissimo libro di ricordi e riflessioni che Adele si è decisa a scrivere solo quarant’anni dopo la morte del suo amico e coetaneo Lorenzo (Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, 2012).

Ma molte altre persone, piccole e grandi, importanti o no, si alternano in questo scenario, fra le carte geografiche e i registratori, i fogli per gli appunti e i grafici, le pagine dei quotidiani e i libri, per dare il loro contributo, ampliare le informazioni e il confronto, discutere di ogni argomento; ma sempre davanti a tutti, in mezzo alle donne di casa e ai ragazzi, perché il priore è solo il regista discreto di questo laboratorio di conoscenza, e non si deve andare lassù per lui ma per loro. Così let-terati e professori, giornalisti e magistrati, politici e prelati, ma anche artigiani, operai, sindacalisti e perfino il cardinale di Firenze, quando si è deciso a salire, hanno fatto la loro parte sotto lo sguardo curioso, competente e inflessibile di quelle donne e di quei ragazzini, e sono stati da loro misurati e valutati, e invitati magari a tornare se l’incontro era servito a imparare qualcosa di importante e di nuovo. Perché quello che conta davvero è imparare, studiando e lavorando duramente per ore e ore, tutti i giorni della settimana, tutti i mesi dell’anno; ed è quello che si fa lassù quando i visitatori non ci sono, con don Lorenzo e l’Adele, con altri insegnanti che occasionalmente vengono ad aiutare, soprat-tutto con l’insegnamento dei più grandi ai più piccoli, ed è da soprat-tutto questo lavoro che nascono quello sguardo competente e curioso e quelle domande precise, che di volta in volta devono sostenere i visitatori.

ceccatelli

In quella scuola i ragazzi “invisibili” figli di montanari e contadini apprendono il loro valore; o come dice il giovanissimo Edoardo, con le parole forse più belle: «l’orgoglio di comprendere il proprio stato, la propria condizione umana, l’ambiente in cui si cresce e in cui si vive, si lavora si lotta. La consapevolezza di essere uno e inimitabile».

Verità, fede politica, convinzioni, orgoglio, consapevolezza, chi, nella vita di ragazzi come questi, si era mai impegnato a fare simili doni?

Le condizioni per la riuscita sono la capacità di ascolto, la rinuncia al protagonismo, il rispetto delle opinioni di tutti, la valorizzazione di ogni idea e contributo. Quelli più bravi fanno una scuola straordi-naria di modestia, perché magari la soluzione migliore, spesso la più semplice e essenziale, l’ha trovata il ragazzo meno brillante, che allo stesso tempo ritroverà fiducia in se stesso e autostima.

È la giovane voce narrante di Lettera a una professoressa a dare la miglior sintesi di questa “umile tecnica”: «A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: avere qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo». Uno per tutti, che si rivolge all’insegnante della scuola statale che lo ha bocciato e che certamente non ricorda nemmeno il suo nome. In realtà è il manifesto più chiaro e illuminante della scuo-la, anche nel linguaggio e nel procedere delle argomentazioni: chiaro, acuto, essenziale, maturo, spesso ironico, pieno di consapevolezza e di orgoglio, le qualità che più di tante altre don Milani aveva cercato di infondere nei suoi ragazzi. È la cronaca piana e distaccata di un’esclu-sione e la rappresentazione della scuola italiana dalla parte di coloro che ha sempre respinto «nei campi e nelle fabbriche e poi dimenticato».

Cosa è rimasto oggi di quella straordinaria lezione? Nessuno dei pro-blemi indicati con tanta precisione e documentazione statistica dai ragazzi di Barbiana è stato da allora risolto. Gli investimenti eco-nomici sulla scuola pubblica sono progressivamente diminuiti. La dispersione scolastica e gli abbandoni sono ancora aumentati. Dopo due anni di sospensione della scuola come la conoscevamo, con la di-dattica a distanza e l’interruzione del rapporto essenziale fra studente e maestro, alcune migliaia di ragazzi delle superiori hanno firmato una petizione per abolire il compito scritto all’esame di maturità a causa della presunta difficoltà a scrivere dopo un periodo così difficile.

Scrivere, conoscere e usare bene le parole, il risultato a cui don Milani con la sua presenza e vicinanza ha condotto i suoi allievi, diventano un accessorio inutile della scuola cinquant’anni dopo. E l’istituzione,

l’attualità della scuola di barbiana

invece di ripensare l’importanza culturale e sociale di questo irri-nunciabile strumento, accondiscenderà probabilmente a rinunciarci, seguendo le argomentazioni di una minoranza di utenti, invece di ascoltare la voce della maggioranza di quanti, insegnanti, giovani im-pegnati a leggere e formarsi, ragazzi e ragazze emarginati ma decisi a farsi strada contro ogni previsione, credono che sia proprio il possesso delle parole nella propria lingua lo strumento principale di riscatto.

Perché ora gli ultimi che il sistema scolastico rifiuta e respinge non sono più i piccoli montanari del monte Giovi, sono i bambini che seguono i loro genitori in un lungo viaggio da luoghi lontani, per cercare quella possibilità di sopravvivenza che nei loro paesi d’origine non riescono a trovare. Sono i figli dei poveri del resto del mondo, che anche quando nascono e crescono qui non hanno diritto di cit-tadinanza. Non si chiamano Nevio, Mileno, Francuccio e Olga ma Farid, Medhi, Li Min, Alessandru, Mamadou e Sun-Wen. Anche a loro la scuola si rivolge con la stessa miopia con cui si rivolgeva ai figli dei contadini, senza conoscere nulla della loro storia, della loro fatica e sofferenza, della loro cultura. Giudicandoli sulla competenza nella lingua italiana, loro che di lingue ne conoscono già due o più, ma-gari scritte con altri alfabeti, e facendo passare da quella etnocentrica strettoia ogni altra valutazione delle loro capacità e dei loro talenti.

Oggi, se don Milani volesse trovare gli ultimi da emancipare e riscat-tare dalla loro condizione, non dovrebbe salire sulle montagne del Mugello ma cercarli nella periferia di una grande città, vicino a una discarica, in un campo Rom.

Suggerimenti bibliografici

E. Balducci, L’insegnamento di don Lorenzo Milani, Laterza, 2002.

G. Brienza, Don Milani e Papa Francesco, Cantagalli, 2014.

G. Ceccatelli, Lorenzo Milani. Gli ultimi e i primi, Clichy, 2015.

A. Cecconi, S. Zecchi (a cura di), Biografia per immagini, Società Editrice Fioren-tina, 2021.

A. Corradi, Non so se don Lorenzo, Feltrinelli, 2012.

M. Gesualdi (a cura di), Don Lorenzo Milani, Una lezione alla scuola di Barbiana, Lef, 2004.

La parola fa eguali: Il segreto della scuola di Barbiana, Lef, 2005.

Lettera a una professoressa quarant’anni dopo, Lef, 2007.

L. Milani, Esperienze pastorali, Lef, 1957.

L. Milani, Tutte le opere, ed. diretta da A. Melloni, Mondadori, I Meridiani, 2017.

Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Lef, 1967.

D. M. Turoldo, Il mio amico don Milani, Servitium, 1997.

L’obbedienza non è più una virtù. Documenti del processo contro don Lorenzo Milani, Lef, 1968.