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Il settimo centenario della morte di Dante Alighieri è qui ricordato con il primo monumento che fu a lui eretto a Firenze in Santa Croce in oc-casione del quinto centenario della sua morte nel 1821: il suo cenotafio.

Si ripercorre brevemente la storia di questa opera e le consuete polemiche fiorentine che ne seguirono.

C

ome tutti sanno Dante Alighieri, oltre a essere stato un gran-de poeta, ha svolto a Firenze anche attività politica, di parte guelfa, rivestendo importanti cariche pubbliche: tra l’altro fece parte del Consiglio dei Cento. Ma quando i guelfi si divisero in Bianchi e Neri, Dante scelse la parte bianca: purtroppo era quella sbagliata, perché fu sconfitta e per i perdenti non rimase che l’esilio.

E così fu per Dante, che non rivide più la sua amata Firenze e il suo

«bel San Giovanni», peregrinando per varie corti, non dimentican-dosi però di mettere all’Inferno, tra gli altri, i suoi nemici. Finché morì a Ravenna il 14 settembre del 1321, dove le sue spoglie furono poi raccolte in un mausoleo.

Prima che termini il settimo centenario della sua morte, vorrei anch’io ricordarlo, a mio modo, descrivendo il primo monumento eretto a Firenze a parziale riparazione del suo esilio: cioè il suo cenotafio (tomba vuota) nella basilica di Santa Croce.

Già Ugo Foscolo, commosso alla vista dei sepolcri in Santa Croce, evocava le ombre di Dante e di Petrarca scrivendo:

«Con questi grandi abita eterno: e l’ossa fremono amor di patria. […]».

Nel 1818 fu emesso un manifesto per l’erezione nella basilica di Santa Croce di un monumento a Dante, che fu sottoscritto, tra gli altri, dal

malanima

senatore marchese Gino Capponi, dal pittore Piero Benvenuti e dal politico Vittorio Fossombroni il quale scrisse: «Veniva lo straniero a visitar questa Terra prediletta all’Italiche Muse, e un Monumento, un Sasso non vi trovando alla memoria consacrato del primo Padre di quelle, del divino Alighieri, sdegnato ne ripartiva. Ciò non avverrà più quind’innanzi; e nel Pantheon Toscano, fra le tombe dei nostri uomini Grandi sorgerà un degno Mausoleo per onor di quell’uomo grandissimo, o piuttosto per ammenda dell’ingiustizia della Patria».

Lo stesso Giacomo Leopardi, entusiasta dell’iniziativa, compose una famosa ode, Sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze:

«Volgiti indietro, e guarda, o patria mia, Quella schiera infinita d’immortali, E piangi e di te stessa ti disdegna;

Che senza sdegno omai la doglia è stolta:

Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti, E ti punga una volta

Pensier degli avi nostri e de’ nepoti.

[…] Volgiti agli avi tuoi, guasto legnaggio;

Mira queste ruine

E le carte e le tele e i marmi e i templi;

Pensa qual terra premi; e se destarti Non può la luce di cotanti esempli».

Anche il drammaturgo Giovan Battista Niccolini scriveva: «Io prendo augurio dal Monumento a Dante che sorgerà tosto tra noi, esser viva nell’animo nostro la riverenza per gli avi, ed alte speranze pei nostri nipoti. Placate, o artisti, l’ombra dell’Alighieri, rallegratevi che la fortuna conceda a voi quell’onore che invidiò a Michelangelo».

L’incarico per l’esecuzione del monumento fu dato a Stefano Ricci, scultore accademico classicista, che aveva già realizzato altri monu-menti in Santa Croce. Già nel 1819 aveva realizzato il modello in gesso.

Ma dovendo rispondere ad altri incarichi, il monumento in marmo completo sarà pronto solo nel 1830, quando nel marzo di quell’anno ci fu l’inaugurazione.

Non fu un grande successo. Ci furono critiche sia sulla scelta del luogo – qualcuno avrebbe voluto una soluzione più laica, magari nella Loggia dei Lanzi – sia sul piano stilistico; altri avrebbero prefe-rito una soluzione meno fredda, più rivolta verso il movimento del romanticismo storico che si stava affermando, più sensibile ai temi della realtà che non all’idealismo astratto classico.

Critiche ideologiche e stilistiche riassunte in un articolo dello

scrit-il cenotafio di dante in santa croce

tore Niccolò Tommaseo che avrebbero dovute essere pubblicate sulla rivista «Antologia».

Comunque, il monumento realizzato, se non è un capo d’opera è un dignitoso complesso scultoreo funerario.

È formato da un basamento con la scritta: «danti ∙ aligherio / tvsci / honorarivm ∙ tumulum / a ∙ maioribvs ∙ ter ∙ frvstra ∙ decretvum / anno ∙ m.dccc.xxix / feliciter excitarvnt».

Sopra è il sarcofago vuoto con alla sinistra l’Italia turrita che regge un’asta torciera, e sulla destra la Poesia piangente che tiene tra le mani delle carte e una corona d’alloro. Al di sopra dell’urna c’è un parallelepipedo sul quale è assiso Dante con il cappuccio medioevale, ma con il torace seminudo come un poeta classico. Sulle ginocchia ha la Divina Commedia, sopra la quale appoggia il gomito del braccio e la mano sorregge il mento del solito volto grifagno. Sul fronte del parallelepipedo è posta una scritta che in modo un po’ sibillino recita:

«onorate l’altissimo poeta».

Ora il distratto turista che si aggira per la chiesa, con il naso all’insù, tra i foscoliani sepolcri delle «itale glorie», quando si imbatte in quella scritta è certamente preso dal dubbio se quella si riferisca alla posizio-ne della statua del poeta, appollaiato come un’aquila sulla cima del monumento, oppure – come era sicuramente nell’intenzione di chi l’ha scritta – alla vertiginosa e irraggiungibile altezza della sua poesia.

Giovanni Malanima, architetto

Telemaco Signorini, Aspettando, 1866-1867, olio su tela, cm 119x64,

Livorno, Collezione Angiolini

macchiaioli, la bellezza quotidiana