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Mormoro: «Benedetto tu che vieni. Chiunque tu sia e qualunque messaggio mi rechi, so che vieni nel nome del Signore».

Margherita Guidacci

Firenze, 27 luglio 1984…

Quel giorno, dotta pellegrina umile di cuore – «io non so quale mare dovrò traversare, ma mi preparo oscuramente a traversarlo» –,

volesti salire di buonora, fra garruli incroci di rondini corsare, al secolare convento francescano che regalmente ingemma, stagliandosi, incantato e incantatore,

contro attònite lagune e veroniche di cielo ormai solcate da sempre più rare e soffuse Costellazioni della Chimera

(l’inaudito prevaricare della barbarie quotidiana ha deturpato persino i colori della musica

del penultimo arcobaleno dell’Impulso e della Ragione…), il mistico «clivo lunato» (così il Carducci del sonetto Fiesole) dove, per chi sappia (o voglia) perdersi nel silenzio estatico del proprio volo interiore, il Vero-Vero ancora consuona

con l’armonia assoluta del Cantico sublime del Giullare di Dio.

Ricordi, cara Margherita? Ricordi? Sembra appena ieri… (Nondimeno sono giusto ventinove anni dalla tua repentina, notturna dipartita…).

Dunque, rammenti? Oh, le pietre i legni le modanature il pèrgamo le pale d’altare gli affreschi l’insegna augurale di san Bernardino i bronzi d’epoca Ming del Museo missionario

marsan

le superbe reliquie dell’arce contesa (assiso sul canòpo avìto il fantasma d’un etrusco cinto di laurei serti

seguiva sornione i nostri lenti e mirati giri di valzer…).

Allorquando ti sorpresi raccolta in fervente preghiera (il volto celato da corimbi d’oleandro niveorosati) riandai ai tuoi scabri versi terribilmente sofferti e sinceri – «Il mio dolore mi sta sempre davanti»

«tra file di morti e file di non-esistenti

cresce intanto lo spazio dove imperversa la ferocia»

«Mio Dio salvami dalla parola condotta in parata»

«Chi ci darà coraggio? Dov’è la nostra speranza?»

«Il mio grido, Signore, è d’esilio»… –

e alle profetiche riflessioni in forma d’inno o d’oratorio (ognora mèmori, sull’onda lunga delle tue mirabili traduzioni, delle voci predilette di John Donne

Emily Dickinson e Thomas Stearns Eliot)

sul mistero della Vita della Morte della Fede della Rinascita – sigillo del tuo ineffabile Altro talvolta financo temuto quanto, nel contempo, intimamente e fatalmente patito e vieppiù seraficamente agognato.

Parevi genuflesso angelo di luce e del perdono…

Furtivo, uscii di chiesa al richiamo festoso d’una squilla inopinata – torno torno il prato riarso incalzavano audaci

la gramigna bianca e falcati tralci d’edera

(e ad ingemmare la negletta siepe adùsta, una spalliera di rose – anzi, il furore delle rose canine

quale riverbero dell’aforisma delle Grazie

«il Sapere si rigenera solo nella Bellezza»…).

Poi, nell’enigma dell’ora,

raggiante al pari d’una novella sposa

(«Non è l’amore ad abitarci, siamo noi che abitiamo l’amore») mi venisti incontro nel fulgore disteso del sagrato

come sospinta da gaudiosi cori lontananti

che dal passato, ammonendo, evocavano il futuro…

Sulla via del ritorno, diafane comparse in attesa d’una bava di vento, indugiammo di buon grado complice un rabesco d’ombra a foggia di sudario (nell’assedio impietoso del meriggio fiesolano il frinire spiegato delle cicale ebbre di calura echeggiava sciamando fra le lapidi sonnacchiose del belvedere ornato di dediche e mottetti)

margherita guidacci

al limitare della balaustrata dei sospiri protesa sulla lenta agonìa dei giardini e degli orti terrazzati;

e nemmeno l’assólo prolungato del capirosso tuffatosi nel verde severo d’un cipresso smagàto ci distolse dal compiaciuto scrutare l’orizzonte di là dall’estrema cerchia dei crinali opalescenti – finché un macaóne si posò quasi per sfida a un palmo dalla nostra specola insperata…

Immobile, le ali ocellate dischiuse a ventaglio, stava in posa su un arbusto, come in croce.

«È un dono della Provvidenza», sussurrasti – e fulmineo il tuo sguardo di tenerezza si tinse

d’un giallo zolfo venato di nero e d’una stilla di rosso porpora.

Per un istante

pressoché mimando, rapita, vaghe movenze di creatura etèrea tradisti il desiderio riposto di fuggire con lei

fidente di approdare, in perfetta letizia, a remote spiagge, convalli e cittadelle non ancora infestate dalle maschere impudenti del potere (memento homo: «Siamo polvere, torneremo polvere»).

Di poi, chinata la fronte sulla piccola amica cortese

e in virtù della tua sorgiva sapienza di strenua Vestale della Parola le chiedesti, ben attenta a non turbarla,

«Perché dunque mi sento in esilio?».

Commossa, ripetesti invano la domanda. Quindi, rivolta a me:

«Nell’arte cristiana, se raffigurata sulla mano del Bambino, la farfalla è simbolo rivelatore dell’anima umana risorta».

«Nei dipinti profani, le Ore hanno sovente leggiadre ali di lepidottero come pure Zefiro, lo sposo di Flora»

aggiunsi premuroso a fior di labbra.

Non replicasti. Tacemmo. Finalmente appagata lei s’involò in un baleno – e fu subito il vuoto (o una visione altra della Maestà della Natura

non appena si sia trasposto il limite mentale del sentirsi vivere sconfinando, per speculum et in aenigmate, nel sentirsi morire?…).

E nell’immensità dell’attimo sospeso mi piacque immaginarti (disperatamente felice o felicemente disperata?)

insieme a san Juan de la Cruz, «en una noche obscura», innanzi alla fulgida Soglia che placa l’angoscia

del prodigo penitente – notte alma di beatitudine in cui contemplar s’impone al transito della Cometa e, dal crudo Calvario, al lampo del gesto immane

marsan

che discosta il macigno sospinto all’ingresso del Sepolcro…

«Anche le timorate farfalle hanno il loro destino»

epilogasti già preavvertendo il commiato.

E scendemmo, ormai arresi,

quali stremati naufraghi pur sempre ansiosi di nuovi segni…

Invero, cara Margherita, da che mondo è mondo il dolore e la cenere sono davanti a noi, in noi, e gli ossessivi «anelli del tempo»

non offrono respiro né a vincitori né a vinti

saldandosi beffardi al coperchio d’ogni urna – ut unum sint?

D’altronde, confortato o meno dalla propria stella azzurra,

«Nessun fiume conosce la sua foce / finché non vi giunge»…

Scarperia-Firenze, 25-28 novembre 2021

I tre versi in epigrafe sono tratti dalla raccolta postuma Anelli del tempo, Edizioni Città di Vita, Firenze 1993, p. 28.

Margherita Guidacci è nata, a Firenze, il 25 aprile 1921 ed è morta, a Roma, il 19 giugno 1992. È sepolta nel cimitero di Scarperia (Firenze), dove mi auguro – diletti amici del «Governo» – di poter un giorno (non lontano!) riposare finalmente an-ch’io, peraltro ben orgoglioso di essere cittadino onorario di quell’antico e nobile borgo, non a caso annoverato «fra i più belli d’Italia».

Un ringraziamento particolare a Carlo Lapucci, Riccardo Tacconi e Andrea Ulivi per l’amichevole collaborazione.

Corrado Marsan, poeta e storico dell’arte

Serafino De Tivoli, L’antica pescaia a Bougival, 1877-1878, olio su tela, cm 89,5x116, collezione privata